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Dormienza
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Consegna prevista Marzo 2024
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Anno 2036. Dublino è la capitale europea delle Big Tech. Tutto è regolato dalla dittatura dell’algoritmo, le persone sono solo tracce di dati sacrificabili. La scienza ha imparato a trarre elettricità dalle piante, ma l’evoluzione tecnologica non protegge le persone dalle armi di distruzione matematica. Il protagonista è un giovane troll in cerca di vendetta: la sorella è una dormiente, rimasta addormentata per dieci mesi dopo essere stata molestata online; pur di vendicarla ricorre a metodi illegali. Scoperto e arrestato, viene inserito in un programma di recupero e inviato su un’isola della Nuova Zelanda, abitata da miliardari e politici influenti. Dall’altra parte del mondo incontrerà un hacker che diventerà un alleato, e una ragazza, una ex dormiente, risvegliata come la sorella dopo mesi di oblio, con gli stessi strani postumi. Grazie a lei scoprirà cosa è veramente successo durante quel lungo e inspiegabile sonno.

Perché ho scritto questo libro?

L’idea di “Dormienza” è nata dopo aver visto un documentario sulla sindrome della rassegnazione: in Svezia centinaia di bambini figli di rifugiati richiedenti asilo, terrorizzati dalla possibilità di veder rifiutata la richiesta, si addormentano e non si risvegliano, anche per mesi: cadono in una catalessi simile al coma. Per i medici è un mistero. Io credo che tutti possiamo comprendere la resa angosciata in quella fuga dalla realtà. Volevo raccontare una possibilità di risveglio.

ANTEPRIMA NON EDITATA

1

Quando mi hanno arrestato avevo ventitré anni e mezzo. Erano le cinque del pomeriggio e non ero ancora riuscito a sfruttare la mia terza pausa per andare a pisciare. Sono arrivati all’improvviso e mi hanno messo le mani addosso. Lo sgomento mi aveva contratto lo stomaco e dischiuso gli sfinteri, e sono ritornato bambino: umido e in balia degli eventi. Ero smarrito e presente; ed è stato bellissimo.

Il giorno prima ero salito alle postazioni e tutto sembrava normale, nessuno salutava. La sicurezza aveva consigliato di lasciare spalancate le porte tagliafuoco. Erano rotte da mesi e se non fossero rimaste aperte, e fosse scoppiato un incendio, saremmo rimasti bloccati senza via di fuga. Non che una porta lasciata aperta facesse differenza; in quel posto non c’era niente da salvare, niente di vero o di sano. Nessuno cercava di fare carriera, tanto meno io. Io cercavo soldi, e mi era arrivata voce che lì se ne potevano fare tanti. Facili e subito. Non mi avrebbero beccato.

Ne ero così sicuro che non ho preso nessuna precauzione, mai. Nemmeno il giorno prima, quando le guardie mi avevano guardato in modo diverso; erano in sospeso e i loro corpi trattenevano il moto. Facevo il bravo. Sorridevo anche. Fluttuavo su per le scale dell’ingresso principale, dentro l’ascensore e il grigiore sudicio. Non c’era pericolo. L’unica minaccia che mi sfibrava, a parte compromettere la mia salute mentale se fossi dovuto rimanere ancora a lungo, era Tessa: la vice del capo sezione. Tessa e le sue allusioni, Tessa e i suoi toccamenti casuali, Tessa e le sue corse per rimanere da sola con me in ascensore.

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Lo stanzone dove lavoravo puzzava di sperma e muffa. Eravamo stipati lì dentro in cinquantaquattro e verso sera sembrava di essere nella camera di un adolescente depresso; gli schermi tattili irradiavano i volti con il loro pallore digitale e ci dipingevano di giallo cadavere. Li portavamo dentro senza permesso. Erano l’ultimo sollievo che le guardie ci concedevano; chiudevano un occhio durante i controlli ed evitavano di chiederci la mancetta. Scivolavamo nelle sedie, le cuffie ficcate in testa, per ascoltare consolazioni, e poi dentro la luce blu, a guardare valanghe di merda. Prima d’iniziare mi schioccavo le dita e prendevo il caffè, un altro. Accendevo il mio schermo tastierabile, Postazione 33, e cominciavo a smistare la mia coda. Non era così male, in fin dei conti. Nessuna ambizione, nessun livello, nessuna caduta. Eravamo già in fondo. Ogni tanto dovevi scalciare per impedire ad altri di prendere il tuo posto, ma una volta dentro, potevi anche fingere di essere solidale.

Apri, cestina. Apri, approvato. Apri, cestina. L’unica finestra era troppo piccola e lontana, vicino ai bagni. Gli infissi erano sbrindellati ed era velata da tendine sali scendi tutte sfilacciate; lasciavano filtrare la luce indiretta senza farci capire che tempo facesse fuori. Se anche solo l’ombra di un ramo avesse infranto quell’incantesimo, avrei potuto respirare meglio. Capitava che immaginassi, o mi augurassi, dipendeva dal livello d’insensatezza della giornata, che il groviglio di cavi che pulsava sotto al pavimento sollevabile sbucasse fuori dagli anfratti in cui l’avevano relegato, e ci avvolgesse in un intreccio di radici elettroniche, trasformandoci in esseri umani pixelati.

Ho sbirciato il mio schermo tattile. Nessun messaggio. Le ho scritto. «Se non mi arrivano entro un’ora ti blocco anche quello che hai appena postato.» Apri, cestina. Apri, cestina. Apri, cestina. Da OcchioSocial Dublino nessuno si illudeva di fare una qualche scalata. Tuttalpiù si passava da mansione a mansione, orizzontalmente. Certo, passare da mediatore a troll era stata una gratificazione, almeno per i primi dieci secondi. La mediazione ammazzava. Nella migliore delle ipotesi la mia giornata partiva con gli ebrei che controllavano le banche e metodi risolutivi per farsi allungare il pene. Appena accendevo lo schermo un profluvio di farneticazioni e violenza salutava il mio caffè. Era la coda, e la sua lista di richieste di moderazione in sospeso. Per otto mesi avevo cestinato video di gente che faceva scoppiare petardi in bocca ai cani o che malmenava disabili, di madri che insegnavano ai figli di tre anni a farsi una canna e disperati che tentavano d’impiccarsi. Avevo castigato neonazi che blateravano di sostituzione etnica e bannato incel che volevano dare fuoco a tutte le donne. Non c’era intelligenza artificiale che discernesse, certe cosine bisognava ancora farle a mano, e allora vai: apri, cestina, apri, cestina, apri, cestina.

Ho controllato di nuovo il mio schermo. Li aveva mandati. Brava bambina. Mi sono alzato e ho fatto finta di andare in bagno. Volevo scrivere subito a Elmo e dirgli che li avevo. Peccato, mi sarei bruciato una delle mie tre pisciate. Noi avevamo turni di cinque ore con tre svuotamenti al massimo e ci toccava andare nei nostri bagni. Solo i responsabili potevano staccarsi dalla loro postazione, anche per venti minuti, e usare il bagno degli uffici dei piani alti. Privilegio che a noi, bassa manovalanza, non era concesso. Le porte dei nostri bagni, rigorosamente in comune, erano ricoperte da avvisi minatori che invitano caldamente a non intasare i cessi con preservativi e a evitare d’imbrattare le pareti con reperti organici. La prima e ultima tirata a lucido era stata data per l’unica visita di controllo di qualche sub responsabile del personale di GenteCheDice. Risultato: visto, approvato e ciao. Il consiglio di amministrazione di uno dei social con il più alto numero di utenti al mondo non aveva tempo di verificare nel dettaglio l’adesione agli standard dei subappaltatori, ma dichiarava ai quattro venti che aveva scelto di lavorare solo con partner globali altamente qualificati che si prendevano cura dei loro dipendenti e che offrivano remunerazioni adeguate. Amen.

Avevo evitato il mio riflesso in quell’unica finestra, le occhiaie grigie e i capelli tagliati cortissimi per non dovermene occupare. Mi sono fermato davanti alla porta del bagno senza entrare e gli ho scritto.

IO: Ce li ho.

Venti secondi dopo ha risposto.

ELMO: Manda.

IO: Prima il pacchetto.

ELMO: Tu manda.

Avevo il dito pronto sul tasto dell’invio al trasferimento e sono rimasto in sospeso. Erano tanti, gli stipendi di un anno, e li stavo mandando a uno che non avevo mai visto in faccia. Costava parecchio quello che volevo. Un pezzo di vita. L’avevo raggruppato in una cartella, suddivisa in altre sottocartelle: stronzo_1, stronzo_2, stronzo_3… E poi il più importante: SmaniaViola17. Se Elmo non mi avesse restituito quel pezzo di storia e si fosse tenuto i soldi senza darmi niente in cambio, me lo sarei preso in quel posto, e in silenzio. Non esisteva un ufficio reclami per quel tipo di transazioni.

Ok. Invio.

Postazione 34 è sbucato in corridoio. Era pallido e ansimante, e si era tolto gli occhiali, lasciando un’incavatura sul naso. «Terrificante. Devi vedere…» Nella coda di tutti era arrivato un video che era diventato virale. Ne arrivavano a dozzine con titoli apocalittici: orribile, per stomaci forti, le immagini potrebbero urtare la sensibilità di alcuni. Niente che invitasse di più a spararsi negli occhi l’orrore: prometterlo. Boom! Tre postazioni dopo la mia quello nuovo era scoppiato in lacrime. Boom! Postazione Spaccotutto 36 si era lanciato fuori e aveva iniziato a prendere a pugni il divisorio. Boom! Postazione 32 alla mia sinistra batteva i denti, si era avvinghiata allo schienale della mia sedia e non si era più mossa. «Oddio! ODDIO!», continuava a ripetere, «Stanno per tirarle fuori tutto mentre è ancora viva!» Postazione 34 ha infilato la faccia nel cestino della spazzatura e ci ha vomitato dentro. Ovviamente il video era un falso. O meglio: suggeriva una possibile verità sul traffico d’organi. Gli stacchi passavano da una bambina che piangeva disperata in uno squallido bunker a una sala operatoria, e per i più significava che stava per essere smembrata e che pezzettini del suo corpo sarebbero stato smistati ai più ricchi offerenti. In tre mosse nei motori di ricerca, avevo individuato che si trattava di un reportage di un salvataggio di un’organizzazione umanitaria che operava in zone di guerra, non l’inizio di un film dell’orrore. Banale sbufalamento, e non la facevo mai con toni aggressivi.

«È un falso» ho detto con calma a Postazione 34. «La bambina sta bene. La stavano soccorrendo. È sana e salva.»

«Mi sembra strano…» Ha obiettato, rimettendosi gli occhiali. Mi osservava, scettico. Lui, e tutti quelli attorno, tutta quella gente che mi vedeva ogni giorno in carne ed ossa dubitava; quel miserevole scampolo di umanità, di cui anche io facevo parte, si ostinava a credere che il verosimile fosse realtà. In quel momento ho intimamente deciso che la verità poteva fare a meno di me, e subito dopo ci ha travolti un forte odore di dopobarba scadente. Una delle guardie era sbucata all’improvviso e ci ha sbraitato contro, riportandoci all’ordine. Avevamo fatto un tale casino che Tessa, dopo essersi chiusa a chiave in ufficio, aveva chiamato la sicurezza, ipotizzando una sommossa o il raptus di un folle che si era messo ad accoltellare i colleghi. Sono ritornato al mio posto e tutti, dopo essersi asciugati le lacrime e levato il vomito dal mento, si sono riposizionati nei loro anfratti. Corpi digitanti. Fine giornata. Nessun messaggio da Elmo. Sera. Cena. Sesso con Sabine. Notte. Cinque ore di sonno e ritorno.

La mattina dopo, al controllo, stessa scena, e avevo cominciato a sospettare che non fosse una provocazione fortuita, ma non mi sono allarmato. Capitava spesso che puntassero un malcapitato senza un apparente motivo, tanto per ravvivare la paranoia generale. Mi avevano seguito con lo sguardo e si erano scambiati un’occhiata d’intesa. Erano i soliti due: Dopobarba Scadente e Pancia Gonfia, un tracagnotto con la faccia di uno che aveva appena scoperto l’ammontare dell’assegno mensile da versare alla ex moglie. Eravamo tutti sotto organico, anche quelli della sicurezza. Ho fatto i gesti abituali, con calma. Ho aspettato in fila il mio turno, con calma. Nessuna insofferenza, nessun nervosismo. Ho conversato con Postazione 34, come al solito, e abbiamo fatto gli abituali commenti sugli ultimi abbandoni.

«Eh sì, è dura.»

«È dura, sì.»

«Qualcuno regge, qualcuno no.»

«Eh sì, qualcuno no. Ma che possiamo farci?»

«Qualcuno deve pur farlo.»

«Eh già, qualcuno deve.»

Quando mi hanno controllato, hanno frugato a lungo nel mio amato zainetto monospalla, più a fondo del giorno prima. Dopobarba Scadente me l’ha restituito con un sorrisetto, ed è finita lì. Siamo saliti alle postazioni e tutto sembrava normale: verdastro, sporco e impregnato di puzza di vomito. Ho controllato i messaggi, ma ancora niente. Giocava a nascondino con il mio pezzo di vita. Nella sottocartella SmaniaViola17 avevo raccolto tutte le grida di aiuto soffocate; tutto quello che avrebbe voluto farmi vedere ma non era riuscita. Per la vergogna, e perché non le davo più ascolto.

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SMANIAVIOLA17: Ciao scema. Facci un favore e ammazzati.

MARINA: Chi sei?

SMANIAVIOLA17: Sei inutile! Ammazzati!

MARINA: Perché?

Gli ho riscritto: Sto ancora aspettando. E proprio mentre mi rificcavo lo schermo nei pantaloni è apparsa lei: Tessa. La sua faccia asimmetrica si era appollaiata sopra al mio schermo e io ero pronto a ricevere le sue segnalazioni. Tutti i bottoni della giacca del completino strutturato e troppo stretto erano slacciati, segno che una qualche remota preoccupazione le aveva allargato la gabbia toracica di almeno cinque centimetri.

«Nel mio ufficio. Adesso.» Mi ha guardato, ha sorriso e se n’è andata.

Mi sono lanciato verso Postazione 34 e gli ho mollato un gancio sulla spalla. «Ahi! Io non ho fatto niente» ha bofonchiato, mentre ripuliva da un ammasso di peli pubici la testiera presa in dotazione.

«Non credo.» Poco prima d’infilarmi le cuffie, l’avevo sentito imprecare contro lo schermo e picchiare sui tasti. «Brutto stronzo ignorante!», aveva detto. Insultava un maniaco dal complotto sionista, uno dei tanti. Postazione 34 si chiamava Srinivasa e io ero l’unico che ricordava il suo nome. Mi aveva gentilmente concesso di chiamarlo Sri, e lui poteva chiamarmi Os. Stava sempre in punta di sedia, un po’ perché aveva messo su pancia e se stava appoggiato allo schienale gli si schiacciava il diaframma, un po’ perché non vedeva l’ora di andarsene e si teneva pronto a scattare. Verso le 17:30, sedato dalla vita, ti salutava appena, si puliva gli occhiali rettangolari e correva a sgretolare lo spuntino di fine giornata al distributore automatico. Di lì a un mese avrebbe messo su altri dieci chili e lì avrebbe coperti con la sua collezione di magliette dei super eroi che avrebbe provveduto ad acquistare taglia XXL. «Si deve pur portare a casa la pagnotta…» biascicava ogni sera, mentre ruminava patitine rancide.

Doveva essere il mio ultimo giorno di affiancamento con lui per poi tornare al mio mondo di odio dinamico. Ho esitato, seduto, fermo immobile in mezzo al corridoio, con i calcagni appoggiati sulle rotelle consunte. Ho esitato, con le mani che abbracciavano le ginocchia per trovare un sostegno e la testa che penzolava in avanti. Ho esitato perché mi sarei ritrovato da solo con lei.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Metella Clemente
Metella preferisce raccontare storie di altri, per lo più inventate, piuttosto che dilungarsi sulle sue alterne carriere in teatro e nel marketing; è stata infatti attrice, regista, drammaturga, art director e marketer. Scrive da sempre: racconti, romanzi, poesie. Ha ereditato dal padre una biblioteca con più di ottomila libri che non è riuscita a leggere tutti. Le piace giocare con le parole, comporle come se scrivesse musica. Immagina storie, fin da bambina, e cerca di trasformarle in mondi. Sperimenta i generi senza focalizzarsi ed è alla ricerca del suo specifico stile. DORMIENZA è il suo primo romanzo. Irrequieta e mai in bianco e nero. Scende dal letto al Nord ed è onnivora. Una macchina, un figlio, un amore… alla volta.
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