E tu, con quegli occhi sfuggenti, per un attimo fermi nei miei, mi hai detto “ Ti devi posizionare dove sei. Viva, sotto un albero, come siamo adesso, ad ascoltare la vita che pulsa sotto i tuoi piedi”. Cosa volesse dire, questo, davvero non lo sapevo, non riuscivo proprio a decifrarlo, ma ti guardavo, mentre ti facevi una sigaretta. Mi è sempre piaciuto osservare le persone nelle loro occupazioni quotidiane. Osservare le mani che fanno una cosa che sanno fare, da sempre, da tanto. Il corpo che risponde a comandi impercettibili che ormai non hanno nemmeno più bisogno di pensiero. Mi hai passato una sigaretta, stavo per dirti “non fumo, grazie”, ma la tua mano decisa mi ha fatto portare la sigaretta alla bocca, l’accendino alla mano, il respiro che si altera per vedere la brace accendersi e il fumo uscire. Hai acceso la tua. Il fumo si attorcigliava sopra le nostre teste, e io ho sentito di poterti raccontare tutto. Ti conosco da mezz’ora, devo averti sussurrato, ma sento che la vita scorre e ho bisogno di lasciarla andare. Non hai parlato, hai continuato a portare la sigaretta alla bocca, le gambe attorcigliate come solo una ballerina di un carillon può fare. Gli occhi mi hanno detto che sì, era il momento per aprire il vaso di Pandora, per guardare dentro, affondare le mani ed estrarre, fumanti, i miei pensieri.
Ho cominciato a piangere piano, e a capire quello che era giusto. “ Da tanti anni… da tanti anni non sono felice” e solo dicendole ad alta voce le parole diventano reali. Solo sentendole pronunciare diventano corporee.
Cosa devo fare, non lo so.
Mi hai preso una mano. La sigaretta ormai spenta nell’altra. Vieni, mi hai detto, ti faccio vedere una cosa.
Nel giardino, nel cortile del locale da cui la musica arrivava come da un’altra dimensione, mi hai trascinato sotto una pianta enorme. “E’ un ginko. Una pianta antichissima. Un fossile di se stesso. E’ bellissimo non trovi? è bellissima, anzi, mi viene da pensarla al femminile. Le sue foglie, d’autunno, sono d’oro. Scaglie d’oro di un pesce fantastico, quando cadono roteano un po’, per la forma che hanno. Le vedi? sono gonne al vento, piccoli tutù destinati a trasformarsi e a diventare ventagli d’oro che volteggiano nel vento. Ci rivediamo qui, quando sarà la stagione? “
Senza parlare, ho alzato la testa verso la chioma maestosa di un albero enorme. L’aria tiepida faceva muovere piano i suoi rami, le foglie ondeggiavano, sopra la mia testa. Ho respirato profondamente, asciugato le lacrime che scivolavano lentamente sulle mie guance. Ho pensato alle stagioni, al colore delle foglie, al profumo dei tigli che arrivava da chissà dove. Ho pensato per un attimo alle tue parole, alle mie, di poco prima, all’effetto che la musica (Pink moon, forse? il vento la portava altrove) produceva sulla mia pelle. Mi sono girata e tu non c’eri più. Ho intravisto la tua figura sinuosa tra la gente, la tua gonna viola sobbalzare in un saltello, e ho pensato alla pianta che resiste, alle foglie nuove che faticosamente arrivano a maturazione, alla gioia di un germoglio, alla tenerezza di una foglia giallo oro che cade.
Nel primo cassetto
Nel primo cassetto. Le fotografie sono rimaste dove le aveva messe mia madre, quel giorno che aveva deciso di fare un po’ di spazio nell’armadio grande del soggiorno.
Non so come, ma era riuscita a ricavare un sacco di posto per farmi mettere dei libri che in camera non ci stavano più. Disse che non aveva buttato via nulla, aveva solo utilizzato meglio lo spazio.
Nel primo cassetto di questo mobile basso, di legno scuro, che a mia madre non piaceva, per questo l’aveva messo nell’angolo, dove la porta aprendosi lo nasconde. E la porta stava sempre aperta, quando c’era lei in casa. Spalancava la porta perché non le piaceva stare negli spazi chiusi, non l’ha mai chiamata claustrofobia, ma non sopportava le porte, e preferiva tenere le finestre un po’ aperte, anche d’inverno.
C’è un grosso album di pelle blu scuro, un po’ consumato negli angoli, pesante e ingombrante, esplode un po’ quando apro del tutto il cassetto, sembra essere rimasto compresso lì dentro per troppo tempo, esce fuori e si mostra a me in tutta la sua vecchiaia, e in tutto il suo composto rigore mi chiede di essere sfogliato.
Oggi mi concedo di ricordare.
Che giorno è oggi? Non ci sono calendari, in questa casa, non sembra nemmeno vissuta. Mio padre è una presenza discreta, non lascia tracce. Io ci vengo troppo poco per lasciare segni, per portare un calendario. E’ il 26 gennaio.
Sono passati più di due mesi. Era il 23 novembre. C’era vento, e il sole timido entrava dalle finestre socchiuse. C’era troppo silenzio intorno, al mio risveglio, troppo silenzio per essere una giornata di vento.
Mi ricordo nitidamente, di aver chiuso gli occhi ancora un istante. Di aver sperato che fosse solo una sensazione.
Ora voglio mettermi a sedere sul mio letto, quello che era il mio letto in questa casa, e in realtà sono solo due inverni che non è più casa mia. Voglio sedermi e sfogliare le fotografie, guardarle una per una, e piangere.
Mi piace richiamare il pianto, ritagliarmi uno spazio per piangere.
Nella prima foto non c’è, la mia mamma. Ci sono le sue sorelle: Adele, che ora ha sessant’anni, in questa foto ne avrà quindici. Sorride, abbraccia Carla che fa una smorfia buffa, e tiene in mano un gattino, spaventato, giallino, nella foto, come i loro capelli, come il muro della casa dove abitavano, non tanto lontano da qui, che fa da sfondo.
Giallo un po’ consumato anche il bordo della fotografia, il margine che una volta doveva essere bianco, ondulato, per farlo sembrare una cornice.
Giro la pagina piano, emozionato. Ho visto queste immagini decine di volte, ho già sfogliato queste pagine e so cosa mi aspetta.
Appoggio la pagina al dorsetto dell’album, mi fermo e respiro, solo dopo aver riempito i polmoni abbasso lo sguardo sulla pagina. E’ lì, ed è estremamente seria, in piedi, Carla seduta su uno sgabello con le gambe raccolte, se le tiene con le braccia sotto le ginocchia.
Mia mamma dietro di lei, con delle grosse forbici in mano le taglia i capelli.
Carla avrà avuto otto o nove anni. Mia madre dieci di più.
Carla aveva dei morbidi capelli biondi, dai racconti della famiglia, e non se li voleva mai tagliare. Li avrebbe voluti lunghi, e avrebbe voluto farseli pettinare ogni mattina dal babbo, che la faceva arrampicare sul mobile con la specchiera in camera da letto, prendeva la spazzola e lisciava i capelli color del miele.
Ma la nonna, cioè la mamma di Carla, di Adele e della mia mamma, non voleva perdere tempo tutte le mattine a seguire la figlia piccola e capricciosa, e così pregava mia madre di tagliarle i capelli, ogni stagione.
In una mano i capelli biondi, grigio chiaro nella foto, e nell’altra le forbici, un po’ più scure, le mani ferme, immortalate un attimo prima del colpo secco delle lame sui capelli.
Era bella, mia madre. Aveva 18 o 19 anni. Stavano finendo gli anni ‘50. Chissà come era, avere 18 anni negli anni ‘50. Ha lo sguardo maturo e semplice, forse tranquillo.
I capelli raccolti, come si usava quando era ragazza, qualche ciuffo che le ricade sul collo, con la compostezza che solo le foto possono regalare alle immagini.
Una volta mi raccontò di quando conobbe il mio babbo. Doveva essere più o meno in quel periodo, forse aveva gli stessi capelli raccolti, quando lo vide la prima volta, al matrimonio di sua cugina Vittoria. Forse lui si innamorò di lei appena la vide, si innamorò di quel neo sotto l’occhio destro, o di quegli occhi quasi grigi, azzurri solo con il sole contro.
O forse fu lei ad innamorarsi subito, appena vide le mani grosse di mio padre, mani di un uomo pratico, fermo e solido come le sue dita. Da bambino desideravo crescere per arrivare ad avere le mani grosse e calde come quelle del mio babbo.
Forse questo colpì la mia mamma, quando aveva 18 anni e i capelli lunghi sulle spalle, castani con quei riflessi mogano che nelle fotografie di quegli anni si perdono; ma io me li immagino lo stesso, anche se li ho visti poco, solo nelle fotografie di quando ero bambino.
Nella pagina a fianco tutte e tre le sorelle, sedute nell’erba, sorridono, guardano nell’obiettivo, nelle loro pose un po’ rigide, un po’ finte, poco naturali. Adele e Carla erano sempre insieme, da ragazzine, anche se poi non facevano altro che litigare. Anche ora del resto, anche ora che Adele è una petulante zitella e Carla una cinquantenne attiva e piena di interessi. Carla ha sposato un uomo ricco, ha avuto 2 figli un po’ viziati che ora vivono all’estero. E lei si dedica al volontariato, alle amiche, alle letture.
Litigano sempre, lei e Adele, e ai pranzi di Natale in casa nostra ci si metteva anche la mia mamma, nelle discussioni. Con il tono più pacato di Carla, ma meno remissivo di Adele, e del marito di Carla, che non prendeva mai parte ai discorsi, seduto in un angolo con mio padre, silenzioso e un po’ burbero anche lui.
Ma la mia fotografia preferita è nella pagina dopo.
Oggi mi sembra che ci sia più luce, in quella foto, oggi mi sembra più bella, mi sembra che racconti un sacco di cose.
Mi parla, c’è mia mamma vestita un po’ elegante, a braccetto con mio padre. Lui la guarda, sorride con amore e la guarda. Come ha fatto per tutta la vita: l’ha amata, forse solo guardandola, senza dirglielo. Come nella foto, tenendola a braccetto, ma un po’ distante, forse per paura di sgualcirla, di turbarle il sorriso.
Lei guarda dritta nell’obiettivo, sorride, un sorriso largo e pieno di parole.
Gli occhi sicuri, che sembrano dirmi: “Ora…ora sì che proviamo a essere felici.”
Si erano conosciuti da poco, avevano già deciso di sposarsi, si amavano, erano gli anni Sessanta, avevano un lavoro e una casa, e si amavano.
Era tutto in discesa, allora.
La mia mamma aveva lo sguardo di una che ci ha provato, ad essere felice.
Con impegno, costanza, tanta volontà. Ha provato ad essere felice, e forse, forse non lo è mai stata.
Piango, oggi. Con questa foto tra le mani, il suo viso sorridente sotto i polpastrelli umidi.
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