L’area antistante le terme suburbane fu sbancata poco a poco fino a giungere ai fornici che un tempo si poggiavano sulla scogliera da dove partiva la spiaggia in sabbia nera. In quei magazzini erano stati rinvenuti tantissimi corpi con tutto ciò che avevano con sé, dai gioielli al denaro, dai contenitori di balsami alle bottiglie fino a sgabelli, attingitoi e lucerne. Uno spettacolo straziante, il fotogramma di un ultimo disperato istante. Restituiva l’immagine di persone strette in un atto istintivo di conforto, come a proteggersi l’un l’altro dalla morte. Donne incinte con i loro feti, bambini, giovani e adolescenti, anziani, tutti composti e sospesi nell’eterna attesa di una possibile e sperata salvezza che non era mai giunta. Proseguendo gli scavi si continuò con la battigia dalla quale cominciavano ad emergere altri corpi, certamente di uomini. Quella scoperta però non era riuscita a passare inosservata nonostante il terremoto che in novembre aveva scosso Napoli e le zone limitrofe causando danni ingenti ovunque; la notizia fece in un sol giorno il giro del mondo.
Il gruppo con Maggi e il sovrintendente discuteva, analizzando la situazione stazionando davanti all’ultimo fornice presso la gradinata, quando il direttore avvertì un brusio e un’agitazione degli operai poco distanti dal luogo in cui avevano appena ritrovata l’unica barca. Era quasi intatta ma tutti erano concordi sul fatto che al momento della tragedia dovesse già essere rotta e non più in grado di navigare.
Il brusio si trasformò presto in un vociare confuso ma al direttore parve di sentire distintamente la parola chiave “o’ muorto!”; anzi, udì certamente una variazione significativa della parola: “n’atu muorto”, un altro morto. Si voltò verso il gruppo di operai e archeologi ed ebbe conferma. Il gruppo era chino in cerchio sul sito e armato di pennelli, zappette, macchine fotografiche, secchi e setacci. Da quel gruppo si alzò in fretta un giovane che corse verso il direttore. Avevano trovato un altro corpo, ma non era come tutti gli altri. C’era di più.
La scena che si presentò al Maggi e al sovrintendente non aveva precedenti. Il corpo venuto alla luce era disteso a faccia in giù su quello che un giorno era stato l’ultimo lembo di spiaggia. Aveva le braccia rivolte verso l’alto come se fosse caduto in avanti spinto da una improvvisa forza titanica, mentre le dita si conficcavano nella sabbia nel disperato tentativo di aggrapparsi. Poco distante dal corpo, c’erano i resti di un pezzo di legno carbonizzato con un anello ferro; era tutto ciò che restava di una tipica torcia in sego, stoppa e pece.
Ma la cosa più straordinaria erano gli oggetti trovati sul morto. Il corpo presentava resti quasi intatti del suo vestiario: un bellissimo cingulum, un cinturone in cuoio e bronzo con delle iniziali e una effige, un gladio con elsa e fodero in cuoio e bronzo su cui erano state scolpite scene di guerra e un inseparabile pugium – un coltello d’ordinanza decorato in bronzo. Il corpo così caduto aveva inoltre preservato, per effetto dell’acqua della spiaggia, del calore corporeo, della cenere e delle polveri, un frammento del paludamentum rosso – il tipico mantello ad uso degli ufficiali legionari. Ultimo reperto incredibile, una scarsella di cuoio contenente un insolita somma di denaro in argento, rame ed oro. In più l’uomo mostrava una dentatura smagliante da cui solo un dente risultava mancante. Chi era dunque? Un fuggiasco, uno sciacallo? Aveva razziato qualche casa abbandonata prima di tentare la fuga disperata verso la salvezza? O cercava di vendere salvezza ad alto prezzo battendo cassa?
Il mistero si sarebbe potuto sciogliere soltanto con analisi di laboratorio accurate e con esami autoptici e forensi. Di certo si poteva già capire a una prima occhiata che doveva essere stato un uomo robusto poco oltre la quarantina mentre i segni sulle ossa mostravano che la sua vita non era stata facile.
Exordĭum
“Ad augusta per angusta”
Quello che vedi davanti ai tuoi occhi è ciò che resta di una vita vissuta fino al limite estremo di ogni sforzo umano. È un destino compiuto per trionfare anche in ciò che chiunque sarebbe tentato di credere una sconfitta. Si muore, è vero, ma la morte non è che una difficile soglia da oltrepassare, e di certo non è una sconfitta ma il trofeo di chi è vero vittorioso sulle prove della vita.
Questo sono io. Il mio nome è Druso. Marcus Drusus Anneius figlio di Ennio Marco Anneio e sono nato qui, nella mia Ercolano, la città fondata, come vuole il mito dallo stesso Erchle, il divo Ercole, l’unico uomo in terra riuscito a diventare un dio. Si dice che lui stesso fondò questa città di ritorno dall’Iberia con una mandria di buoi presi a Gerione. Una città ricca ma che, così mi raccontava mio nonno, in verità nasceva da un piccolo borgo di pescatori che sorgendo proprio sulle principali vie commerciali divenne prima suburbio di Neapolis, poi divenne città di conquista dei greci col nome di Herakleia e infine, sconfitta e conquistata dai romani in seguito alla terza guerra sannitica, mutò il suo nome in Herculaneum.
Fu in quel tempo che Ercolano cominciò a diventare meta ambita dei ricchi romani e delle loro sfarzose dimore. Le case di vecchio stile sannitico che resistettero erano sempre di meno; una di quelle in cui nacqui e vissi era quella di mio padre.
Ma non vi erano soltanto i ricchi, né soltanto schiavi. Era una società complessa in cui, anche se eri straniero o nato schiavo, potevi conquistare o acquistare libertà e diventare cittadino romano a tutti gli effetti e persino aspirare a cariche pubbliche.
Sono cresciuto qui, dunque, in questo piccolo paradiso immerso in ogni sorta di sfumatura e colore, dal turchese all’azzurro più intenso, ogni sfumatura di rosso, giallo o verde. Ognuna di esse portava con sé il suo caratteristico aroma sospinto dolcemente dalle brezze marine e da quelle di terra ad ogni ora del giorno e della notte. La vera grande trasformazione di Herculaneum era stata opera poi di Marco Nonio Balbo, un tribuno eletto circa cento anni or sono e divenuto patrono della città, al quale si devono la costruzione di edifici, monumenti, il teatro, l’acquedotto e i due complessi termali, oltre il restauro delle mura. Proprio qui sopra, nell’area sacra si erge ancora la sua statua: in definitiva tutto lo splendore in cui sono nato e cresciuto fino all’epoca in cui deposi la mia prima barba, la bulla e la toga praetexta per indossare finalmente e con orgoglio la toga bruna che segnava la fine della mia fanciullezza e l’inizio della vita adulta. Ricordo ancora quel giorno; era il 17 di marzo, un lunae dies dell’anno 802 “ab urbe condita”, che per tradizione capitava in occasione delle Liberalia, le feste del dio Libero, proprio all’inizio del nuovo anno.
Da allora smisi di seguire mio padre trotterellando sempre al suo fianco ovunque andasse, che fosse al foro o al mercato, in processione al tempio o persino alla basilica, imparando come ci si comporta insieme agli altri, come si parla, come si offrono i sacrifici agli dei. Ambizioso e sognatore com’ero, decisi che il mio futuro doveva percorrere la difficile strada della carriera militare, perché nella mia mente adolescente aspiravo a diventare il nuovo patrono della mia città rendendo onore a mio padre. Non nascondo di avere spesso accarezzato ingenuamente l’idea di accedere alla diplomazia e magari, un giorno lontano, persino al senato. Sogni ingenui di chi si affaccia al mondo per la prima volta e crede di poterlo conquistare tutto in poco tempo e con estrema facilità.
Sognavo gesta eroiche e sempre, ero l’eroico protagonista: colui che risolve debellando il male e portando l’equilibrio con il bene e la giustizia. Mi bastava un gladio in legno, costruito alla bell’e meglio da Criso, il falegname, per sentirmi un re dell’Epiro o un grande generale al comando delle fila augustee nelle campagne di conquista.
Un mondo da conquistare, dunque, fatto di onori e gloria alla cui base vi era il mare della giustizia. Ma la vita pian piano mi insegnò che quella giustizia spesso, a causa dell’iniquità umana, deve trasformarsi in legge. Dovevo ancora comprendere però che nella legge spesso la verità non è appannaggio dell’innocente. Perciò mi diventò chiaro che in fatto di giustizia e verità l’ultima parola spettava alla forza e quindi, per conquistare il mondo, dovevo smaliziarmi, studiare e preparare il fisico. Nel frattempo potevo concedermi i giochi di sempre come ogni puer. Mi bastava infatti andare alla guerra salendo a cavallo di una canna, o viaggiare su una carrozzina trainata da due caprette – Livilla e Lucilla – per immaginare gesta eroiche e conquiste di terre lontane ed esotiche, sotto gli occhi attenti e divertiti di Aelia Domitia, la nutrice o forse dovrei dire la mia seconda madre, dal momento che Livia Anneia Furnilla, la mia madre naturale, morì giovane e inaspettatamente quando ero ancora in fasce, con grande e incolmabile dolore di mio padre.
I miei giorni d’infanzia trascorrevano sereni tra giochi, esercitazioni e scuola, come per tutti, ma sopra ogni ludo regnava il principio del senso della misura, della modestia, del contegno, del rifiuto di ciò che è sconveniente e soprattutto il sentimento di soggezione verso gli dei, i genitori e le persone anziane. La pietas era per mio padre importante nella sfera pubblica perché implicava sin dalla più tenera età il riconoscimento del principio gerarchico.
Unico neo della mia infanzia era l’aritmetica… E quella parte del giorno trascorso nel Ludus letterarius era una vera tortura. Per un tempo che pareva eterno eravamo costretti ad imparare a far di conto. Per me era la solfa quotidiana in cui annoiatissimo dovevo ripetere distrattamente in coro e ad alta voce: “ unum et unum duo, duo et duo quattuor…” era il momento nel quale, più di ogni altra cosa, avrei desiderato diventare piuttosto un commediografo, un musicus o un piscator invece che un militare. Una noia mortale paragonabile solo alla punizione del maestro in caso di errori: l’obbligo di scrivere sulla mia tavoletta per decine di volte: “sii diligente o fanciullo per non essere scorticato” sotto l’occhio vigile del maestro e fino a consunzione della cera.
Spesso, all’inizio delle lezioni di primo mattino, si udiva la voce rauca e risentita del vecchio Marcius, che abitava proprio sopra il Ludus, che urlava ferocemente contro il maestro per il gran vociare e il baccano che veniva dalle nostre aule:
« Ancora i galletti crestati non hanno rotto il silenzio e tu già tuoni con il tuo feroce brontolio e le tue percosse! Noi vicini ti supplichiamo: lasciaci dormire, non per tutta, ma almeno per parte della notte! ». Ritualmente a queste recriminazioni seguivano la smorfia ironica del maestro e il fragore delle nostre risa.
Così era trascorsa la mia infanzia, serena e tranquilla fin quando quella mia ambizione non mi aveva introdotto in un mondo nuovo fatto di dolore e di sangue ma anche di conoscenza e di avventura. Ero divenuto un uomo, grande e forte, agile come un gladiatore e abile tanto nelle armi quanto nella difficile arte della disciplina e del comando. Dalla caserma della mia città andai a Neapolis, poi a Roma e da lì alle campagne di conquista, fino ai confini dell’impero nella leggendaria Legio XV Apollinaris. Vi rimasi fedele fino all’826 anno in cui, sotto il grande generale Tito, fu finalmente posta fine alla guerra giudaica. Da quel momento la mia carriera mi portò ovunque: dalla gavetta fino in Giudea; da semplice Caligato fino a diventare, direi anche inaspettatamente, Primus Pilus Prior dopo soli undici anni di servizio. A Gerusalemme inizia la mia storia, quella che mi ha riportato proprio qui ad Ercolano. Qui avevo sperato tornare ma in tranquillità e non così inaspettatamente attraverso la lunga catena di incredibili eventi che seguirono.
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