Il rapporto con la famiglia è qualcosa di speciale, che per le specie sociali è non solo imprescindibile ai fini della propria sopravvivenza, ma è altresì fonte di sostegno emotivo e di vera e propria felicità e appagamento.
Per Leo noi rappresentavamo parte integrante del suo branco e nel contempo punti di riferimento costanti. Se mi considerasse un vero e proprio membro alfa non saprei dirlo, d’altro canto lui è sempre stato fin dall’inizio un cane ubbidiente, ma per nulla sottomesso alle nostre richieste; manifestava sempre in modo chiaro e pacato il suo pensiero, sia dopo una nostra richiesta, sia in altre svariate situazioni. Una dote la sua, che faceva si che il nostro rapporto fosse molto interattivo e direi equilibrato per ambedue. Aveva un’immensa capacità affettiva, di cui abbaimo potuto godere sia io che mia madre. Certamente amava le coccole e non vedeva l’ora di farsi spupazzare un po’, ma sapeva poi ricambiare in modo discreto, soprattutto nei momenti in cui ne avevamo più bisogno. Capiva al volo il mio stato d’animo e c’era sempre. Quando arrivava qualcuno a casa, si mostrava sempre ben disposto all’accoglienza e al contatto con persone diverse dal suo nucleo familiare. Abbiamo sempre cercato di adoperarci per garantirgli le condizioni migliori in relazione alla sue esigenze specifiche e di curarlo attentamente tutte le volte che si è reso necessario.
Leo da piccolo era scivolato sul pavimento di casa e ne era rimasto a tal punto traumatizzato, da non voler più entrare in casa; a differenza di altri cani, i suoi polpastrelli digitali era eccessivamente lisci, acuendo in molte tipologie di pavimentazione (non solo quella di casa) il suo senso di perdita dell’equilibrio. Non è stato facile, ma con tanta pazienza e molto impegno siamo riusciti a consentire nuovamente il suo ingresso in aree della casa dove avevamo predisposto un apposito fondo antiscivolo. All’esterno,
subito all’uscita della porta finestra che dava sul giardino, era sistemata la sua cuccia, quindi poteva rimanere vicino a noi anche senza essere costretto ad entrare in casa. Rimaneva spesso sul limitare della porta o incollato letteralmente al vetro e si capiva chiaramente che avrebbe voluto entrare. Così è cominciato il lavoro per consentirgli progressivamente di vincere la sua paura e poter così rientrare in casa. Non si poteva forzarlo, perché la reazione sarebbe stata di aggressività (reazione naturale e legittima per la sua specie) o di aumentata fobia e stress, quindi tutto doveva essere fatto nei giusti tempi. Non fu semplice, perché di fatto Leo in presenza di fondi privi di grip sembrava avere i pattini a rotelle sotto le zampe, lo si vedeva proprio arrancare con difficoltà per rimanere in piedi. Quindi, solo quando si accorse che l’area a lui destinata aveva un fondo sicuro e sul quale le sue zampe potevano muoversi agevolmente, si rassicurò e prese confidenza.
Un capodanno si trovò esposto allo scoppio ravvicinato di petardi da parte del vicinato, nonché ad un razzo sparato dalle case vicine che andò proprio a terminare la corsa nelle immediate vicinanze della sua cuccia esterna. Lui non aveva mai avuto timore degli scoppi, ne tanto meno dei fuochi d’artificio, ma dopo quel Capodanno le cose cambiarono per sempre. Ogni qualvolta sentiva uno scoppio si metteva in stato di allerta e in particolar modo a Capodanno, entrava in un vero e proprio stato di ansia e stress che non era facile gestire. Inizialmente non voleva più entrare nemmeno nella sua cuccia e siccome capitava che rimanesse durante il giorno anche nel giardino di casa, era importante che potesse usufruire liberamente e in serenità di un riparo. Così è cominciato un percorso di riavvicinamento anche per l’accesso in cuccia. Per fortuna quella che avevo comprato per Leo era fatta a igloo scomponibile, quindi il tetto si poteva rimuovere. Da prima ho cominciato a entrare io stessa nel fondo della cuccia privato del tetto e portando con me la sua pallina preferita, così da farmi seguire da Leo al suo interno in modo giocoso. Progressivamente abbiamo messo una copertura a mo’ di tetto, rigorosamente trasparente, così che potesse rimanere protetto dalla pioggia e cominciare ad avere una struttura più articolata. Anche in questo caso ho continuato ad accedere prima da sola, poi invitandolo ad entrare, fino a quando orami più tranquillo era in grado di rimanervi autonomamente. L’ultimo passaggio è consistito nel ricomporre la cuccia con il suo tetto e prepararsi all’ultimo atto, sperando che funzionasse. Per incoraggiare Leo ad entrare nella cuccia completa, mi sono decisa a ragomitolarmi sul fondo della stessa che dotata di tetto era molto più piccola, il tutto per fargli capire che era un posto tranquillo dove poter stare. Io mi sono rannicchiata sul fondo e poi l’ho invitato ad entrare. Dopo poco mi ha raggiunto accovacciandosi vicino a me. Era stata lunga ma alla fine ce l’avevamo fatta, e finalmente Leo tornò sereno dentro la sua cuccia senza più averne timore.
Macchiolina, la gatta centenaria, purtroppo ci ha lasciato poco tempo fa, era ormai molto stanca e fisicamente provata. Fino all’ultimo è rimasta lucida e ha dimostrato tutto il suo affetto verso di noi. Negli ultimi anni, che ha trascorso sempre in casa con noi, cercava spesso le coccole e le piaceva salire sulle nostre gambe, accovacciarsi e addormentarsi. Sapendo quanto i gatti manifestino reciprocamente tenerezza più spesso con l’uso della testa che viene letteralmente strofinata sul quella dell’altro, un giorno ho provato a fare anch’io la stessa cosa. Non abbiamo mai più smesso, lei adorava quel contatto, spesso addirittura lo cercava dandomi delle testate e mentre ci scambiavano effusioni, emetteva sonore fusa. Quello era il nostro momento di contatto, ma non meramente fisico, bensì dell’anima. In quel momento, come d’altra parte era accaduto con Leo, c’era una sintonia profonda e un benessere condiviso che giovava ad entrambe.
L’altra gatta, Lilli, ha un carattere molto più nevrino, quindi è più difficile rapportarsi con lei per scambiare effusioni. Tuttavia, anche lei cede alla ricerca del contatto, soprattutto durante la notte, quando sale sul letto e si spalma letteralmente al fianco delle nostre gambe o si accovaccia vicino alle spalle; capita poi che verso la mattina prende a testate le nostre braccia per farsi coccolare. Tuttavia non tollera in alcun modo il contatto con le mani, alle quali reagisce in modo aggressivo, dunque è necessario accarezzarla con il braccio e non in modo prolungato. Lilli ha perso sua madre a nemmeno venti giorni di vita e questo evento già di per se molto traumatico, ha determinato la mancanza di tutti quegli insegnamenti utili per la corretta gestione comportamentale, in un periodo cruciale per lo sviluppo del cucciolo. Io ho cercato di fare del mio meglio, ma come ha sottolineato un collega, non sono un gatto e dunque non ho potutto sostituire una madre venuta a mancare troppo precocemente. Ogni animale ha un suo carattere, come d’altra canto noi umani, é dunque necessario imparare ad accettare e rispettare tutte le diverse sfacettatture dell’esistenza, magari sforzandosi di non giudicare troppo e di fare del nostro meglio per instaurare comunque un dialogo e un rapporto proficuo. Infatti, nonostante il carattere un po’ astioso (Lilli per altro ne ha tutte le ragioni, visti i suoi trascorsi) io le sono legatissima e nel mio cuore occupa un posto speciale come tutti gli altri.
Da un po’di anni vive con noi anche Paul, il cane di mia sorella, un meticcio che ha adottato all’età di circa tre anni in uno dei canili della zona. Paul ha sempre frequentato la nostra casa, anche quando c’era Leo, sono sempre andati d’accordo e insieme stavano molto volentieri. Ma è solo negli ultimi anni che Paul è venuto a stare definitivamente da noi. Ciò che più sorprende di lui, è la sua capacità di amare incondizionatamente noi che siamo la sua famiglia. Adora farsi coccolare e per lui si potrebbe continuare all’infinito; cerca il nostro contatto fisico e la nostra presenza, anche se é capace di stare tranquillamente da solo. Ha uno sguardo magnetico, che ti cattura e ti porta quasi inconsapevolmente a trovarti accanto a lui a fargli i grattini sulla pancia o i massaggi sulla schiena. Più spesso con la zampa anteriore cerca di trattanere dolcemente a se la nostra mano e gradisce di gran lunga stendersi sui nostri pedi, insomma il contatto fisico è molto importante. Un altro momento di grande intimità emotiva è quello in cui mentre siamo seduti su un panchetto, si avvicina fino a mettere la testa a contatto del nostro petto e rimane li fermo immobile in quell’abbraccio infinito. Paul è un amante delle passeggiate e anche ora che è molto anziano, cerchiamo di fargli fare piccoli percorsi per soddisfare le sue esigenze di ricerca ed esplorazione e per mantenere un minimo di mobilità fisica. Nonostante sia molto affatticato per via dell’età e dei numerosi acciacchi, impazzisce dalla gioia quando si sta per uscire e così ci fa capire molto bene che per lui è un momento importante, di gioia e felicità da condividere assieme.
I legami familiari sono incredibili, il biologo Safina ci racconta le attenzioni rivolte all’elefantino cucciolo di pochi mesi da tutto il gruppo:
«Mentre procede barcollante rimanendo indietro, spesso il piccolo inciampa nelle radici o si perde nell’erba alta. A tirarlo fuori da queste difficili situazioni sono, in molti casi, le sue premurose cugine adolescenti. Quando il piccolo cade o non riesce ad andare avanti, se viene spinto o è vittima di prepotenze, emette un richiamo simile al cigolio di una porta – molto forte – che riceve immediata risposta. Le giovani femmine si precipitano in aiuto di un piccolo con un tale entusiasma da finire spesso per intralciare la madre. Di frequente le madri esperte lasciano che a sbrigarsela siano le più giovani. Se un piccolo cade, tutte le femmine accorrono e si assicurano che stia bene, emettendo particolari vocalizzazioni che contribuiscono a rassicurarlo.
Gli elefantini più piccoli chiedono aiuto a qualsiasi adulto. Zie e nonne sono fondamentali babysitter, e una madre esperta sarà tranquilla fintanto che vede il suo piccolo insieme a una femmina adulta capace. Di solito, per i prime cinque anni di vita, i piccoli elefanti si mantengono sempre a due-tre metri da un membro della famiglia: devono imparare tutto ciò che serve per essere un elefante, e lo imparano da altri elefanti, che intanto li proteggono. Contatti amichevoli e incoraggianti tra adulti e piccoli sono normali e frequenti, mentre l’aggressività nei confronti dei cuccioli è rara».
Le orche sono un altro esempio di grande coesione e collaborazione familiare. Safina le descrive come «creature intelligenti, materne, longeve, cooperative, molto sociali e consacrate alla famiglia». I clan sono matriarcali e il ruolo delle femmine è fondamentale. Sia le giovani madri, sia le nonne, accudiscono amorevolmente figli e nipoti, continuando ad assicurare loro cibo e protezione anche quando sono divenuti ormai adulti.
Safina racconta che «una volta maturi, i giovani elefanti maschi lasciano la famiglia di origine, mentre i maschi delle orche rimangono per tutta la vita nella famiglia in cui sono nati (nel periodo dell’accoppiamento socializzano con altre famiglie, ma poi tornano subito a casa da mamma). I legami madre-figlio restano estremamente forti e durano tutta la vita. In effetti non sono note altre specie in cui la prole al completo -maschi e femmine – rimanga con la madre per tutta la durata della vita di lei».
Un aspetto significativo è rappresentato dalla condivisione del cibo. Quasi sempre infatti ciò che un esemplare caccia, viene poi condiviso con il resto del gruppo. Tutto ciò è di estrema importanza, al punto che i maschi in ragione della mole cospicua che li limita nella caccia e alla necessità di un cospicuo apporto alimentare, risultano nel complesso più dipendenti dalle madri: «essenzialmente, le femmine adulte condividono tutto il pesce che catturano – e più della metà di esso va ai figli. I maschi adulti, invece, lo condividono solo circa il quindici percento delle volte, di solito con la propria madre».
Un altro esempio grandioso è quello che ci viene dai capodogli, animali per i quali la famiglia ha un ruolo chiave; le unità di legame sono stabili e di esse fanno parte femmine di ogni età, e giovani maschi, che divenuti adulti si allontaneranno per condurre una vita autonoma. In Animali non umani, Safina ci riporta le parole del ricercatore e studioso di capodogli Shane, che ha dedicato tutta la sua vita allo studio di questi cetacei e con il quale ha trascorso un periodo di studio sul campo:
“La cosa principale che ho imparato dai capodogli è che la la tua esperienza del mondo dipende da chi ti accompagna in quell’esperienza. Chi ti accompagna determina chi sei. La più grande lezione sulla vita da capodoglio è che la cosa più importante è la tua famiglia. Se avessi dato la priorità al lavoro con i capodogli sacrificando lo stare con la mia famiglia”, «continua» “non avrei appreso la lezione fondamentale che loro mi hanno insegnato: impara dalla nonna; ama tua madre; passa del tempo con i tuoi fratelli e le tue sorelle; condividi il peso delle incombenze”.
Negli scimpanzé i legami familiari sono molto stretti, sopratutto tra madre e prole in tenere età. I piccoli, nei primi cinque mesi di vita, vengono preservati dal contatto ravvicinato con altri membri del gruppo, con l’eccezione dei fratelli e sorelle. Rimangono dipendenti dalle madri per molto tempo e prendono il latte fino ai quattro anni di età. Da cuccioli sono portati appesi all’addome, poi sulla schiena a cavalcioni. Sino ai cinque anni, come ci racconta Goodall, in caso di eccessiva agitazione nel gruppo o possibili pericoli o minacce incombenti, sono pronti a risalire molte velocemente in groppa alla madre. Le madri sono sempre molto attente che il cucciolo non si ficchi nei guai, cosa che può succedere con una certa facilità: i cuccioli, che hanno costantemente voglia di giocare ed esplorare, spesso infastidiscono altri adulti tra cui anche i maschi dominanti; questi solitamente hanno un atteggiamento benevolo, tuttavia, poiché si profila una situazione potenzialmente pericolosa, la madre interviene prontamente. I cuccioli possono poi trovarsi, loro malgrado, nel bel mezzo di una situazione di lotta o di manifestazione di forza da parte di un maschio dominante e anche in quel caso la madre corre velocemente a prendere il cucciolo, prima che si possa far male.
Insegnamento e cultura
L’insegnamento è fondamentale per la trasmissione delle conoscenze alle nuove generazioni e rappresenta uno degli aspetti salienti, se pur non l’unico, attraverso i quali si plasma la cultura. Oggi chi ancora ritiene gli animali non umani privi di cultura, o è cieco alle manifestazioni che provengono dalla natura o più probabilmente è da ritenersi in malafede. Vedremo alcuni esempi di animali che investono tempo ed energie nell’insegnamento alla prole del bagaglio conoscitivo utile alla sopravvivenza nel mondo. Un bagaglio, che analogamente a quanto accade per noi esseri umani, non è certamente statico, ma si va a modificare e ad adattare alle esigenze del momento. La trasmissione delle conoscenze tra generazioni è fondamentale per potere affrontare le sfide quotidiane dell’esistenza, in quanto rende gli individui maggiormente consapevoli di ciò che li aspetta. L’evoluzione culturale, al pari di quella biologica, forgia le esistenze. Sappiamo che il DNA quale codice genetico contenuto all’interno del nucleo cellulare, trasmette un patrimonio di informazioni da un individuo ad un altro. Le mutazioni genetiche casuali, che possono intervenire nei diversi cicli di riproduzione cellulare, sono fonte di potenziale rinnovamento e introduzione di novità (più o meno utili per l’esistenza del soggetto). Sappiamo poi che la selezione naturale, in relazioni a criteri di adattabilità all’ambiente, di sopravvivenza, di capacità di utilizzo delle risorse e molto altro ancora, seleziona quei soggetti che presentano le caratteristiche più performanti. Ma la genetica non è sufficiente per spiegare le diversità inter specifiche e nemmeno quelle individuali intra specifiche, deve perciò essere necessariamente integrata dall’epigenetica e dalla cultura. La prima è una branca scientifica che si occupa di tutte quelle strutture integrate all’interno del materiale genomico, che svolgono azione regolatoria nell’espressione genica. Quindi il genoma non è qualcosa di statico, perché se lo è al limite la sua struttura (in realtà nemmeno quella in quanto esistono le mutazioni), non lo è la sua espressione, ovvero tutte le funzioni espresse dai singoli geni (proteine strutturali, funzionali, etc). Oggi sappiamo infatti che non è sufficiente una determinata sequenza genica perché si inneschi la sua espressione, e dunque un gene può essere espresso o silenziato. Entrano così in gioco l’ambiente, l’alimentazione, le abitudini e gli stili di vita che diventano determinanti nell’attivazione o nel silenziamento dell’espressione genica e che sono strettamente connessi con la cultura di una determinata specie, ma ancor più di un certo gruppo e persino di singoli nuclei familiari. Dunque è dall’interazione con tutto ciò che ci sta attorno e dalle scelte quotidiane di vita che operiamo, che si realizza la vera espressione genomica. Possiamo ben dire che noi siamo il risultato dell’incontro tra un patrimonio genetico e una cultura: intendendo con questo termine tutto ciò che afferisce alla vita dell’individuo, dall’ambiente in cui risiede, all’alimentazione che persegue, fino a tutte le abitudini e agli stili di vita. Il fattore culturale é decisivo per la sopravvivenza dell’individuo infatti, gli insegnamenti, in tutte le specie, sono volti proprio ad istruire le nuove generazioni su una molteplicità di aspetti salienti: ad esempio sui possibili pericoli insiti in quell’ambiente, quali siano i cibi commestibili, quali siano le attività di procciamento del cibo, le modalità di riparo, la gestione dei rapporti interpersonali, l’accesso a risorse essenziali in periodi di siccità e carestia, le modalità di comunicazione, e molto altro ancora.
Secondo De Waal, un aspetto fondamentale che accomuna la cultura umana a quella degli altri animali è rappresentato dalla componente emulativa/identificativa: questa fa si che un individuo preferisca operare una scelta sulla base di quanto fanno altri membri del gruppo, ad esempio la madre se si tratta di un cucciolo o un determinato sottogruppo, se si tratta di un soggetto adulto; in ogni caso, quel che conta è che gli individui, pur di uniformarsi alle scelte operate da altri, prescindono dal fatto che le stesse siano più o meno confacenti in termini di utilità immediata. Sarà proprio la riproposizione e la trasmissione generazionale di un pool comportamentale condiviso, a decretare stili di vita vantaggiosi per l’intero gruppo.
Safina, in Animali non umani, afferma:
«Per molto tempo è infuriato un dibattito assurdo per stabilire se gli animali (esseri umani compresi) vivessero basandosi esclusivamente sull’istinto oppure sull’apprendimento. Il dibattito venne denominato nature versus nurture – natura verso cultura, innato verso acquisito. Gli istinti geneticamente fissati erano “natura”. L’apprendimento e la cultura rappresentavano il versante “nurture”, ciò che è acquisito. Alcune persone ritenevano che tutti gli animali, compresi gli esseri umani, alla nascita fossero come una tabula rasa, fogli bianchi, senza alcun istinto, e che tutto il comportamento fosse appreso. Altri invece erano convinti che tutto il comportamento fosse istintivo. Posizioni non molto realistiche, che oltretutto denotavano scarsa capacità di osservazione. In gioco troviamo infatti entrambi i versanti, innato e acquisito, nature e nurture; entrambi interagiscono. I geni possono produrre risultati, ma non sempre prescrivono quali. L’espressione fisica e comportamentale dei geni può essere modificata dall’ambiente, un fenomeno indicato con il termine “epigenetica”. Gli esseri umani sono geneticamente in grado di acquisire qualsiasi linguaggio umano, ma devono comunque apprenderne uno. I geni ci predispongono all’apprendimento, ma non determinano se parleremo il russo. I geni stabiliscono anche ciò che non può essere appreso. I cetacei sono capaci di apprendimento, ma non possono imparare il francese. Gli esseri umani possono cantare, ma non come una megattera. I geni umani predispongono alla cultura umana. I geni promuovono l’abilità di una creatura sociale di apprendere socialmente. Per contro, i geni umani non ci mettono in condizione di cacciare i calamari usando il sonar, né – come invece fanno gli elefanti -di trasmettere vibrazioni attraverso il suolo per avvertire i membri della famiglia di un pericolo a chilometri di distanza. La natura (i geni) influenza il tipo di cultura e apprendimento possibile. I geni determinano quello che può essere appreso, quello che potremmo fare. La cultura definisce invece quello che viene appreso, il modo in cui facciamo le cose”.
La cultura, concetto dinamico in continua modificazione, da un lato consente all’individuo la trasmissione diretta del bagaglio conoscitivo alla generazione successiva, dall’altro è in grado di regolare mediante l’epigenetica l’espressione cromosomica. L’insegnamento ha nell’esempio il suo focus, sia nella modalità per così dire passiva, ovvero il cucciolo osserva e più tardi metterà in atto ciò che ha imparato; sia in quella attiva, in cui la madre o l’adulto tengono vere e proprie lezioni pratiche, in cui è previsto che il cucciolo si adoperi nei diversi tentativi di riuscita di un determinato compito o attività.
Nei mammiferi molto spesso l’insegnamento ha un ruolo strategico e vede gli esemplari adulti o anziani adoperarsi per la trasmissione delle conoscenze utili per le future generazioni.
Ad esempio, nei capodogli i cuccioli imparano lentamente tramite l’osservazione degli adulti, siano essi la madre o i parenti che fungono da babysitter, le zie o le nonne; ciascuna di loro insegnerà progressivamente ai giovani quali siano i pericoli da temere, in che modo ci si possa immergere per lungo tempo e a grandi profondità alla ricerca dei calamari (fino a 1000 metri) o ancora quali siano i luoghi migliori per la sopravvivenza in periodi difficili.
Nei clan di orche l’insegnamento è una tappa imprescindibile per lo sviluppo del cucciolo. Ad esempio, la madre, coadiuvata dal clan, insegnerà al cucciolo quale siano le modalità e le migliori tecniche per la caccia. Se si tratta di orche che cacciano pesci, la tecnica prevede ad esempio di circondare il branco, spingerlo e mantenerlo compatto verso la superficie, per poi procedere al relativo stordimento degli animali con potenti e mirati colpi di coda. Diversamente in quei clan che hanno una dieta a basa di mammiferi marini quali foche, leoni marini, delfini o cuccioli di balena, la madre insegnerà altre tipologie di caccia, tra cui quella che prevede un parziale spiaggiamento della preda. Le orche che predano mammiferi marini possono perseguire strategie di caccia che prevedono sia lo sfiancamento dell’animale, che dopo aver nuotato incessantemente nel tentativo di sfuggire al predatore, impossibilitato a tornare a terra, viene stordito a colpi di pinna e affogato, oppure possono cacciare a riva. Straordinariamente capaci, questi animali dalla mole non indifferente riescono a cogliere di sorpresa i mammiferi marini presenti sulla battigia, del tutto ignari del pericolo che stanno correndo. Quest’ultima è una tecnica indubbiamente rischiosa, in quanto laddove lo spiaggiamento fosse irreversibile, si tradurrebbe nella morte dell’orca. Per questa ragione la madre deve mostrare al cucciolo fino a che punto ci si può spingere, ma soprattutto quali sono i movimenti del corpo, che coadiuvati dalla sapiente attività della coda, consentono all’animale di riguadagnare il mare. Le prime sessioni vedranno il cucciolo impegnato nelle prove di spiaggiamento e ritorno in mare aperto. Solo quando padroneggerà bene la tecnica, potrà lanciarsi nei primi veri agguati agli ignari animali che si attardano in prossimità della riva.
Il concetto di cultura ha dei connotati ben precisi per il biologo Safina:
«La dimensione culturale di un comportamento diventa evidente se non tutti lo esibiscono. Tutti mangiano; mangiare non è cultura. Non tutti però mangiano con le bacchette; le bacchette sono infatti parte della cultura. Tutti gli scimpanzé si arrampicano sugli alberi; non è un’abilità culturale. Quelli di alcune popolazioni, però, rompono i gusci duri della frutta usando delle pietre a mò di incudini e martelli. Non tutte le popolazioni che vivono dove sono disponibili frutti a guscio li rompono in questo modo. Si tratta di un comportamento culturale. A mostrarci che cosa sia o meno culturale sono le differenze tra gruppi nei costumi, nelle tradizioni, nelle prassi e negli strumenti».
De Waal in proposito afferma «Poiché abitudini e mode si diffondono spesso senza che ad alcuna di esse sia associata una qualche riconpensa, l’apprendimento sociale è sociale nel vero senso della parola. Esso concerne la conformità, più che le gratificazioni». De Waal, dopo aver a lungo osservato e studiato i primati, in particolare gli scimpanzè, ha coniato l’acronimo BIOL (Bonding- and Identification -based Observational Learning), per descrivere l’apprendimento mediato dall’osservazione e motivato dalla volontà di identificarsi con qualcun’altro del gruppo (magari con l’individuo leader) e altresì motivato da ragione e vincoli di natura affettiva. Questo tipo di apprendimento per imitazione, come sottolinea De Waal, è stato ampiamente sdoganato dal concetto di mero copia incolla di quanto osservato, rivelandosi a pieno quale azione consapevole, nella quale si assite alla definizione e alla scelta sia dei metodi che degli obbiettivi da raggiungere; per questa ragione, De Waal ritiene questo metodo basilare per la formazione della cultura e non solo nei primati.
Ad esempio, sappiamo che il cucciolo di scimpanzé che trascorre molti anni insieme alla madre, impara cosa sia commestibile, dove lo si possa trovare, come costruirsi un giaciglio per la notte, come utilizzare degli strumenti. Gli scimpanzé sono soliti usare sottili ramoscelli, accuratamente selezionati, per essere inseriti nei fori del termitaio ed estrarne un ricco pasto proteico a base di insetti. L’attività non è per nulla banale, testimonianza ne è il fatto che quando il cucciolo compie i suoi primi tentativi presso il termitaio, il bastoncino da lui scelto si rivela di consistenza o lunghezza inappropriata e più spesso non è in grado di padroneggiarlo sufficientemente bene per estrarre con successo gli insetti. Le ripetute osservazioni e gli innumerevoli tentativi, gli consentiranno infine di acquisire le competenze utili in questo campo.
Il biologo Bekoff ha appreso dal ricercatore indiano David Habernam, che all’interno della popolazione di macachi resi presenti presso la città dei templi di Vrindaban, negli anni novanta un esemplare imparò che poteva ottenere del cibo, se restituiva gli occhiali appena sotratti al malcapitato; ben presto questa abitudine si diffuse tra tutti gli esemplari, tanto che oggi chi si avvicina sa già in anticipo che dovrà togliersi gli occhiali, per lo meno se vuole evitare di farsi derubare.
De Waal evidenzia che nel 1952, il padre della primatolgia giapponese Kinji Imanishi diede la sua definizione di cultura, come capacità di apprendere abitudini da altri individui, con successiva differenziazione tra gruppi che si caratterizzano per peculiarità univoche. Per dimostrare che i macachi presenti sull’isola di Koshima erano portatori di cultura, inviò sul posto i suoi allievi per lo svolgimento di un esperimento sul campo. Si decise di foraggiare i macachi presenti sull’isola, ponendo del cibo all’interno delle foreste. Fu così documentato che una prima scimmia, Imo, prese delle patate dolci e le portò con se sino ai corsi d’acqua che erano siti altrove per lavarle. Ben presto quest’usanza fu ripresa da sua madre Eba e dagli altri familiari più stretti, per poi diffondersi nell’intero gruppo sull’isola.
De Waal evidenzia, che tra gli scimpanzè del Gabon che vanno a “caccia” di miele, sono in uso strumenti molto complessi:
«un kit di cinque strumenti, comprendente un bastone pesante per sfondare l’ingresso dell’alveare, un perforatore (un bastone per bucare il terreno fino a raggiungere la camera del miele), un ingranditore (per aumentare un’apertura attraverso una pressione laterale), un raccoglitore (un bastone con un estremo sfrangiato per potersi immergere bene nel miele e permettere poi di risucchiarlo comodamente) e tamponi (strisce di corteccia per raccogliere il miele). L’uso di questi utensili è complicato, perché questi sono preparati e trasportati all’alveare molto tempo prima dell’inizio del lavoro, e si dovranno tenere vicini fino a quando lo scimpanzè sarà costretto ad abbandonare il terreno in conseguenza del contrattacco delle api».
De Waal sottolinea come l’utilizzo di utensili costruiti a partire da sassi e bastoni non sia per niente banale e che visti i materiali a disposizione nella foresta, gli stessi sono adoperati ancora oggi dalle tribù di boscimani che vi risiedono:
«gli scimpanzé adoperano fra i quindici e i venticinque utensili diversi per comunità, i quali variano in base alle circostanze culturali ed ecologiche. Una comunità che vive nella savana, per sempio, usa per la caccia bastoni appuntiti. Questa scoperta venne sentita come un choc, poiché si pensava che le armi per la caccia fossero un progresso unicamente umano. Gli scimpanzé usano le loro “lance” per uccidere galagoni addormentati nelle cavità di alberi […..]. É noto pure che le comunità di scimpanzé dell’Africa Occidentale aprono le noci rompendone il guscio con pietre, un comportamento sconosciuto nelle comunità dell’Africa Orientale».
Per quanto concerne i volatili, autorevoli studi condotti dagli ornitologi ci confermano che tra le abilità apprese dai piccoli vi è quella del canto. A questo proposito Safina racconta:
«Secondo l’ornitologo Tim Birkhead lo studio delle modalità con cui gli uccelli acquisiscono il proprio canto “ha fornito la prova più convincente del fatto che non esista alcuna separazione natura-cultura: geni e apprendimento sono intimamente correlati, tanto negli uccelli quanto nei bambini». É stato grazie allo studio del cervello degli uccelli canori, osserva poi, “che abbiamo iniziato a comprendere l’enorme capacità del cervello umano di riorganizzarsi e di formare nuove connessioni”. Raggiungere il controllo sui suoni richiede esercizio: ai bambini, ai musicisti – e anche agli uccelli. Negli uccelli l’incentivo che spinge a un continuo esercizio è – come nel caso di un bambino o di un musicista che non fanno errori quando vi si dedicano – la somministrazione, da parte del cervello, di dosi gratificanti di dopamina e oppioidi naturali. La dopamina è un neurotrasmettitore implicato sia nel linguaggio umano sia nel canto degli uccelli ed è al tempo stesso un facilitatore e un motivatore. Negli uccelli canori il canto induce il rilascio di dopamina nel cervello”.
Il biologo Chittka, in Nella Mente di un’Ape, ci rivela come l’osservazione e lo studio di questi imenotteri abbia svelato che oltre ad essere in grado di osservare e replicare un comportamento vantaggievole, sono altresì capaci di valutare e rielaborare quella stessa attività, per renderla ancora più efficiente nel momento in cui la si mette in pratica. Gli studi hanno permesso inoltre di svelare la capacità delle api di tramandare le lore conoscenze da una generazione a quella successiva, determinando a tutti gli effetti quella che è una vera e propria cultura. Gli individui adulti, in particolare i bottinatori già esperti, trasmettono il proprio patrimonio di conoscenze alle giovani api e a quanto pare, anche se non ne è ancora stato decifrato il meccanismo, sono in grado di informare anche le api che si trovano allo stadio larvale. Le informazioni impartite sono di varia natura: dove si trova il luogo di alimentazione, la tipologia di fiori utili per la bottinatura, gli orari in cui é maggiore la produzione di nettare o ancora i momenti della giornata utili per effettuare l’approviggionamento etc. Questo, analogamente a quanto avviene per l’uomo e per le altre specie animali, fa si che il tipo di abitudini e attività messe in atto da una colonia di individui non sia più soltanto la mera espressione del codice genetico, ma anche l’esito dell’apprendimento culturale e delle caratteristiche intrinseche di ciascun individuo.
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