Quando
arrivai in hotel con un taxi carico di stereotipi e senza aria condizionata, nell’alloggio dei lavoratori mi accolse Alejandro, un ragazzone di un metro e novanta per centoventi chili. Dopo cinque minuti si accorse che non stavo capendo nulla di quello che diceva, e che in realtà ero terrorizzato. D’altronde come biasimarmi: mi trovavo in uno scantinato buio, con blatte morte agli angoli del corridoio dalle antenne eccessivamente lunghe, e le mura bagnate di umidità; ero appena atterrato da un aereo, dopo il mio primo volo di otto ore, e un energumeno mi parlava in una lingua incomprensibile.
– No entiendes un carajo verdad? – disse sorridendo appena.
No entiendes lo avevo capito, perciò feci cenno di no muovendo il capo da un lato all’altro lentamente. Sospirò, si mise a sedere sul letto, e con una calma che gli valse la mia riconoscenza, mi spiegò tutto quello che mi doveva dire a gesti. Lo ringraziai e gli offrii una sigaretta, che lui farcì con della marijuana. Mi lasciò in camera e tornò a lavoro. Iniziai a sistemare le mie cose nell’anta dell’armadio che mi aveva indicato. In alto c’era una piccola finestra dalla quale faceva capolino il blu del cielo. Misi i miei vestiti alla rinfusa sui ripiani, il beauty con gli accessori per il bagno nello scaffale accanto, e mi sdraiai sul letto. Poco dopo mi raggiunse anche il mio nuovo responsabile. Era un ragazzo italiano di poco più di trent’anni, catanese dall’aspetto vivace e atletico. Aveva la testa rasata ed indossava un paio di occhiali da vista grandi e appariscenti, che mi ricordavano un commentatore sportivo. Indossava una camicia bianca ben stirata, che scoprii dopo essere la sua divisa, e profumava d’ambra quasi in maniera eccessiva. Era il responsabile del personale del resort: un posto per italiani nel mezzo della giungla messicana, dove invece di tacos si mangiava pasta asciutta. Mi descrisse l’albergo, e mi accompagnò per un tour esplorativo. Mi mostrò la mensa, la reception dove avrei lavorato, e mi presentò alle mie colleghe. Mi presentò il piano di lavoro delle successive settimane, e mi offrì un caffè nel suo ufficio. Mi disse che si aspettava grandi cose da me, e che era stato lui a selezionare il mio curriculum. Con il viso assonnato lo ringraziai, e me ne andai a dormire.
Ci vollero un paio di giorni per superare il jet lag, ed abituarmi ad un nuovo ritmo circadiano. Al mio primo turno di lavoro le due colleghe messicane mi spiegarono il software che utilizzavano in reception, e mi diedero un block notes dove prendere appunti. Erano decisamente affascinate dal nuovo italiano in hotel, perciò mi inventai una fidanzata in Italia per allontanare le loro pulsioni, e le loro avances. Avevo deciso che per le prime due settimane mi sarei dedicato esclusivamente al lavoro. La mia divisa era una polo bianca con uno stemma dell’hotel a sinistra, ed un pantalone color caramello troppo largo e dal tessuto scadente. Le donne invece indossavano la stessa polo ed una gonna all’altezza delle ginocchia che indossavano senza calze. Il software, così come tutte le altre procedure erano decisamente semplici, e mi adattai subito al ruolo. Calogero, soddisfatto della sua scelta, mi disse che nel giro di qualche mese mi avrebbe fatto responsabile. Non avevo alcun obiettivo professionale, non avevo nemmeno l’ambizione di essere bravo in quel che facevo, ma finsi interesse. Talvolta alla sera andavo all’Oxxo vicino l’hotel – una catena di piccoli negozi-bazar che vendeva alcolici, sigarette, caffè, giornali, ed un pò di tutto – e compravo un six di pacifico che bevevo sul tetto della casa staff dove eravamo alloggiati. Alzavo la testa e mi limitavo a fissare quel numero indefinito e indefinibile di stelle che mi sovrastava. Non avevo mai visto un assembramento di stelle così ingombrante. Alla quarta birra allungavo la mano verso il cielo, ed immaginavo di spostarle e disegnare con le loro scie luminose. Alejandro mi aveva regalato della mota2. Era diversa da quella che avevo già fumato: più naturale, non aveva un effetto psicotropo, ma conciliava il sonno meglio dello xanax.
Alla terza settimana mi chiamò il direttore nel suo ufficio: un messicano si era licenziato dall’oggi al domani, in un altro albergo lì vicino, e voleva che andassi io a ricoprire il ruolo di chef reception. Lo guardai incredulo, e gli dissi che non mi sentivo pronto. Gli dissi che era la prima volta che facevo quel lavoro, e che mi sembrava un azzardo mettere un novellino a capo di qualcosa. Versò due bicchierini di tequila invecchiata, mi porse il bicchiere, e mi disse:
- Bevi. Adesso prepari una maleta, e te ne vai diretto al Playa Arena.
Bevvi la tequila. Non bevevo super alcolici da tre settimane. Tutto apparì più leggero.
- L’hotel è in città. E’ più comodo per uscire la sera. So che ti sei dato interamente al lavoro. E’ momento di vivere la fiesta. – aggiunse.
- Dovrò imparare altre cose. – dissi tentando di fuggire da quella promozione che non avevo chiesto.
Versò altre due tequile, senza distogliere lo sguardo dai miei occhi, ed al solo vederle aumentò la mia salivazione.
– Ti preoccupi troppo. Bevi. – ed insieme tirammo giù in un sorso i bicchierini – Adesso sei più rilassato. Ti voglio là, domani. – sentenziò, rimettendosi a sedere e facendomi cenno di andare con la mano.
Quella sera Calogero mi invitò a cena da Romeo, un ristorante italiano sulla sesta. Romeo in realtà era Tiziano, un cinquantenne romano che scoprì Playa negli anni 90, e dopo cinque anni di ripensamenti si trasferì e aprì un localino di trenta coperti. Finiti i coperti, si sedeva insieme agli italiani presenti, e si finiva per creare una tavolata unica di chiacchiere e risate. I vacanzieri lo aggiornavano sulle notizie italiane, e sulle ultime novità trash, mostrandogli invidia per la sua scelta. Chi viveva e lavorava a Playa, invece, sapeva che il giovedì la cena da Romeo, a qualsiasi ora, era un appuntamento fisso. Era come uno di quei ristornati della little italy newyorkese degli anni 30. Ci si incontrava tra italiani, si sfottevano i messicani, si sfotteva l’ Italia, ci si sfotteva a vicenda e si beveva. Calogero portò la sua compagna Valeria quella sera, una colombiana con un viso dolcissimo che sorrideva tentando di capire l’italiano. Profumava di cedro, ed ogni tanto si girava a guardarmi e a riempirmi il bicchiere di vino. Aveva uno sguardo intenso, e la sua pelle sembrava morbida anche solo al guardarla. Era un’atmosfera allegra, goliardica quasi, ma io tentavo di stare quanto più possibile in disparte. Ascoltavo le storie degli altri lavoratori, guardavo i loro abiti, i loro tatuaggi, i loro capelli bruciati dal sole e dal sale. Qualcuno mi rivolse la parola chiedendomi la mia storia, ma risposi quasi a stento, tra un bicchiere di vino e l’altro, stretto in quel silenzio che mi bloccava le labbra.
II nuovo hotel era decisamente meno lussuoso, ma più grande. Era un all inclusive per americani e canadesi, dove gente passa le vacanze a bere al mattino, vomitare al pomeriggio, bere la sera, e dormire sulle sdraio della veranda della camera. Lo staff della reception era interamente messicano, e capii nel giro di pochi giorni perché mi avessero messo lì. I messicani per legge hanno dieci giorni l’anno di assenza ingiustificata: ossia possono svegliarsi al mattino e decidere di non andare a lavoro, senza nemmeno l’obbligo di comunicarlo. Una presenza italiana garantiva al direttore la copertura di quei buchi occasionali. Passai altre due settimane nella più totale devozione al lavoro. In maniera automatica il mio tempo passava tra un turno, una capatina in spiaggia, e la camera nel dormitorio dove leggevo o mi obbligavo a dormire. Iniziai a bere birra dal pomeriggio per aiutarmi a prendere sonno il prima possibile. Alejandro mi venne a trovare un paio di settimane dopo il mio trasferimento e mi obbligò ad uscire con lui. Chiamò un taxi e gli disse di portarci sulla quinta avenida. Non ero ancora uscito da quando ero arrivato. A parte quella serata al ristorante, non mi ero dedicato ad altro che al lavoro. Il taxi ci lasciò davanti all’ingresso del Coco Bongo, su una strada sterrata che incrociava una via piena di locali, attraversata da un fiume di gente con bicchieri in mano e occhi gonfi di gioia e post sbornie che si accumulavano. In quella via non c’era spazio per conversazioni, sulla quinta la vita ti invadeva spensierata, sbattendoti in faccia la sua meraviglia. Si aggiunsero due ragazze della reception, che facevano palesemente a gara tra chi delle due sarebbe riuscita a portarmi a letto. Quella sera decisi di accettare il consiglio del mio collega, e mi lasciai andare. Alejandro beveva solo birra, ma al ritmo di un litro ogni venti minuti. Visitammo ogni bar, baretto, e discoteca della strada, bevendo in ogni posto, tra risate, strusciamenti, e tentativi di comunicazione che finivano in balli. Tornammo in hotel all’alba, ci trascinammo ubriachi nella camera delle ragazze e scopammo. Due ore dopo ero in camicia bianca alla reception ad accogliere i nuovi arrivi.
“Bienvenidos al Playa Arena ,sus pasaportes por favor”
Conobbi presto anche Tulum, un paesino a circa cinquanta minuti da Playa. Mi ci portò sempre Alejandro poche sere dopo, sempre per il mio bene, come amava ripetere. Ci andammo in micro collettivo, una sorta di furgoncino adibito a bus- taxi in cui ognuno faceva il tragitto che voleva per pochissimi pesos. Tulum era la zona più hippie della riviera maya, con bar dallo stile surfisti e locali con musica dal vivo. Il più conosciuto si chiama El Curandero: un ritrovo per viandanti, turisti, argentine, messicani, trapiantati, alcolizzati, cuochi. Al Curandero non c’erano comitive, non c’erano regole. Alejandro offre a te, tu offri a David, David offre a Elena, Elena offre a Javier, Javier offre a Harris, e siccome si era tutti insieme, ognuno offriva a tutti, e sul bancone si versavano tequile e salive in scontri di baci e abbracci. Una volta a settimana il locale ospitava un gruppo musicale che di solito suonava la cumbia, ed era un vero e proprio evento in cui si ritrovavano tutti i lavoratori della zona. Quella sera c’era anche un gruppo di francesi che organizzava escursioni sulla spiaggia. Era un gruppo di fratelli e sorelle parigini che facevano affari coi canadesi, e tendevano a stare sempre in gruppo. Quella sera Alejandro offrì una birra ad una delle francesi, paradossalmente senza alcun interesse; da buon messicano amava le abbondanti, e la francesina era minuta minuta. Il fratello moro si voltò verso Alejandro, e gli disse di allontanarsi in malo modo. Alejandro si voltò verso di me, chiedendomi cosa stesse dicendo il ragazzo, ed in quel momento, causa la tequila, o gli impulsi trattenuti, mi vennero in mente Zidane e Materazzi ai mondiali, e l’unica cosa che mi suggerì di fare quel ricordo fu di dare una testata a mia volta a quel moretto con la faccia da Louis Garrel. Ne uscii con un labbro rotto e le nocche scheggiate grazie al mio amico che prese il francese per la testa tenendomi a distanza dai suoi pugni al vento.
Imparai presto a camuffare la faccia disfatta della notte con una doccia fredda e i capelli arruffatti sotto una divisa impeccabile. Calogero capì subito che avevo finto per un mese la buona condotta, ma in fin dei conti lavoravo comunque bene, pertanto mi lasciò tranquillo, senza più propormi posti di prestigio, o avanzamenti di carriera. I nostri visti turistici ci costringevano a rientrare in Italia ogni sei mesi per poter essere rinnovati. Quella mattina, nonostante i miei occhi nascosti in occhiaie profonde, Calogero mi raggiunse in reception e si sedette accanto a me.
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