La maggior parte delle parole la piccola bambina, con i suoi cinque anni e mezzo, non le comprendeva nemmeno, ma capiva che non erano parole dolci, chissà se mamma un giorno le avrebbe spiegato il significato. Mamma… lei che non sapeva nulla, non si accorgeva di niente; o almeno così pareva. Una volta l’aveva sorpresa a piangere disperatamente perché l’avrebbe lasciata l’intero pomeriggio con papà, mentre lei aveva delle commissioni da fare. L’aveva sgridata tantissimo. “Sofia! Per l’ultima volta ti avverto! Se non la smetti di piangere ti arriva uno schiaffo! Tu e papà andrete al parco e giocherete! Non ci sono motivi per fare questi capricci”. Sofia smise di piangere, ma ovviamente non andò al parco con papà quel pomeriggio, e lo schiaffo se lo prese lo stesso… col senno di poi avrebbe preferito riceverlo dalla mamma. Quando era tornata a casa la mamma aveva notato un taglio sul labbro della piccola, ma aveva creduto, o almeno aveva finto di farlo, alla storia di papà, mentre lei, troppo spaventata per parlare, aveva taciuto tutto il tempo.
Questa era solo una delle tante volte in cui lui perdeva il controllo; era solo un granello di sabbia in un mare immenso. In quell’occasione si era arrabbiato perché la bambina voleva aprire la finestra, in modo da poter osservare i bambini che giocavano, giacché non aveva il permesso per uscire e prendere parte ai giochi in prima persona. Ma lui era troppo sbronzo e ogni rumore lo infastidiva come una martellata in testa, e troppa luce gli urtava la retina. Così quando Sofia aveva aperto la finestra, lui non aveva più risposto delle sue azioni. Ora lei era lì inerme sul freddo pavimento di marmo in seguito allo spintone ricevuto. Aveva battuto la spalla destra nell’impatto col pavimento, ma non voleva piangere. Doveva essere coraggiosa. Sapeva che lui si stava avvicinando e il terrore si impadroniva sempre più di lei, così per pensare ad altro aveva preso a contare le macchioline nere sulle mattonelle del pavimento. “1, 2, 3, 4…”. Non che questo potesse cambiare la situazione, lo sapeva; infatti, dopo pochi istanti sentì l’incombenza del suo corpo su di lei. Si Stava togliendo la cinghia dei pantaloni come faceva sempre. Sofia ormai era rassegnata e si preparò al colpo. Quel colpo che brucia, taglia la pelle, ma ancora di più perfora l’anima. Ma il colpo non arrivò; non quella volta. Al contrario lui la sollevò da terra e se la mise in spalla. Una scena quasi normale vista da estranei, un quadretto padre/figlia perfetto; ma lei non poté fare a meno di iniziare a urlare e dimenarsi. C’era qualcosa che non andava, quel contatto, quella quiete e quel silenzio. Aveva usato una certa insolita delicatezza nel sollevarla, come se stesse attento a non farle male. Si era aspettata di essere picchiata come succedeva ogni volta che lui si sfilava la cinghia dai pantaloni, ma ora si ritrovava lì a penzoloni senza capirne il motivo. Quando iniziò a urlare lui le mise una mano sulla bocca per farla tacere, bloccandole quasi il respiro, e salì le scale fino alla cameretta. Sentiva puzza di sigaretta e birra, aveva la nausea.
“Ora ti toglierò la mano dalla bocca, ma tu devi fare la brava perché papà è già abbastanza arrabbiato e ubriaco. Vedrai che se non gridi sarà tutto più facile. Ok piccola?”
Non andò così. Non fu facile. Fu il peggiore degli incubi. Lui mollò la presa dal viso e lei iniziò a dimenarsi e strillare con tutto il fiato che aveva nei polmoni. La botta in testa fu così forte che per qualche minuto perse i sensi. Quando riprese conoscenza il primo senso che riacquistò fu l’udito. Sentiva solo una specie di grugnito affannato. Poi incominciò a vedere, non era chiaro ciò che aveva davanti, c’erano solo pelle e peli. In seguito il tatto; a quel punto il dolore invase il suo corpo mentre qualcosa violava il suo basso ventre; si sentiva percossa da un movimento veloce e costante. Non capiva cosa fosse e cosa succedesse, sapeva solo che faceva un male mai provato prima e si sentiva lacerata all’altezza dell’inguine. Come mille lance, come lava bollente, come un coltello dalla lama affilata. Un forte odore di sigaretta le invase in pieno le narici e delle gocce di sudore le caddero addosso dall’alto. Non poteva gridare, la voce l’aveva abbandonata, forse per sempre; non poteva muoversi perché impedita dal peso di lui, che le aveva bloccato i polsi con una mano. Girò la testa e vide Susi, la sua pecorella di peluche, che le aveva tenuto compagnia e fatto coraggio nelle lunghe notti solitarie quando aveva paura del buio. Non voleva che Susi assistesse a questo osceno spettacolo. Una lacrima le solcò il viso mentre pensava “Chissà se mamma si accorgerà di qualcosa… magari darà retta almeno a Susi che ha visto tutto”.
Qualcosa di caldo le colava dalla fronte, ma quando arrivò alle labbra capì che non era sudore e nemmeno una lacrima, ma sangue; la botta in testa aveva fatto i suoi danni. Intanto quel movimento veloce e costante continuava. Il dolore era troppo forte, non lo poteva più sopportare. Lui diede un ultimo forte gemito prima di fermarsi e crollare con tutto il suo peso sulla sua bambina. Stava morendo, pensò lei, non si può sopravvivere a tutto quel dolore; non può reggere un peso del genere un cuore così ingenuo. Aspettava senza muovere un dito di tirare l’ultimo respiro e non vedeva l’ora.
Non morì in quell’istante, anche se avrebbe voluto. Anzi avrebbe preferito morire quella stessa mattina quando si era alzata e aveva giocato con Susi, prima che avesse inizio quell’incubo. Alzò lo sguardo verso il centro delle gambe da dove proveniva il dolore e vide sangue sul suo lenzuolo di Barbie, dopodiché ci fu il buio totale.
*
LEI…
Crak crak. Crak crak. Si dimenticava sempre di cambiare la suoneria della sveglia; ogni mattina si prometteva che l’avrebbe fatto, ma poi c’erano sempre mille motivi per scordarsene e quindi si ritrovava a odiarsi tutte le volte che suonava. Quel gracidio di rana era insopportabile. Aurora, con una fatica tremenda, lentamente socchiuse gli occhi e fu abbagliata dalla luce solare che entrava dalle finestre. Guardò l’ora e si rese conto con disappunto che la sveglia era già stata rimandata diverse volte, e questo significava ritardo al lavoro. Non era da lei, solitamente era un orologio svizzero, ma quella mattina andò così. Almeno era una bella giornata, questo di sicuro contribuì a farle appoggiare i piedi a terra e darsi una mossa. Adorava le mattinate soleggiate e calde di settembre, tutto sembrava più allegro e la vita molto più leggera.
L’appartamento in zona Circo Massimo a Roma era molto ampio: un ingresso lungo e stretto che sfociava in un salone dove stavano comodamente un divano bianco ad angolo, una poltrona anch’essa bianca, una tv Sony 55 pollici, un’immensa libreria gremita di libri e dvd, un tavolino di cristallo davanti al divano. Sulla destra c’era l’ingresso della cucina. Era una cucina abitabile con il piano cottura, lo spazio per un tavolo al centro della stanza e una grande finestra che affacciava sulla strada di sotto. Invece a sinistra della sala si arrivava a un corridoio, con una porta in fondo e una sulla sinistra. In quest’ultima era situato il bagno. Piastrelle lilla (le aveva trovate così, se no se le sarebbe risparmiate), un lavandino doppio, bidet, doccia e una vasca da bagno con idromassaggio. Per quanto riguarda la stanza, ci sarà modo di esplorarla in altre occasioni.
Bevendo di corsa il suo caffè, categoricamente senza zucchero, Aurora pensava alla giornata che la aspettava. Non sarebbe stata facile, in fondo il primo di giorno di scuola in un istituto nuovo è motivo di ansia non solo per i bambini, ma anche per le maestre. Faceva quel lavoro da tre anni, ma non veniva mai riconfermata nello stesso istituto, così ogni settembre doveva ricominciare da capo: nuove colleghe, nuovi bambini, nuove abitudini, nuova scuola. Si era informata un po’ su quella dove sarebbe andata quest’anno: si trovava in periferia e aveva sentito dire che era una scuola “limite”, una di quelle scuole dove i bambini sono piccoli adulti, dove ci sono situazioni molto difficili e le maestre non hanno autorità sugli alunni, non tanto per i piccoli, quanto per i genitori. Nessuno vuole trovarsi minacciato per aver messo una nota al bambino sbagliato, o peggio per aver notato qualcosa che non doveva notare. Ma Aurora era determinata su certe cose, prima fra tutte il suo lavoro. Fare la maestra per lei era molto di più che insegnare a leggere, scrivere o che cos’è la fotosintesi clorofilliana; sì, tutto ciò è fondamentale, ma per lei le maestre che prendono seriamente il proprio lavoro possono cambiare il mondo in qualche modo. Era una sognatrice appassionata, vedeva il bello in ogni cosa, e sperava sempre nel cambiamento.
Dopo la colazione corse in bagno a lavarsi e vestirsi e una volta pronta come di routine si piazzò davanti al grande specchio del corridoio fuori dal bagno, che costituiva uno dei motivi per cui aveva scelto quell’appartamento. Come ogni mattina vide riflessa la sua immagine. “Non male” si ritrovò a pensare per una volta. Davanti a sé vedeva una donna di 27 anni, alta 1.67 (vero, c’era un po’ di tacco nei sandali color panna estivi che aveva ai piedi), magra ma non secca, una terza di reggiseno, pelle olivastra, denti grossi (forse un po’ troppo), occhi grandi e verdi, definiti da molti uomini “da cerbiatto”, e capelli lunghi fin sotto il seno, di un castano scuro. Sul naso aveva diverse lentiggini. Portava una gonna color verdone lunga fino alle ginocchia, una camicetta bianca a maniche corte infilata nella gonna e sopra un maglioncino leggero color panna, abbinato alle scarpe. Rimase più del solito a fissare la sua immagine, sentendosi fiera e soddisfatta, infine raccattò le sue cose e si avviò alla metropolitana. Sarebbe andata a piedi, aveva tempo ed era bello passeggiare un po’ per andare al lavoro, l’estate agli sgoccioli regalava ancora giornate limpide e calde.
Stava quasi per raggiungere la metro quando un’espressione di terrore le si dipinse in viso. Dopo pochi istanti passati pietrificata si decide a girare i tacchi e fare marcia indietro. Tornò indietro verso casa correndo alla velocità della luce, incurante degli sguardi curiosi e delle imprecazioni dei malcapitati che si imbattevano in lei. Correva, correva senza nemmeno guardare per attraversare la strada, tanto che più di una volta rischiò la vita, quando si sentì schiantare contro qualcosa o qualcuno di molto grosso e cadde fragorosamente e dolorosamente a terra.
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