Francesco ora ha 7 anni, Paolo ne ha 3 e si, mi viene il batticuore: «Che sarà di loro? Che mondo vado lasciando?» Ed ecco il senso di colpa: «Quali i miei errori?» L’ansia: «Che cosa posso fare, comunicare, insegnare?» E un pizzico di depressione: «Abbiamo fallito» La consapevolezza della mia impotenza di uomo mortale.
Nel marzo del 2020 me la sono vista male. Improvvisamente mi sono trovato recluso in casa, peggio di una prigione: Io l’ho provata la prigione, da giovane, pochi giorni a Regina Coeli, quanto basta per capire cos’è. Ma almeno lì le visite parenti sono ammesse. Invece, ora, “Lookdown”! Ho sempre odiato le parole inglesi che non danno il senso reale di una situazione, significa “Confinamento”, di fatto è una galera.
Vabbé, c’era la pandemia: «A 80 anni il Covid è micidiale, bisogna mantenere la distanza coi nipoti». Giusto. Capivo le ragioni, ma intanto non potevo né vedere né giocare con Francesco (Paoletto era ancora nella pancia di Catia), e proprio nell’età in cui è bello raccontare storie ai bambini. Non potevo nemmeno fare la passeggiatina quotidiana con la mia cagnetta che, bontà sua, si accontentava di due metri quadrati di giardino. Una cagnetta e dei nipoti sono, secondo me, la terapia migliore contro ogni tipo di depressione.
È stato allora che mio nipote Gabriele, che fa il farmacista e si occupa di arteterapia, mi ha convinto a scrivere la storia della famiglia: «Caro Zio, se non ce la racconti tu andrà persa. Il nostro dovere di vecchi è testimoniare».
Non potevo dargli torno, in quei giorni stavo leggendo un libro di Liliana Segre, “La Memoria rende liberi”. Glielo dissi e lui chiosò «Infatti la dimenticanza rende schiavi».
Non demordeva! «Devi raccontarci la nostra storia.» Io resistevo, anche se l’idea, in effetti, mi intrigava. La mia famiglia ha attraversato un secolo importante: due guerre, il Fascismo, il Boom economico, il Sessantotto, Piazza Fontana, il muro di Berlino… Sarebbe stato interessante inserire la vita dei miei genitori e di nove fratelli nella storia di un secolo: finalmente per capirci qualcosa.
Continuavo a resistere: «Per me è troppo difficile, io non sono uno scrittore!» E Gabriele: «Questo non è un problema, scrivi come ti viene, col cuore». Mi disse che la parola “Ricordare” deriva da “Cor Cordis” che significa “Cuore’, in quanto dagli antichi era ritenuto sede della memoria: «Lascia stare la testa, tu racconta come ti viene, storie, aneddoti, pensieri, sensazioni… Poi ci penso io a mettere tutto insieme, ci stai? Come minimo ci divertiamo, almeno abbiamo una scusa per sentirci e passare il tempo della pandemia».
Non ero ancora convinto. Ci ho pensato più di un mese, non sapevo nemmeno da dove cominciare. «Racconto da dove siamo venuti? La storia di papà Paolo, mamma Sarah e poi dei nove fratelli.» «Si, zio. Si cerca sempre di non rammentare le cose brutte, ma così figli e nipoti non sapranno nulla. Le cose brutte si annodano nel corpo e se non elaborate si agisce in un certo modo senza nemmeno sapere il perché. Dai, racconta! Tu dici che “la memoria rende liberi”, ok, libera i tuoi nipoti!»
E che cosa avrei potuto rispondere? La mia ultima carta: «La nostra famiglia è una come tante!» E lui: «Appunto zio, vuol dire che è una storia di tanti.» Colpito e affondato. Non avrei scritto soltanto per Francesco e Paoletto, ma per tutti i nipoti d’Italia, perché tutti abbiamo attraversato la stessa storia, vissuto lo stesso secolo di cambiamento, condiviso le stesse origini, gli stessi dubbi, le stesse speranze.
Così ho cominciato a scrivere a tutti i parenti chiedendo i loro ricordi e man mano questa storia è diventata un romanzo a più voci. Hanno scritto Gabriele, che ha messo tutto insieme, Maria Rosaria, Sara, Elena, Gilberto, Paola… Anche Adriana, la mia cognata ottantenne che ora vive a Torino. Non so con quale coraggio potrei firmare questo romanzo e devo dire che è stato bello sentirci e soprattutto sentire di nuovo la voce dei fratelli che mi dettavano i loro ricordi. Non so come questo possa accadere, so solo che quando scrivevo di loro, erano lì, letteralmente presenti. Forse questa è la magia della letteratura. È la magia di un’altra dimensione?
1920 – Paolo e Sarah
Nella Napoli di primo novecento vivevano due famiglie di opposta provenienza geografica, ideologica, sociale: una proveniente dai monti innevati del Lago Maggiore tra Piemonte e Lombardia, l’altra dalle piane assolate del Salento, tra Napoli e Trani. Da una parte i Conti d’Arzago di tradizione risorgimentale, dall’altra i Marchesi di Campodisola di tradizione borbonica. Tra le due nobili famiglie, alla stregua di Montecchi e Capuleti, non correva buon sangue. Sempre la stessa tragica storia.
Paolo e Sarah si conobbero in questo clima di conflitto. Non so cosa accadde veramente, fatto sta che la coppia fece scandalo, quel matrimonio non s’aveva da fare, eppure alla fine i due riuscirono nell’eroica impresa.
Paolo era tornato dalla Grande Guerra deluso e amareggiato, aveva ormai quasi trenta anni quando iniziò a far tirocinio come ingegnere nell’eccellente studio di Francesco de Simone, il più famoso architetto di Napoli, colui che aveva fatto due piani regolatori della città. Purtroppo era un borbonico che mal sopportava i savoiardi. Il padre di Paolo, Conte d’Arzago era sceso giù a Napoli come funzionario delle Ferrovie Statali, un perfetto nordista.
Lo studio dell’ingegnere era adiacente all’appartamento del Capo Francesco, Paolo alzò gli occhi dalle tavole di un progetto e improvvisamente gli apparve una fata dai capelli turchini e gli occhi di ghiaccio. Una dea. Lei si rivolse all’ingegnere con una voce sottile e decisa: «Padre» «Dimmi Sarah». Sarah, nome divino. Ma era la figlia prediletta dell’Ingegner Francesco. “Amore e casini a prima vista”.
1943 – Fame Freddo Madre
Se penso di raccontare la vita di una famiglia italiana in una città in guerra la narrazione si concentra su tre parole: “Fame, Freddo, Madre”. Benché la mia fosse stata una famiglia agiata, la scarsità di beni e di mezzi, la ricerca di farina erano tali che la fame livellava tutti gli italiani.
Non parlo di quella fame quando si torna a casa stanchi e si chiede: “Ho fame, che cosa c’è da mangiare?» No, quella era un’altra fame, una fame vera, una fame nera. Niente latte a colazione, semmai un po’ d’acqua calda se c’era ancora carbone, lunghe file nelle strade dove pie istituzioni distribuivano una brodaglia di farina di ceci con una mezza dozzina di cannolicchi, un filoncino di pane nero e poco altro per cena. Il caffè era un infuso di cicoria essiccata, schifoso, l’olio era strutto e nei giorni di festa c’era un’ottima torta di bucce di piselli.
Ricordo che con Ugo e Carlo si andava a racimolare erba a ridosso della ferrovia di San Lorenzo. Chissà perché vicino ai binari il terreno è sempre più fertile. Ugo fu anche catturato e sculacciato dai tedeschi perché si era introdotto in un giardino sul lungotevere per rubare fiori di biancospino.
Come la fame era “Fame”, il freddo era “Freddo”. Alla mancanza di cibo e sale si aggiungeva la mancanza di legna e carbone, la privazione dell’uno aumentava la sofferenza dell’altro: per passare la notte si dormiva abbracciati. Se un vestito si strappava si riparava, se giacche e cappotti si consumavano si rivoltavano, i vestiti dei più grandi passavano ai più piccoli e noi tutti desideravamo l’estate per poter girare seminudi in città.
La terza parola è “Madre”. Sono convinto che non si sia compresa l’enorme importanza delle donne durante la guerra: senza di loro non avremmo potuto resistere. Le madri sono l’ossatura di ogni famiglia e civiltà. Scarseggiavano tutti i beni di prima necessità, molti prodotti non si trovavano affatto, noi figli piccoli cominciammo a piangere per la fame. Lo stipendio di mio padre non bastava, mia madre iniziò a vendere i gioielli di famiglia per frequentare il mercato nero. I “mercatari” chiedevano oro e argento, ma i prezzi erano troppo alti e in poco tempo tutti i suoi gioielli finirono in qualche manciata di farina e carbone.
I rumori delle bombe erano ancora lontani, ma i danni che provocavano si sentivano anche in città. Il Governo invitò la popolazione a offrire l’oro per procurare le risorse necessarie a difendere la Patria. Ai miei era rimasta soltanto la fede nuziale, mamma Sarah si mise in fila e donò le due fedi in cambio di due anelli di metallo. Li portò al dito tutta la vita considerandoli ancora più preziosi dell’oro.
1947 Ho amato Alatri
Ho amato Alatri sin dal primo momento, quando la vidi sorgere come un’isola su un lago di nebbia. Percorrevo per la prima volta la statale che da Frosinone passa tra i campi coltivati di Tecchiena. La nebbia allagava la valle. Superato un ponte si iniziò a salire e Alatri apparve sopra alle nubi offrendomi una visione affascinante.
Sulla cima della collina c’era una monumentale costruzione di enormi massi squadrati: «l’Acropoli» mi disse papà. Da lì scendeva un mantello di vecchie case di pietra che si distendevano fino a valle. Non so, sarà stato l’incanto della sorpresa, forse i miei occhi di bambino, che quella bellezza sapeva di antico, ma io ebbi una visione fantastica, mi sembrò di entrare in una fiaba che per me si intitolava “Paese Futuro”.
Tenete presente che io avevo vissuto a Roma e poi a Firenze, città che mi avevano serbato immagini dolorose, di sangue, di fame, dove avevo conosciuto la paura della guerra, la violenza del collegio, il rombare degli aerei, il frastuono delle bombe… E adesso per la prima volta vedevo un paese. La cosa che mi colpì subito fu la sua voce, era un silenzio d’ovatta a me sconosciuto, come una promessa di serenità, di quiete dopo la tempesta, una madre amorosa, accogliente, calma.
Tutti ad Alatri si conoscevano, ognuno sapeva tutto di tutti, si era come una grande famiglia. Ci si incontrava, si raccontavano storie. Spesso si trattava di storie inventate, a volte con cattiveria, ma poi tutti finivano per accettarsi, uniti dai riti comuni e dalle rigide regole di paese per respirare un clima di comunità.
Le chiacchiere, le dicerie, provocavano spesso sofferenza in qualche paesano più debole che veniva per questo bollato, eppure mai nessuno veniva emarginato. Il paese stesso non lo consentiva. La mattina al mercato o nello struscio del pomeriggio si incontravano tutti. Ovviamente qualche chiacchiera di troppo volava, le occhiatacce non mancavano, ma tutto finiva li, non c’era ipocrisia, quel doppio atteggiamento che ormai inquina i paesi di apparenza e indifferenza.
Solo in un’occasione, per quel che so, lingue troppo puntute provocarono gravi conseguenze su una povera ragazza madre che fu cacciata di casa dal padre. L’avrei incontrata a Roma molti anni dopo. Aveva vissuto facendo la donna di pulizie e di tanto in tanto di qualche avventura. Dopo il primo figlio ne avrebbe fatti altri sette, tutti con uomini diversi. Quando la incontrai viveva a San Lorenzo. La testa non le funzionava perfettamente, era seguita dai servizi sociali e frequentava un centro di salute mentale. Eppure aveva tirato su otto figli.
Avrei scoperto nel tempo altri episodi minori, ma tutti marginali. Le cattiverie c’erano, naturalmente, ma non prendevano il sopravvento, non diventavano cultura, alibi del “funziona così”. Il paese che andavo scoprendo era sostanzialmente abitato da persone buone. Eih! Se ho scritto “buone” non sto esagerando. Mamma Sarah diceva che “La bontà non si compra al mercato”. Papa Francesco dice che «Nelle crisi più buie il vero cuore si rivela». Ora io vi parlo della vita di un paese nel dopoguerra, quando si doveva essere buoni e operare insieme per ricostruire ciò che l’egoismo avevano distrutto.
Ad Alatri erano gentili, imparai presto a muovermi da solo per le strade, mi feci tanti amici, diventai il nipotino di molte famiglie, mi intrufolavo in ogni casa e nelle più umili ero sempre accolto con la semplice bonomia di chi desidera amici. Me lo raccontò Luciano: «Eri come il prezzemolo, stavi bene dappertutto».
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Estate 1958
Lasciammo Alatri, raggiungemmo Roma, e la storia cominciò a correre. Soltanto ora mi rendo conto di quanto sia stata fortunata la mia generazione, ha avuto l’opportunità di vivere un pezzo di storia che ci ha portato dritti ad un nuovo millennio. Ad un certo punto ci siamo tutti messi a correre a perdifiato verso un’era dove ogni cosa sarebbe stata diversa da quando siamo nati. Non c’è stato tempo di fermarsi un attimo a respirare un po’ di calma, elaborare, accorgerci dove ci stavamo dirigendo.
Penso che nella storia dell’uomo nessuna generazione abbia potuto assistere, nel bene e nel male, a così tanti cambiamenti, siamo stati fortunati. Quando ero piccolo nemmeno lontanamente avevo idea di computer, internet, ma che dico, di una mastodontica televisione in bianco e nero. I miei nipoti, invece, attaccati ai loro Smart non possono immaginare il mio mondo. È doveroso raccontare che noi eravamo senza Smart.
Così nell’estate del 1958 lasciammo Alatri e tornammo a Roma. La partenza fu triste per tutti. Io feci il viaggio con le lacrime agli occhi. Vittorio abitava già a Roma, Enrico e Luciano restavano in Ciociaria, Franco e Ugo sarebbero emigrati in cerca di lavoro. L’unico contento era Carlo perché la sua amata Maria Pia era già “emigrata” a Roma. Eravamo grandi, ognuno di noi avrebbe seguito la sua strada, eppure la famiglia non si sarebbe sfaldata, doveva solo trovare un nuovo equilibrio.
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