– Non posso crederci… ce l’ho fatta! Sono un grande, il più grande! – Joe gridava e allo stesso tempo saltava di gioia per averla scampata grazie alla sua astuzia. – Sì, così! Volevate prendermi? E adesso? Prendetemi adesso se ci riuscite.
Altro tuono. Il demolitore stava lavorando sodo. Joe si ricordò della notizia dello smantellamento dello stadio, la nonna glielo aveva raccontato proprio quella mattina.
– La nonna… accidenti. Sarà meglio tornare a casa – sussurrò a mezza voce.
– Ehi, coniglio, pensavi davvero di averci fregati?
Una voce conosciuta. Joe serrò gli occhi, imprecando in silenzio. Non si erano arresi, per niente.
Dalla cima della collinetta del battitore, cinque bici si lanciarono contro di lui. I suoi inseguitori avevano preso la via più semplice: il cancello principale del parco sulla 155esima. Joe era atterrito. Ora non aveva scampo, era in campo aperto.
Le bici si allargarono per circondarlo. Joe riprese a correre, ma aveva ben poche speranze. Si diresse disperato verso gli alberi dalla parte opposta del campo da baseball. La sua fortuna fu che da quella parte ci fosse il ragazzo grasso che in quel momento si stava preoccupando più di mantenere l’equilibrio sulla sua bici che di trovare un modo per fermarlo. Allora Joe passò tra gli alberi come un fulmine sempre con il suo sacchetto stretto al petto.
– Non ci scappi più coniglio nero, non ci scappi più.
– Ti faremo pagare anche questa fatica!
Joe era allo stremo delle forze, chiuse gli occhi, ma non smise di correre finché non urtò qualcosa che lo fece rimbalzare a terra sulla schiena. Lo scontro fu così improvviso che non si rese conto di dove fosse esattamente fino a quando riaprì gli occhi, ancora frastornato per la botta.
La bottiglia era intatta. Sentì dolore in ogni parte del corpo e vide una mano enorme davanti al suo naso.
– Moccioso, dannazione, mi spieghi che succede? – chiese una voce profonda e potente.
Joe si tirò su e si rese conto di essere nel mezzo del campo da basket. Da lì riusciva a vedere distintamente la palla d’acciaio del demolitore che prendeva a pugni il Polo Grounds.
La gente intorno lo guardava con occhi sgranati.
– Io… Io… – Non sapeva cosa dire.
Si voltò istintivamente per vedere dove fossero quegli altri “rubacaramelle”, e notò che erano fermi proprio ai margini del campo. I loro volti, però, avevano perso la loro baldanza e i loro occhi stavano fissi sulle ruote anteriori delle biciclette.
– Io…
– Basta! Sembri un cane che latra – disse l’uomo che aveva davanti. – Mi hai interrotto nel bel mezzo di un’azione. Questo era il mio dannato canestro, e tu me lo hai fermato. Non so se ti rendi conto della cosa. Quindi ora mi spieghi cosa ti ha spinto qui, nel mio campo, nella mia partita a fermare il mio canestro. Hai capito?
Joe, pietrificato, sentì solo un incontrollabile stimolo a urinare.
Chi lo aveva messo KO era enorme, una montagna capace di oscurare il sole. E quella montagna lo terrorizzava. Non riuscì a dire nulla: la voce non gli veniva fuori, e nemmeno l’aria dai polmoni. Indicò timidamente con il dito i ragazzi dietro di lui. Sembrava un pulcino bagnato, con quel sacchettino stretto ancora al petto.
Il silenzio fu rotto da un’altra voce che proveniva da dietro il gigante.
– Boss, dai, il ragazzino aveva quei cinque alle calcagna. Lui a piedi e loro “motorizzati”.
Tutti risero, anche chi era sugli spalti.
– Goat, chi ti ha detto di parlare? Il ragazzino ha le sue di corde vocali. Fallo un’altra volta e le tue, giuro quant’è vero Iddio, faranno una brutta fine!
Joe sapeva benissimo chi era Boss. Lo sapevano tutti. Non che a dodici anni avesse mai avuto modo di averci a che fare, ma se c’era qualcuno da evitare, qualcuno da non frequentare, il male incarnato e fatto persona in tutta Harlem, quello era Boss.
Come si chiamasse davvero non lo sapeva, forse non la sapeva nessuno. Del resto, quel nome, “Boss”, gli calzava alla perfezione.
Nell’Upper Manhattan lui controllava la malavita, la controllava tutta e non solo quella. Le voci erano tante, le leggende pure e nessuno voleva verificare se fossero vere. Di certo si sapeva che era l’unico a “fare affari” con gli italiani, l’unico nero.
Orfano, era cresciuto facendo il facchino ai mercati generali. Lì ne aveva prese tante di botte dai marinai che arrivavano nel porto commerciale di New York, poi una sera, dopo essere stato ripetutamente picchiato dal suo “datore di lavoro”, reagì uccidendolo. Intervennero in tre, due scagnozzi del capo e il suo segretario, fecero la stessa fine, e Boss si prese quell’attività di diritto.
Dalla frutta e verdura al pesce, e dal pesce ad altro, tutto: armi, droga, refurtiva. Poi, dopo qualche anno, Boss aveva ceduto la sua “attività” alla Mafia: fine, stop. Si era stabilizzato a Harlem a gestire il suo quartiere e la sua gente, tutto in trentadue anni di vita.
Nessuno lo contraddiceva se ci teneva alla propria pelle tranne che in campo. Il campo è il campo e ha le sue regole e le sue leggi.
Joe le aveva infrante tutte piombando nel bel mezzo di una partita.
– Boss, sei sotto di uno, io vinco, tu perdi e finché vinco mi ascolti. Il ragazzino scappava, quei cinque lo inseguivano, fine della storia. Mandalo a casa e riprendiamo a giocare.
La montagna smise di fissare Joe e volse il suo sguardo verso la voce alle sue spalle, era palesemente una mancanza di rispetto. Il silenzio scese sul campo. Si sentivano solo i colpi dell’instancabile sfera d’acciaio e del motore che la guidava.
Il ragazzo smilzo che aveva parlato stava giusto sotto il tabellone. Palleggiava sicuro, disegnando un otto con la palla: palleggio con la destra in mezzo alle gambe, recupero e palleggio con la sinistra nuovamente in mezzo alle gambe. Teneva la testa alta a fissare la montagna, e sorrideva beffardo.
– Che c’è Boss? Hai paura di perdere pure questa?
La montagna sorrise a sua volta. Per un avversario poteva fare un’eccezione. – Questa non la perdo Goat, questa non la perdo. Ficcatelo in quella testaccia bacata.
Respirò profondamente, poi riprese.
– Mandate via quei piccoli teppisti. Non li voglio tra i piedi per un po’. Se li vedo girare intorno al ragazzino qui, rimpiangeranno il momento in cui sono nati.
Boss non finì la frase che i cinque erano già belli che spariti.
Poi si rivolse ancora a Joe. – Vedi moccioso, la partita non la perdo… perché me la farai vincere tu, vero? Goat dammi quella fottuta palla.
Goat annuì e lo accontentò subito, smettendo di palleggiare.
– Il fatto è questo… qui il sottoscritto ha giocato cinquanta dollari a partita e adesso è sotto di duecentocinquanta a causa di quel damerino laggiù che dorme avvolto in una coperta di lana di capra. Ci crederesti? Capisci che la cosa mi scoccia un po’. Farsi battere da uno che dorme in una coperta di lana di capra. Io stavo per pareggiare e poi avrei avuto la palla della vittoria. Questa partita vale duecentocinquanta dollari. Tu mi hai interrotto quindi… o tu mi paghi i duecentocinquanta, oppure mi ridai la mia possibilità di vittoria. Che ne pensi?
Joe non capiva, si guardava intorno. Tutti ridevano tranne lui e quello che chiamavano Goat.
– Ehi Boss, che significa? Questa è una vera porcheria… – protestò Goat.
– Questa è la regola. Lui mi ridà il mio canestro e se ne va a casa tranquillo oppure mi paga i duecentocinquanta. Tu che ne dici Holcombe?
Se Boss era una montagna quello che aveva chiamato Holcombe lo era di più, ma di grasso.
Nascosto da una nuvola di fumo di sigaretta, il grassone tossì e annuì con la testa. Lui era la legge, lui era il custode, lui era il Rucker Park. Per tutti a Harlem portava il suo nome, lo aveva voluto e ottenuto lui, e se Holcombe parlava la sua parola era vangelo lì a casa sua.
Stava sempre seduto sull’unica sedia che potesse reggere la sua stazza, sotto la tettoia del suo “ufficio”, intento a fumare una sigaretta dopo l’altra, di giorno e di notte, con la pioggia o il sole che spaccava il cemento.
– Boss ha ragione, Goat. Lui ha tutto il diritto di chiedere al ragazzino la restituzione del punto.
Goat scosse la testa e allargò le braccia.
– Hai un nome ragazzino? – chiese Boss.
Joe annuì ma non rispose.
– Un nome ce l’hanno tutti. Intendevo proprio il tuo fottuto nome – fece impaziente. Non era abituato a non ottenere subito le risposte che voleva.
– Joe… mi chiamo Joe – rispose il ragazzino con un filo di voce.
– Joe. Bene, così incominciamo a ragionare. Allora, tu sei qui, prendi la palla e la lanci nel canestro… lì – disse indicando il tabellone con l’enorme indice della mano sinistra. – La metti dentro… tutti contenti e te ne vai a casa. Non la metti dentro… be’, tiri fuori i verdoni, vedi tu come. Tutto chiaro?
– Non ho duecentocinquanta dollari ma solo quattro centesimi – rispose Joe, sempre con lo stesso tono di prima.
Boss scoppio a ridere. L’espressione però non cambiò. Faceva davvero paura. – Quattro centesimi, stai messo male… a quanto pare non hai scelta, devi segnare il canestro.
Boss prese la palla e la tese a Joe che ancora teneva stretto al petto il sacchetto con il latte e le caramelle.
Joe posò il fagotto a terra e afferrò il pallone. Non ne aveva mai tenuto uno vero fra le mani, si rese conto immediatamente che pesava, ma aveva anche un buon odore. Era circa a otto metri dal canestro spostato sulla sua destra.
– Dai, ragazzino, che qui si fa notte. Tira! – lo esortò Boss.
Joe allargò le gambe e prese a far oscillare le braccia e il pallone come un pendolo. Tutti scoppiarono a ridere.
Goat gli si avvicinò divertito. – No, bello, aspetta, quello è un movimento da bianchi. I fratelli neri, che sono veri uomini, tirano il pallone dall’alto. – Mentre parlava mimava il gesto del tiro. – Qui non puoi tirare come un finocchio bianco. Se poi fai canestro, Boss si riterrebbe offeso di aver preso un punto con un tiro da bianco. Capisci? – Gli mise una mano in testa a scompigliargli i corti ricci. – Non ti preoccupare. Te li do io i duecentocinquanta, tira! – concluse sussurrandogli all’orecchio.
Joe in qualche modo si sentì offeso da quelle parole: era la prima volta che provava un sentimento del genere, volevano umiliarlo e lui si arrabbiò.
– Non li voglio i tuoi soldi! – disse a Goat che si voltò stupito. – Non ne ho bisogno!
Tornò a concentrarsi. Quel giorno aveva seminato dei bulli che volevano picchiarlo, poteva infilare anche un pallone in una rete. La fortuna stava dalla sua parte.
E lo fece. Il tiro partì e descrisse una parabola perfetta. Tutti tennero lo sguardo incollato alla palla; tutti, tranne Goat e Joe, che si fissarono, occhi negli occhi. Goat non capiva perché: era da non crederci, lui voleva solo aiutarlo e invece era stato sfidato da un moccioso.
Il pallone finì dritto nel cerchio, facendo frusciare la retina di ferro.
Joe fece un lungo sospiro. L’aveva scampata ancora una volta. Raccolse il sacchetto e fece per lasciare il campo. Aveva altro a cui pensare ora, la nonna lo aspettava.
Boss lo fermò prima che potesse andarsene. – Bel tiro ragazzino, grazie. Domani dopo la scuola vieni qui che cominciamo l’allenamento, alle quattro. Puntuale.
Joe, senza pensarci troppo, annuì.
Goat continuava a fissarlo. – La prima è tua ragazzino, benvenuto al Rucker Park!
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.