Non si può immaginare cosa significhi perdere un genitore quando si ha solo diciassette anni, è come se qualcuno ti strappasse il cuore all’improvviso. È come non riuscire più a respirare.
Ricordo come se fosse ieri che dopo il funerale io e mia madre eravamo circondate da una moltitudine di persone e parenti di cui ignoravo l’esistenza.
Quel giorno pioveva a Sox Valley. Era il primo giorno di autunno. La pioggia batteva sulle prime foglie cadute sulla strada. Ricordo tutta quella gente che mi abbracciava cercando di confortarmi, le parole inutili, le lacrime che non riuscivo a trattenere.
Cercavo di convincermi che mio padre si trovasse in un posto migliore e che Dio, o chi per lui, l’avesse chiamato a sé e che adesso fosse una specie di Angelo che vegliava su di me. Che mi proteggeva, mi sapeva consigliare in tutto, mi parlava e mi teneva la mano sulla spalla rassicurandomi e asciugandomi le lacrime. Ma purtroppo non sentivo niente: nessuna voce, nessuna mano sulla spalla, nessun dolore.
Passai i mesi che seguirono a cercare l’immagine del suo volto, ma lo sognavo ancora in cucina seduto ad aspettarmi al ritorno da scuola, con quel sorriso di scherno e i suoi baffi grandi e neri.
Quando ero piccolina volevo sempre andare fra le sue braccia e giocavo con le sue enormi mani, ricordo ancora il suo profumo di tabacco muschiato.
Mio padre era innamoratissimo di mia madre, l’adorava, e in tanti anni non li avevo mai visti discutere. Avevano una complicità straordinaria.
La cosa che porterò sempre dentro al mio cuore è il suo ottimismo, anche nelle cose più negative trovava qualcosa di positivo e questo suo modo di essere mi trasmetteva forza e serenità.
Lui, solo e soltanto lui, mi faceva sentire una persona migliore. Quell’ottimismo adesso è oramai un ricordo lontano, assieme alla fiducia verso il prossimo.
Dopo la sua morte tutte le persone che conoscevo continuavano a ripetermi che sono disgrazie che nella vita accadono per insegnarti qualcosa, perché noi siamo parte di un chissà quale Disegno Divino, la vita ci mette alla prova e bisogna sempre rialzarsi.
Ma cosa può insegnare a una ragazzina di diciassette anni una cosa simile? Quale Disegno Divino può aiutarti a rialzarti quando due agenti di polizia, nel cuore della notte, suonano al campanello di casa tua, dicendo Mi dispiace Signora Norx, l’auto di suo marito è stata travolta da un Tir. Il conducente è fuggito, non possiamo dire altro al momento. Non c’è stato niente da fare, suo marito non ce l’ha fatta?
Come si fa a rialzarsi quando ti senti schiacciata da un dolore pesante come un macigno che ti permette a malapena di alzarti da letto al mattino?
L’autista del Tir era ubriaco, si scoprì qualche settimana dopo l’incidente. Perse il controllo del mezzo che invase la carreggiata proprio mentre arrivava la Ford di mio padre dalla parte opposta. L’auto fu travolta e finì in un burrone.
Quella sera stava tornando a casa dopo un processo molto importante in cui si era schierato contro una grossa multinazionale chimica che aveva avvelenato i propri operai e la città di Sox Valley.
Sono trascorsi due anni, il dolore è sempre vivo. Non smetto mai di chiedermi perché questo incubo sia capitato proprio a me.
Nell’ultimo periodo mi ero documentata sull’Ematex Corporation, la multinazionale sulla quale indagava mio padre prima dell’incidente. Avevo studiato in modo particolare le sue attività, le sue collaborazioni e soprattutto i suoi investimenti. A capo della società c’era il Sig.Smith, l’industriale più ricco di Sox Valley.
La sera in cui papà ebbe l’incidente, la polizia ci consegnò una busta contenente tutti i suoi effetti personali quando andammo al riconoscimento del corpo.
Mia madre era distrutta, ricordo le mani che le tremavano, le lacrime che continuavano a sgorgarle dal viso pallido e angosciato, l’inutile pietà delle persone che le facevano le condoglianze.
Aprii la busta quando tornammo a casa. Ero sul mio letto con le gambe incrociate e le lacrime che piano piano si riversavano sul mio viso stanco e spossato.
Il contenuto della busta racchiudeva pochi oggetti: l’orologio d’oro che gli aveva regalato mia madre per il loro fidanzamento, la fede, le sue sigarette preferite, un fazzoletto di stoffa con le sue iniziali che annusai per un istante per sentire ancora il suo odore, e il suo taccuino di cuoio.
Lo avevo visto spesso nelle mani di mio padre perché annotava tutte le sue cose di lavoro.
Lo aprii perché ero troppo curiosa: lessi tutto d’un fiato le prime venti pagine, annotazioni sull’Ematex Corporation e sul Sig.Smith. Poi, verso la trentesima pagina trovai una serie di descrizioni di vari appostamenti che mio padre aveva effettuato nei suoi confronti.
Mi ricordo che nelle ultime settimane prima del processo rincasava sempre molto tardi ma non gli chiesi mai niente.
Lessi tutti i dettagli, ma mi incuriosirono in modo particolare quelli relativi al quindici settembre.
Aveva seguito il Sig. Smith quella stessa sera e dal taccuino risultava che si doveva incontrare con uno strano soggetto nella zona industriale di Sox Valley, che si estendeva per un’area molto grande e vasta ed era delimitata dai binari della vecchia ferrovia che cingevano la città per una buona parte della sua estensione.
La città si trovava in una valle, formatasi per erosione fluviale, e la sua superficie era difficile da quantificare. Molti fiumi attraversano l’intera area regalando una vegetazione folta e boschiva.
Ore 00.30. Dopo 6 ore di appostamento, il Sig.Smith esce di casa. Lo seguo e dopo mezz’ora di strada raggiungo la zona industriale, dove si ferma. Ad aspettarlo c’è una grossa berlina nera. Dalla posizione mi è impossibile leggere la targa.
Mi fermo qualche metro prima e scendo. Mi nascondo dietro a un muretto adiacente al parcheggio per poter scattare qualche foto cercando di non destare alcun sospetto.
Mi tremano le mani, da lontano vedo entrambi, ma non riesco a individuare l’identità della persona che sta parlando con il sig. Smith. Si scambiano una busta…
La descrizione nel taccuino si interrompe, e quelle foto non furono mai trovate.
In città il Sig. Smith era visto da tutti come un benefattore perché, con la sua industria, dava lavoro alla maggior parte dei cittadini.
Negli ultimi anni, nella nostra città erano avvenuti molti ricoveri in circostanze molto strane di cui nessuno conosceva la causa.
Mio padre aveva il sospetto che fossero collegati in qualche modo alla Ematex.
Il Sig. Smith era un uomo distaccato, freddo, secondo me non aveva un cuore e si curava solo dei suoi interessi. Era molto alto, magro, coi capelli brizzolati e gli occhi chiari: il suo sguardo metteva in soggezione chiunque lo incrociasse.
Non si sapeva quasi niente sul suo conto, solo che la città era sotto il suo pieno controllo.
Mio padre aveva dei sospetti su di lui già da tempo, difatti era riuscito a convincere due dipendenti dell’azienda a testimoniare contro la società. Lo stesso giorno in cui iniziò il processo i testimoni scomparvero in circostanze misteriose, e quella stessa notte mio padre perse la vita.
Nel giro di poco tempo, alla successiva udienza, il giudice ritenne la Ematex estranea ai fatti e vinse il processo per insufficienza di prove e di testimoni.
A volte pensavo che l’incidente di mio padre non fosse stato un caso, ma ordito dall’Ematex per liberarsi di lui. Non avendo prove, non potevo però dimostrarlo.
“Sophie, tutto ok?”.
“Sì mamma, stavo solo riflettendo”.
“È meglio che vai di sopra a studiare o questo esame non riuscirai mai a passarlo. A proposito, quand’è la data?”.
“Mamma, lo sai che non te lo dico, sono superstiziosa e oramai mi dovresti conoscere”.
“Tanto lo so che è vicino, altrimenti non saresti così agitata”.
“Dalla mia bocca non uscirà una parola! Senti, per caso ha telefonato Jasmine?”.
“No, perché?”, mi chiese.
“Dovevamo uscire per parlare della festa di fine anno che l’università organizza per gli studenti”.
Il campus di Sox Valley contava circa ventimila studenti provenienti da molte località del Paese, si poteva definire a tutti gli effetti una vera e propria cittadina universitaria.
La festa si svolgeva durante le festività pasquali, tutti gli studenti erano in fermento per questo avvenimento e, la maggior parte delle volte, accadevano eventi spiacevoli: le persone sobrie al termine della serata si potevano contare sulle dita di una mano.
Continuavo a guardare l’orologio e dovevo sbrigarmi se volevo arrivare in orario all’appuntamento.
Mia madre mi osservava da lontano mentre ero intenta a guardarmi allo specchio per un ultimo ritocco, quando incuriosita si avvicinò.
“Hai intenzione di andare alla festa con qualche ragazzo?”, mi chiese.
“No, mamma”, borbottai fra i denti. “Non ci penso proprio, lo sai che ho cose molto più importanti da fare, ho solo diciannove anni e poi non m’interessano queste frivolezze”, le dissi convinta.
Mia madre mi seguì con lo sguardo e ridacchiò.
“Invece è proprio a queste cose che dovresti pensare, sei giovane e bella, dovresti uscire, invece di rinchiuderti sempre in casa a studiare!”.
Ormai ero abituata a questi discorsi, tanto era inutile cercare di far capire determinate cose a mia madre: lei la pensava diversamente ed eravamo come il giorno e la notte. Ci volevamo però un gran bene ed eravamo sempre rimaste unite, soprattutto dopo la morte di mio padre.
Non le assomigliavo fisicamente, mentre ero la copia esatta di papà.
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