E tuttavia, sapevo che il luogo che avrei raggiunto di lì a poco, la grande sala riunioni in cui di solito incontravamo i gruppi associati alla nostra azienda, sarebbe stata di sicuro illuminata, come ogni volta, per cui tentai di ricacciare dentro ogni pressante preoccupazione, ogni piccolo indizio dell’avvicinarsi dell’inevitabile, e continuai a ripetermi che non poteva accadere nulla, che tutto sarebbe andato bene, che la mia paura si sarebbe presto disciolta, come cubetti di ghiaccio in un Old Fashioned di ambrato whisky on the rocks.
Mi sorpresi, però, a chiedere in silenzio alla luce di proteggermi da ogni invisibile attacco, di difendermi, di non permettere che accadesse ancora.
Tuttavia, quando presi posto all’interno della sala glacialmente illuminata, come avevo previsto, da una fila interminabile di neon di un bianco accecante, e mi sedetti in prima fila in attesa che la riunione avesse inizio, sapevo già che le mie paure avevano forti fondamenta.
I miei goffi tentativi di camuffare il mio stato, mi apparivano come il pretendere di volere svuotare il mare, avendo tra le mani solo un ditale da sarto.
O forse, come volere dragare la sabbia di una spiaggia con l’indice, alla ricerca di un sogno perduto, o sperare di potere trattenere la pioggia e il vento di un uragano improvviso, tra le dita di una mano.
Mi guardai intorno in cerca della fonte, della causa primaria del mio incessante malessere ma, per quanto tentassi, non riuscii a scorgere nessuna faccia nuova che potesse giustificarlo.
I miei colleghi chiacchieravano distratti a piccoli gruppi, sparsi in fondo alla grande sala, mentre qualcuno ancora si attardava davanti al distributore di caffè, la cui imponente sagoma squadrata era appena visibile sulla parete di fronte, fuori dalla porta semiaperta.
Tutto sembrava essere al proprio posto, ma io sentivo che non era così, sapevo che qualcosa sarebbe accaduto, che qualcosa avrebbe scosso l’apparente calma della superficie di questo mare, il cui sale avvertivo già sulle labbra.
I sintomi erano tutti lì, ed io non sapevo più cosa fare per tentare di ignorarli, se non concentrarmi con tutte le mie forze sul piccolo quadrato di cielo, che riuscivo a scorgere fuori dalla finestra alla mia destra, ed invocarne l’aiuto.
“Dio della Luce, proteggimi.”
“Allontana da me questo calice di fiele. Non lasciare che mani sconosciute lo avvicinino alle mie labbra inopportunamente dischiuse, in attesa dell’inevitabile.”
“Manda il tuo cerchio di fuoco e avvolgimi nel tuo abbraccio, perché temo che questa volta sarà una tragedia, come trent’anni fa.”
“Dio della Luce, fa che le mie premonizioni svaniscano come d’incanto, come i sogni al mattino. Fa che tutto questo possa scorrere lieve.”
“Non lasciarmi languire in questo limbo d’attesa. Dio della Luce, aiutami.”
“Allontana questo calice, e manda via questi pensieri. Scacciali via da me, dalla mia mente, con un fendente preciso della tua spada potente.”
“Dio della Luce, proteggimi.”
Quella sera, tuttavia, la mia divinità celeste doveva essersi distratta, poiché gli eventi precipitarono improvvisi, come immagini di un film riprodotte a una velocità maggiore, quasi qualcuno avesse lasciato inavvertitamente in funzione il tasto del fast forward di un lettore digitale.
Sentii chiamare il mio nome.
O meglio, avvertii il peso di quella parola così familiare al mio orecchio, prodotta tuttavia da una voce sconosciuta, atterrare come un falco in picchiata sulla mia schiena nuda, mentre il rapace affondava gli artigli nella carne.
Mi girai d’istinto, e fu allora che lo vidi per la prima volta.
Vidi lui, lo sconosciuto che sarebbe stato la causa di tutto, il responsabile del mio inarrestabile stato di alterazione sensoriale.
Non era particolarmente alto, né particolarmente bello, ma irradiava irresistibile fascino dalla sua figura solitaria, in piedi in fondo alla sala. E di certo doveva essere una persona speciale, poiché solo persone speciali potevano entrare in contatto con questa parte di me, così in profondità, perché sapevo bene che soltanto qualcuno che potesse tirare fuori la testa dalle onde, poteva avere la possibilità di raggiungermi così intimamente.
L’uomo, dai lunghi capelli scuri che sfioravano le ampie spalle, indossava una camicia che richiamò alla mia mente il colore di una sabbiosa spiaggia siciliana, su un paio di pantaloni marrone scuro. La giacca, dello stesso colore del pantalone, pendeva dalla sua spalla destra, trattenuta da dita invisibili.
“Un abbigliamento dalle sfumature stranamente autunnali, per una giornata di primavera inoltrata,” pensai.
Il nuovo arrivato si guardava intorno, spaesato, come ogni intruso all’interno di un gruppo ormai consolidato, mentre avanzava dal fondo della sala.
Lo guardavo venire avanti con il suo incedere elegante, che mi portò alla mente le sinuose movenze di un torero nell’arena.
Nel momento esatto in cui i miei occhi si posarono sui suoi, seppi per certo che la voce che avevo avvertito era la sua: una voce rassicurante, musicale, da quel poco che avevo potuto percepire tra le poche lettere che componevano il mio nome.
La sua voce non era più un mistero, dunque.
Cos’altro avrei scoperto, se gli avessi lasciato aperta la porta?
Dove mi avrebbe condotto?
Lo vidi avanzare ancora, molto lentamente, lungo il corridoio centrale, l’invisibile muleta scarlatta che ondeggiava tra le sue dita, mentre le file di sedie in plastica scura lo chiamavano silenziose.
Ma non prese posto.
Tirò invece fuori dal nulla, d’un tratto, con un gesto preciso e studiato da illusionista consumato, un portafoglio nero che aprì, lasciando scivolare via dei cartoncini sul pavimento, come ricordi abbandonati dal tempo.
Biglietti da visita, pensai.
E si chinò, con la grazia di un danzatore orientale, di un tuffatore olimpionico da trampolino, di un matador ferito all’addome, in un gesto liquido che rimandò alla mia mente il mistero di una scoperta inattesa, di uno svelamento improvviso ma fuori luogo, di un contatto inopportuno.
Si chinò per raccogliere ciò che era appena scivolato via dalle sue dita, e nel chinarsi lanciò il suo sguardo obliquo verso me, quasi a suggello di un’intesa silente, un patto di cui solo noi due eravamo partecipi, tra la folla.
Fu allora che mi ritrovai sott’acqua, senza nessun preavviso, e senza avere avuto il tempo di trattenere il fiato, prima dell’apnea.
Sott’acqua.
Seduto sul fondale sabbioso.
Nessuna forma di vita in vista, nessun pesce variopinto, nessuna traccia di alghe, ricci, stelle o cavallucci marini.
Solo le gambe di quest’uomo sconosciuto, il mio uomo sconosciuto, in piedi vicino a me.
Riesco a scorgere il resto del suo corpo attraverso la superficie dell’acqua. È in piedi qui accanto, il viso distorto rivolto verso di me, che resto seduto sul fondo.
Mi dice qualcosa.
Vedo la sua bocca muoversi per produrre un suono, parole che non riesco a percepire, distorte dalla musica cupa del fondale marino in cui mi trovo.
Continua a ripetere qualcosa, mantra indecifrabile, perché io continuo a non riuscire a decodificare quei suoni.
Mi sforzo, ma non ci riesco.
Il mio orecchio percepisce solo cacofonie cupe e ovattate, risultato delle onde sonore che si infrangono contro il muro liquido dell’acqua.
Cosa vuoi dirmi, sconosciuto? Quale urgenza è così pressante sul tuo cuore, da non potere attendere oltre? Perché non hai aspettato che la riunione finisse? Perché mi hai spinto sul fondale di questo mare cristallino e desolato?
Devo uscirne.
Non posso attendere oltre.
Non posso rischiare che la mia condizione generi la curiosità di qualcuno che, seduto al mio fianco, potrebbe chiedersi cosa stia accadendo. Se attendessi oltre, non avrei scampo. Sarei un bersaglio troppo facile. Una preda in uno spazio aperto, senza rifugi in vista.
Devo scuotermi e abbandonare questo stato, a me ormai così familiare.
Trent’anni di contatti più o meno profondi, di esperienze di estraniamento dal mio corpo, trascinato in luoghi sconosciuti, in esistenze parallele, da individui che non avevo mai incontrato prima, tutti accomunati dalla stessa urgenza, lo stesso bisogno impellente di comunicare qualcosa di profondo, come un oceano inesplorato, così profondo da non poterne parlare.
Devo farlo, è il momento.
So come interrompere il contatto.
È pericoloso, lo so bene, ma so anche di non avere alternativa, di non potere percorrere altre strade, al momento.
Mi serve energia, ho bisogno di accumularla alla base del plesso solare, il terzo chakra, e dunque mi concentro sul respiro.
(“…fuori…dentro…fuori…dentro…”)
Ecco, mi tiro fuori.
Devo abbandonarti, straniero. Mi dispiace, ma devo farlo, perché hai scelto un momento poco opportuno per raggiungermi. È troppo pericoloso.
Spero avremo una seconda occasione.
Non sarà facile, lo so, non ti conosco. Non so neanche il tuo nome, ma devo lasciarti andare.
Non volermene. Devo farlo.
Mi ritrovo seduto in prima fila.
La riunione è iniziata, ma non so da quanto tempo, anche se credo non da molto, poiché il viaggio al di fuori di me non mi concede mai indizi temporali.
Posso solo dare un’occhiata veloce al grande orologio a parete.
Pochi minuti, apparentemente, ma sento che il mio corpo sembra essere stato sottoposto a ben più lunga agonia.
Sto male, ma lo prevedevo.
Interrompere il contatto non è mai la scelta migliore, anche se a volte è l’unica possibile.
Nonostante il respiro si sia regolarizzato, continuo a sudare parecchio.
Sono costretto a liberare il colletto della camicia dai bottoni opprimenti sul collo. Non serve a molto, ma è un sollievo leggero.
I miei polmoni hanno bisogno d’aria.
Mi alzo in piedi, scusandomi con i colleghi seduti accanto a me, lascio la prima fila, e cammino lentamente verso l’uscita.
La testa mi gira, lo stomaco è in subbuglio, un velo scuro annebbia la mia vista.
Faccio in tempo a chiudermi in bagno e a inginocchiarmi sul pavimento di piastrelle bianche, prima di liberare il peso del mio breve viaggio inatteso: un fiume di liquido scuro che sgorga dalla mia bocca, riversandosi sul candore della ceramica.
Riprendo a respirare, dopo quest’apnea forzata sul fondo di un mare ignoto, e ignaro della mia condizione.
Ancora respiro (“…fuori…dentro…fuori…dentro…”) cercando di scacciare via il dolore, questo dolore silenzioso che mi opprime. Il dolore di non essere riuscito a saperne di più di questo sconosciuto misterioso, di quest’uomo che ha trovato il momento meno adatto per farsi sentire, per tentare di rendermi partecipe del suo segreto mai svelato.
Abbandono l’abbraccio gelido della ceramica, mi ricompongo come posso e torno dentro.
La sala è ancora illuminata.
Troppo illuminata, per le fessure dei miei occhi.
Klaus, il mio socio, sta parlando di nuove prospettive per la nostra azienda, di territori inesplorati e remunerativi.
Il mio uomo è lì, seduto e apparentemente attento alle parole del relatore: lo individuo subito tra la folla, non mi serve molto per sentirlo già parte di me.
So già che il viaggio sarà interessante, ma che non sarà facile creare le occasioni per un nuovo contatto, in un posto idoneo e rispondente ai miei requisiti essenziali.
Dovrò trovare un luogo chiuso, pieno di gente e al buio, perché sono questi gli elementi che, per trenta lunghi anni, ho ritenuto essenziali affinché qualcosa potesse accadere.
Ci sono voluti trent’anni, tuttavia, per capire che il buio non è poi un requisito imprescindibile, perché l’urgenza di questo sconosciuto compagno di viaggio non gli ha concesso l’attesa, questa sera.
Ma il buio mi è alleato, non posso farne a meno.
Tuttavia, prima di pensare al luogo più adatto, dovrò scoprire qualcosa in più su di lui e sapere chi è, come si chiama, perché si è trovato qui, oggi.
Non sarà facile, lo so, ma dovrò provarci, o la profondità dei suoi segreti non mi lascerà dormire la notte.
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