Francesca ha poco più di quattordici anni, e non ha un problema: è il problema.
Per questo ha cercato di uccidersi qualche notte fa.
Da quel giorno in casa la situazione è peggio che mai, e lei si trova in questo limbo di rassegnazione a chiedersi come fare.
Una notte un’altra Francesca, più grande, viene a trovarla in sogno. Cerca di parlarci, di ascoltarla, di raccontarle.
Mentre l’adolescente spera in un miracolo, l’adulta non vuole farle credere che sarà tutto rose e fiori, ma quello che sappiamo è che, alla fine, Francesca è diventata adulta.
Come sarà? Cosa è cambiato?
Perché ho scritto questo libro?
Il numero di ragazzi molto giovani che tentano il suicidio non accenna a diminuire, ed è nobile che figure professionali competenti se ne occupino. questa piccola storia vera vuole accendere una piccola luce su un aspetto che a volte viene messo in secondo piano, rispetto al fenomeno sociologico: il protagonista del gesto. Potrebbe essere chiunque, tra chi incontriamo, non per forza il più triste.
Tutti a parlarne, dopo. Arrivare a quel “dopo” è tutta un’altra cosa, ma a volte si può.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Come si guardano in faccia le persone dopo aver fatto una cosa… diciamo non usuale?
Si sta soltanto con lo sguardo abbassato? Tieni il viso in una posizione particolare?
Prima o dopo però incrocerai gli occhi degli altri: non è che tu sia costretto, è statistica.
In quel caso allora, come si fa? C’è uno sguardo, un’espressione, che magari si possa imparare attraverso un manuale? L’unica cosa certa è che non so come si fa.
Tutto quello che è accaduto dopo il balcone è un imprevisto, un di più, qualcosa cui non avevo pensato. Come quando ti trovi di colpo il pomeriggio libero perché pallavolo oggi non c’è, o cose così. Allora cosa fai? Avevi quell’ora e mezza impegnata, calcolando anche il tragitto. Ora invece è libera: cosa fai? Un tempo che non doveva esistere ora c’è.
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Mi sento circa così. Ho un peso enorme addosso, gli sguardi, le urla, le lacrime (lacrime?), tutta quella rabbia.
“Ma non ti vergogni?!”, ha urlato l’accusa, non riesco a non pensarci, e in effetti sì, mi vergogno. Ma non per quel che pensa lui, no: io mi vergogno proprio perché è un ennesimo fallimento. Mi sento troppo giovane per essere una fallita. È presto.
“Voglio vedere se hai coraggio di dirlo alla mamma!”.
Odio avere coraggio. Non doveva andare così, non pensavo che mia madre avrebbe pianto così tanto, non volevo vederlo accadere. Per quello ho promesso di non provarci più, perché me lo hanno chiesto, di prometterlo.
Odio anche la mia lealtà, ora; perché se faccio una promessa poi la mantengo, non so se loro lo sanno, ma lo so io e tanto mi basta.
Ora come faccio?
È un dilemma che non mi permette di seguire le lezioni, di far caso ai compagni, al resto.
Non volevo che andasse così.
La verità è che semplicemente non volevo più. Niente, proprio.
Ma allora cosa ci faccio qui?
Vengo a scuola perché mi costringono, perché se no chissà cosa pensano gli altri.
Come fare, giacché ho promesso di non provarci più?
L’unica carta che posso giocarmi a questo punto è una forza superiore: posso pregare questa sera di non svegliarmi domani, così non sono stata io, signore e signori della giuria, come potrete vedere dai fatti, l’imputata ha tenuto fede alla promessa. È avvenuto non per sua mano.
Per trovare questi cavilli sono in gamba, com’è possibile che non li abbia convinti allora? Devo lavorare di più sulle arringhe.
Mi viene da ridere. Rido perché ho pensato a che effetto farebbe con una sola erre: “Devo lavorare di più sulle aringhe – Confessioni di un pescivendolo” presto nelle migliori librerie.
Ma che razza di pensiero è. Sono in classe, mi trovano già abbastanza strana senza il bisogno di vedermi ridere da sola. Io e la mia passione per i titoli.
Dunque la preghiera, si diceva. Delegare tutto a una forza esterna.
Sembra una buona idea. Stasera provo.
E nel frattempo? Questa sì che è una domanda utile. Nel frattempo?
Ma tanto in questo disinteresse totale, che differenza può fare?
Nel frattempo sto, dato che sono viva.
Tania Polla (proprietario verificato)
Quando si parla di arte creata per attivare un cambiamento concreto nella vita delle persone, penso a Daniela Dellavalle e a questo libro. Lo stile narrativo, incalzante e travolgente, trasporta il lettore in un vortice emotivo che passa da momenti di tensione e riflessione profonda, a momenti delicati e di grande umanità.
Racconta una storia che potrebbe essere di chiunque, perché non si sa mai quali possano essere le fatiche delle persone che abbiamo intorno. Ognuno di noi ha i propri fantasmi, e questo racconto esprime con profondità l’esperienza di una ragazza, Francesca, che ha appena tentato il suicidio. La prospettiva è unica, ed efficace nell’esprimere cosa significhi il non esserci riuscita, e il dover gestire un presente che non era previsto. L’autrice riesce perfettamente a far entrare il lettore nella mente della protagonista, con tutte le sue sfaccettature. Il senso di smarrimento è tangibile, come lo è l’ironia di tante situazioni che Francesca si trova ad affrontare. Il tutto radicato nella vita quotidiana e in dinamiche familiari, raccontate attraverso una lente specifica e in maniera tutt’altro che scontata, con un pizzico di soprannaturale. Il lettore è immediatamente risucchiato nella realtà della vita di Francesca, e ne esce rinvigorito da una lettura stimolante ed emozionante, che lascia spazio all’auto riflessione.
Questo è un libro che può condizionare in positivo chiunque si trovi a combattere contro le proprie ombre in silenzio; e permette di identificarsi e di trovare la forza di vivere la vita a pieno.