Arrivato. Entrato. Salutato. Non c’era nessuno. Guardina chiusa.
Solo un cartello: timbrare dentro.
A mezzogiorno la gente va a pranzo. Salutato. Nessuno. Entrato. Tolto scarpe. Calzini. Entrato. Spogliato. Preparato. Pisciato. Abbandonato ogni indumento. Solo un costume ridicolo e, una ridicola testa cuffiata e occhialuta. Saluto. Timbro. Abbandono le ultime cose e mi tuffo. Nuoto.
La forma fisica giunge a sorpresa. Più essa sale più è il nulla intorno a me. Il complesso senso di traffico sembra di colpo svanire dalla mia mente, quasi a non essersi mai annidato. Le mie bracciate vorticose mi librano nel letto d’acqua e, le mie gambe mi spingono. Mi spingevano. Mi spinsero. Mi sorreggeranno, spero.
La noia è figlia di un immane tragedia. Le fermate dell’autobus si compiono cicliche; eccezion fatta per le fermate saltate. Il finestrino è a volte un televisore puntato sul vicinato, un voyeurismo involontario indotto dal calore trasmesso dai raggi di sole sulle guance e, da esso amplificato.
Gli ubriachi di fuori dei bar il mattino, prima di pranzo, sono scolari che vorrebbero tornare a casa ma ancora non possono; rischiano di essere scoperti in cambio di un raggio di sole, quello che già sanno a loro più mancherà mano a mano che cresceranno.
Un aperitivo non può essere sempre lo stesso, e la commessa di provincia acquista un tono innanzi al gretto e ricco giudice, titolare della sala Bingo.
“Un Drink?”
“Si! È l’unico che bevo. Mi piace il Rum!” Afferma solerte con labbra gonfie, capelli lunghi e bruni, tette grasse ed enormi strizzate in un corpetto che invoca pietà e, un culo salvato da tacchi alti su decolletè tracimanti.
Ogni bracciata è più faticosa di quella precedente; le gambe cominciano a sprofondare e, l’inequivocabile sapore di cloro si trasforma in aspro e poi sempre più dolce sapore di limone. Le sabbie mobili mi trascinano verso il fondo, granulose e graffianti; annaspo e riesco a non soccombere. Non so come, ma riesco ancora a trarre dei respiri, fino a che un ondata liquida improvvisa non mi trascina in un gorgo schiumoso. La schiuma si mescola a quella che mi esce tra i denti e, un senso di ebbrezza mi pervade e tange il panico che mi assilla. A volte lasciare un cappello sul letto può essere più pericoloso del previsto.
Labbra gonfie e ansimanti. Orrore dietro al vetro spesso del frullatore dal quale vengo scaraventato fuori, inglobato in una goccia nella quale trovo la salvezza, atterrando su un rosso manto, prima di venire tracannato dalle fauci esose della commessa.
Labbra gonfie e ansimanti che ritrovano pace nel primo sorso di Daiquiri. Labbra pronte a concedersi al viscido giudice, ricco gestore della sala Bingo.
È sempre stato anche il mio, di drink preferito.
IL CASO DELLA TESTA DI SCARICO
Demetrio Zabinov rimase perplesso. Nel suo ufficio senza pareti né finestre non si poteva nemmeno preparare un caffè. Avrebbe tanto voluto poter tornare a casa, la sua vera abitazione, nella sua vita reale, quella iniqua.
Pochi personaggi lo inquietavano più del tizio che aveva di fronte. La pioggia che durava da tre giorni era ormai terminata da due giorni e i ricordi delle secchiate d’acqua in faccia ormai dimenticati. Le pozzanghere nei giardini, che erano pozzi scavati tra i cespugli nuovi e diversi, incorniciati dall’erba e spuntati in un solo giorno, si erano ritirate. Fu questo avvenimento umido dopo mesi di sole a risvegliare l’animo dormiente di Demetrio e a spronarlo a ricevere clienti. Nel frattempo si erano alzati i pollini bianchi dei pioppi che trasportati dalla brezza di maggio, dipingevano surreali paesaggi di gusto nipponico, spolverando il fiume di batuffoli di cotone e riempiendo il cielo e la terra di neve fatta di piccoli stracci di lino bianco che, come garze, fasciavano il paesaggio.
Nel campo un cucciolo di gatto, troppo adulto per provocare tenerezza, barcollando nell’esile corpo affamato e nel pessimo pelo arruffato, cercava debolmente di assalire due gazze ladre che molto più leste e in forma di lui, se lo rubarono.
“Mi dica signor Zabinov, le capita mai di avere in testa talmente tante cose da dover trovare nuovo spazio alle idee? Le capita mai di dover esprimere dei concetti vittima di un bisogno impellente, molto simile a quello del defecare, spesso anche per la sostanza stessa dei propri pensieri?” Questo il dialogo tipo del signor Jacopo O. Redding che si esprime spesso per binomi.
Sono talmente inquietato dalla qualità delle questioni che mi sottopone e dall’ampiezza abnorme della sua parete occipitale, che non trovo il coraggio di chiedergli se la lettera abbreviata del suo nome sta per Ortis o per Otis.
“Le capita mai signor Zabinov, di annegare nel mal di testa e poi scoprire di aver fame? Le succede mai di essere tranquillo, rilassato e sereno e, improvvisamente, impazzire come un cavallo imbizzarrito e scaricare le più immonde bestemmie al cielo?”
Chissà perché ho riaperto l’ufficio? Credevo di aver già affrontato l’ultimo caso e poi il tempo mi ha messo i bastoni fra le ruote. D’altra parte quella lettera potrebbe non essere puntata bensì accentata e quindi essere O’Redding e avere origini irlandesi. Questo ne giustificherebbe il quadrifoglio pendente dalla pinza delle sue labbra.
“Mi tolga una curiosità, signor Redding, le piace la scura?”
“No, non mi drogo! Lei si droga? È roba pesante quella.”
“No! Comunque intendevo la birra scura.”
“Certo, ovvio!”
A Pensarci bene questa informazione non mi conferma nulla. La sua faccia mi ricorda un cd masterizzato, dato l’irridescente riflesso verdastro che gli ingloba il mento e i tratti a volte interrotti, come fossero stati saltati per errore copiandoli da un volto originale. Tento una nuova strategia.
“Bob Geldof lo preferisce come cantante o come attore?2
“Le confesso che non me ne importa nulla. È la grande indifferenza. Mi importa solo che lei mi ascolti!”
“Per servirla!”
Inarca le sopracciglia, spalanca gli occhi, tossisce e mi chiede:
“Quando lancia un sasso in uno stagno esso compie tre salti, oppure uno e poi sprofonda? Il mio affonda e frantuma lo specchio d’acqua come una vetrata. Le capita mai di avere mille cose da fare e non averne il tempo, rimandando a oltranza senza però tollerare il peso del disordine che le si accumula addosso?”
“Veniamo ai fatti signor Jacopo O. Redding. Cosa le è successo di preciso l’altra sera?”
“Ero seduto sulla banchina della baia. Seduto sui miei tacchi, non lontano dai vecchi magazzini nella zona del porto.” Dicendolo estrae dal giaccone di panno verde una pipa già accesa e tira una copiosa boccata. Una di quelle pipe con il camino attaccato ad un bastoncino fine che viene a terminare nelle fauci del fumatore. Il tabacco profuma di erba di prato freddo tagliata di fresco.
Dal cielo alle mie spalle sembra soggiungere come un miagolio. Redding continua.
“Guardavo le chiatte uscire, le barche a vela spiegarsi e le balene entrare, accompagnandomi allegramente con il mio flauto Tin Whistle, quando uno strano tizio…”
Più strano di lei? Dissi tra me e me; ma evidentemente lo sussurrai.
“Come?” Si interruppe.
“Lasci perdere. Continui pure. Sono solo un po’ antipatico.” Mi sa che sono il meno indicato per simili commenti.
“Le stavo narrando di uno strano tizio. Indossava una maglietta a maniche corte di color azzurro superman con la scritta gialla A-POLLO. Blue Jeans lisi di una misura più grande e ciabatte di cuoio. Trainava un carretto pieno di cianfrusaglie. Forse un vecchio rigattiere di quelli ormai scomparsi da tempo nel nostro mondo ma con un aurea quasi divina. Si accovacciò accanto a me e cominciò a destreggiarsi con una lira accompagnando le mie melodie.”
“Sa descrivermelo ulteriormente?”
“Era sciatto e si trascinava come un ubriaco, ma lo sguardo era lucido in quella folta cornice di barba lunga e boccoli castani. Un signore dimesso ma con aria importante. Mi capisce? Lo Conosce?”
“Si, la capisco! No, non lo conosco!”
Il mio cliente indossava un paio di pantaloni di fustagno marrone con un paio di sandali male allacciati alle caviglie. Mi piaceva il suo cappello, una tuba verde schiacciata e stropicciata; d’altra parte ho una grande fascinazione per i cappelli. I suoi capelli non erano corti e le basette lunghe, rosse e vistose. La corporatura era quella di un energumeno mignon.
“A un certo punto mi disse che se ne doveva andare e che non poteva far giorno. Mi chiese anche se sapevo dove trovare del talco per sua figlia. Gli indicai un locale del centro. Per sdebitarsi mi lasciò l’indirizzo di un amico che avrebbe potuto risolvere il mio problema. La cosa buffa è che non ne avevo parlato.£
“Mh… La trama s’infittisce…” Esclamai cadenzato trascinandomi la mano lungo il viso.
“Tornai a casa a riposare e nel primo pomeriggio andai nel luogo indicatomi. Vi trovai un capannone bianco contenente un’officina. Un tizio in camice bianco mi accolse dicendomi di conoscere già il mio caso e di non preoccuparmi poiché, in fondo, si trattava di una cosa comune. Portava capelli a scodella, baffi bianchi e un paio di occhialini della nonna che gli scendevano sul naso. Dal camice spuntava un petto villoso ed era a piedi scalzi. Quando si voltò per condurmi al macchinario ebbi conferma del suo essere nudo.”
“E la segretaria? Aveva una segretaria?” Chiesi infoiato come un imbecille.
“No, signor Zabinov. Niente segretaria. Mi portò nei pressi di un apparecchio simile a un grande rotocalco, collegato ad una lamiera illuminata da led colorati che terminava con un tubo nero: un corrugato elettrico. Sentenziò quindi il suo proposito di infilarmelo. Ma mi disse di non preoccuparmi perché non sarebbe stato doloroso e mi avrebbe alleggerito.”
“Quindi?” Mi contrassi leggermente.
“Quindi effettuò questo test di scarico, tecnicamente chiamato testa di scarico. Devo dirle che mi sentì subito meglio. Vissi l’esperienza quasi assente. Percepivo solo i miei pensieri fluire nel tubo e un senso di benessere misto alla frenesia vorace della mia mente.”
Francamente diventava sempre più faticoso seguire il suo racconto.
“Finché mi disse che era tutto a posto e mi consegnò un libro di poesie, strizzandomi l’occhio e dicendomi che in fondo le conoscevo già. Era un Testo Scarico ribattezzato Scariche Scritture. Mi disse anche che avrei potuto andare avanti tranquillo e di tornare quando avessi percorso un altro po’ di strada. Mi appiccicò un bollino blu e si congedò.”
Gli occhi azzurri di Jacopo O. Reding si erano dilatati e tra le guance era apparso un ghigno misto a un sorriso. Ero davvero confuso.
“Non capisco ancora quale sia il caso da risolvere. Vuole arrivare al dunque?” Lo supplicai.
“Certo! Nessun caso. Volevo solo suggerirle una buona idea. La testa va scaricata periodicamente se la vuole mantenere in buono stato e proseguire sicuro.” Mi rispose.
Ricominciò a rovinare acqua dalle nuvole come se piovessero cani e gatti e, in effetti, un gatto cadde.
Massimo Giachetto
Wow! Sono commosso. Grazie infinite per le bellissime parole spese.
Emanuele Zamponi (proprietario verificato)
Demetrio combina l’Ulisse di James Joice con Corto Maltese, lo rende attuale. Il duo crea un’immagine realista di un vivere surreale! Ti prende come un sogno ed il difficile è svegliarsi.