Un amore profondo, lungo pochi anni. Donna magnetica, suo polo opposito: bionda bassa, occhi celestiali, voce alta non triste. Su è il suo nome anche ora che è tornata a casa, lasciandolo solo in compagnia di infinite musiche.
Abbandona ora il passato, anche quello di Oli. Passa al presente, respira profondo, leggi le parole e perciò guardati attorno. Lo vedrai alla cassa di un supermercato, periferia di piccola città, vicino-lontano a dove abiti tu. La giornata è densa di scirocco, nuvole vaporose e sole nervoso come è adesso, mese di maggio. Il supermarket è al piano terra di un solido palazzo di 4 piani, strada rada, traversata da donne tempestate di bambini: in fondo una collina la termina. Sulla collina una nuvola, sotto la collina il mare che aspetta. Subito vicino un incrocio e un meccanico per auto. Mattino, le undici circa. Nel supermercato due tre acquirenti, una commessa, e Oli alla cassa. Nell’aria musica a volume medio Baby won’t please come home di Miles Davis, da Seven steps to Heaven. Questo fatto è rivoluzionario, oggi. È un’iperbole, un paradosso in uno spazio simile una simile musica, in un mondo simile un simile uomo.
Cosa è successo?
Oli al suo inizio amava leggere e i genitori non volevano molto che così fosse. Divorava ogni cosa leggibile, persino le scritte sulle confezioni dei pacchi di pasta. Studiava anche, amava la letteratura, l’arte la filosofia la scienza, quasi tutto lo scibile, ma per fame non terminò l’università.
Parlava correttamente cinque lingue, compreso l’ugrofinnico, e adorava la musica: cercò di vivere con quella, aprendo uno studio di registrazione e incidendo dischi di musica nuovissima ma colta. Purtroppo in due tre anni tutto andò a male, lo studio venne chiuso, i dischi dimenticati.
Tentò allora un’infinita serie di attività e lavori, ma inutilmente: ogni impresa andava a finir male, oppure veniva licenziato, nonostante le sue qualità fossero puntualmente riconosciute. Leggeva Hugo e ascoltava Bartòk, eppure ogni giorno doveva andare a fare la spesa, e lì incontrava presenze arcane equivoche ed equine: persone che parlavano in strano modo, gridando e gestendo. I loro occhi brillavano in presenza del denaro, gente che guardava strano e lo derideva per via dei numerosi libri che portava sottobraccio come armatura contro il mondo. Dicevano che quando rimaneva in casa preda di malanni, i libri uscivano da soli a passeggio. Gli sembravano pazzi, erano normali. Così è la gente che vive fuori dal tuo mondo, quando ne hai uno tutto per te.
Giunse quasi per caso l’occasione del minimarket. Era grande abbastanza per attirarlo e sufficientemente impoverito per poterlo rilevare a poco.
Pagò il prezzo, assunse una ragazza anonima chiamata Sha, mantenne sparuti gruppi di clienti che varcavano timiditi la soglia e fingendo fretta declamavano l’articolo prescelto, pagavano e sparivano nel nulla. C’era comunque abbastanza cibo anche per Oli, e ciò non era male, nonostante la fine di ogni velleità di cambiare il mondo o almeno di lavorare in un campo piacevole e desiderato.
Unica gioia residua era questa: poteva finalmente ascoltare la musica preferita e in qualche modo imporne l’ascolto ai clienti.
Comprava dunque uno stereo ricco di splendidi e minuscoli diffusori sonori celati tra scaffali e angoli bui, trasferiva in negozio la collezione di dischi e iniziava la giornata ascoltando distratto ciò che la mano forniva pescando melodie dal contenitore, e continuava senza smettere mai .
Clienti lì per lì trasalivano visibilmente, mentre un raga di Ravi Shankar si arrampicava come mosca estiva lungo le pareti biancastre. Ma sorridevano pagavano uscivano. Dopo mesi Oli non ricordava un accenno alla musica da parte di nessuno. Nessun accenno a nulla.
My guitar want to kill your mama di Frank Zappa (o altro brano di grazia simile) accoglieva i radi rappresentanti e fornitori di lattughe e latticini. Costoro ebetizzavano le parole e l’assolo di chitarra, tiravano le labbra verso le orecchie (l’istruttore di turno li aveva ordinati di far ciò per aver successo), incassavano incazzati dentro e sparivano negli orridi autostradali.
Il meccanico frontaliero Wastefield -vicino di Oli- era un arcano. Veniva da così lontano che il cognome appariva anche troppo domestico. Di corporatura massiccia, aveva l’età indefinibile. Sulla pelle fiorivano numerosi peli scuri unti di olio multigrade. Abitavano lui e moglie in casetta-castello, munita di cane odioso e tedioso (non si perdeva mai un’abbaiata). Tutti costoro vivendo vicino all’autorimessa spesso fissavano stolidi il commerciante. Quando lo salutavano (di rado) lui non sentiva e viceversa. Dunque quasi non conoscevano il suono delle rispettive voci.
I clienti di Wastefield erano pochi e improbabili, così che sembrava possibile che il meccanico vivesse di rendita (o altro) e che l’attività automobilistica fosse un alibi.
Il punto era comunque un altro: Wastefield aveva una dote negativa. Ascoltava musica spaventosa.
All’inizio non ci aveva fatto molto caso, poi man mano la cosa era degenerata. Aveva quell’uomo dalla tuta grassa una radio lurida ma potente, posta su un banco da lavoro tra chiavi inglesi e cacciaviti, collegata all’interruttore elettrico generale. L’apparecchio era dunque sempre in funzione e gareggiava con l’altro (ignobile anch’esso e inoltre ignoto e invisibile), manovrato in casa dalla moglie di Waste, una donna formosa come un manico di scopa, dallo sguardo spento, capelli tinti rossicci, altezza e forme di una pianta di zucca. Speaker latranti di radio private di ogni pietà e pudore alternavano aforismi cadaverici con brani musicali provenienti da galassie lontanissime: arcaica disco music e dance techno della peggiore, canzonidelfestivaldisanremo e smielature di cantanti italici retorici come il discorso di investitura di un potente. Notiziari bellici a base di sanguinosi eventi e lugubri. Pubblicità raccapriccianti. Rumori di motori asfittici. Clacson a stormo. Voci di orchi. Una miscela esplosiva.
Oli spese una fortuna per dotare il minimarket di un impianto ad aria condizionata che come un capace carapace isolava l’interno dall’esterno e dai suoi suoni, donando pace agli acquirenti. Aggiunse un diffusore acustico all’entrata col compito di contrastare, deviare, importunare i miscellanei rumori dei Wastefield. Rifornì le orecchie di ogni suo cliente con le note di Tori Amos in Cornflakes girl o con Los Ageless di S.t Vincent (Los Ageless spiegava indirettamente alle massaie più anziane che erano da preferirsi fresche cascate d’acqua sonora e zampilli di creme all’aloe e frutti succosi e parole d’amore ai disgustosi cicalii del meccanico, forieri di sventura dietro l’idiozia dei motivetti a 4 ruote motrici, del tutto fuoristrada). Per un mese impostò questo programma:
– Einstein on the beach di Philip Glass (doveva combattere l’impigrimento mentale e la rassegnazione);
– Liberated brother di Horace Silver;
– Seven steps to Heaven di Miles Davis;
– brani vari di Regina Spektor, Stina Nordenstam e dell’argentina Juana Molina;
– Il K581, quintetto in La maggiore di W. A. Mozart, contro i digiunatori seriali. Occorre dire che, sebbene Oli non adorasse Mozart, tuttavia si era risolto al suo uso ritenendolo orecchiabile e rallegrante).
Inoltre uno schermo Tv in certi giorni emetteva ricorsivamente Coyote, il pezzo cantato da Joni Mitchell nell’Ultimo Valzer di Martin Scorsese. Inizia il secondo tempo, uno grida -Signore e signori, Joni Mitchell!-. Lei sale sul palco, si inchina con dignità, bacia uno dei due cantanti della Band, si riveste di chitarra e canta. Quando finisce saluta brevemente e torna a casa. Perfetta.
Nel corso della campagna sonora i clienti entravano mostrando timorosi il capino come galline fuori dal pollaio. Salutavano compunti e sembravano più lieti. Notò persino sorrisi di tipo nuovo, non quelli soliti e artificiali, ma quasi vivi con barlumi di intelligenza.
Un effetto secondario fu questo: tutti presero a parlare a voce bassa, eccettuata Sha che continuava a non capire le richieste da dietro il bancone. Una volta aveva cercato di dirgli che forse… Il volume e la posizione delle casse… Che magari… Si poteva spostare qua e abbassare là.
Oli la liquidava con una battuta e quella –liquefatta- non toccava più l’argomento se non con gli occhi, quand’era ben sola, che levava ratti al cielo (al soffitto) accompagnando l’atto con pensieri segreti come una terrorista.
Nel corso del tempo affinava il programma impostando sul tablet collegato allo stereo questa serie:
– Introduzione con il 4° concerto Brandeburghese di J. S. Bach
– Stuck in the middle with you degli Stealers wheel
– The Grand Wazoo, di Frank Zappa
– Eu te devoro di Maria Rita Mariano e Djavan
– Un tango argentino del compositore giapponese Ryuichi Sakamoto
– Thank you di Dido
– Before and After Science, di Brian Eno
– Pithecanthropus Erectus, di Ch. Mingus (Diffuso all’esterno a contrastare l’alto volume delle radio-Wastefield)
– Where it’s at, di Beck
– Third, dei Soft Machine (in ore serali).
Il programma veniva alternato con l’altro di cui già si è detto.
Ascolta ora l’evento. Oli dietro l’ingresso del Minimarket spia con le orecchie Wastefield. Un cliente sbussolato appena sconvolto dalle note di Zappa esce di fretta dimenticando scottex, scatoletta gatto etc. Dall’officina proviene alto tra risate l’annuncio che la nazione è sull’orlo della guerra civile. Il meccanico chino su un motore rauco parlotta con uomini a forma di chiave inglese, sormontati da crani rinsecchiti e canuti. Musichetta dance li spinge a muovere le anche andando verso il buio in fondo all’officina. Dall’ombra lampi bianchi dimostrano che costoro mentre parlano guardano verso il Minimarket… Forse alludono a Oli. Perchè?
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