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Food-technocracy: il contrappasso

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Consegna prevista Luglio 2025
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Giuseppe Fabbri è un imprenditore di successo nel mondo della carne. Spocchioso e superbo sino all’inverosimile, possiede tutto ciò che un uomo possa desiderare.
A causa di un esperimento finito male, si ritrova catapultato nel futuro, avanti di quasi mille anni, in un futuro distopico, con una società rigidamente divisa in livelli e governata da una multinazionale del cibo, dove sono le tecnologie alimentari a farla da padrona e la carne, al pari di tutte le proteine di origine animale, sono bandite.
Costretto a vivere da alienato nei bassifondi di una sterminata megalopoli, solo e senza cibo, si renderà piano piano conto di non trovarsi lì forse per puro caso e aiutato da un enigmatico compagno di viaggio, proverà a cambiare il corso degli eventi.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro con lo scopo di contribuire a rendere mainstream il foodtech, e in generale tutto ciò che ruota attorno all’innovazione agroalimentare in quanto è palese come l’argomento, al pari di tutti i neologismi col suffisso “tech”, possa senz’altro ancora considerarsi come di nicchia. Nel libro è presente anche una velata denuncia ambientale riferita al consumo di proteine animali, pur mantenendosi distante anni luce dall’estremismo di una parte della galassia vegan.

ANTEPRIMA NON EDITATA

CAPITOLO 1 – Tutto pronto? – Campagna modenese – 27 maggio 2028

Quello era quel preciso periodo dell’anno durante il quale la campagna, in gran parte d’Italia ma non solo, poteva senza ombra di dubbio definirsi “meravigliosamente, incredibilmente, eccezionalmente monotona”. Un evidente ossimoro per sottolineare la quasi monocromia del paesaggio rurale, dove vi era un solo colore a farla da padrone. Il giallo. Una monotonia cromatica che si estendeva su ettari e ettari di terreno color oro, coltivati a  grano e punteggiati dal vermiglio dei papaveri, parzialmente interrotta da un altro giallo, quello più acceso sei campo di colza, dal lussureggiante verde degli orti, dal bianco senza tempo delle case rurali e dal grigio moderno dei capannoni, sempre in fervente attività. L’aria era ovviamente permeata dal persistente e tipico olezzo di letame, quasi a rammentare che non ci si trovasse esattamente nella via dello shopping di un centro urbano. Il tutto veniva accompagnato da una colonna sonora ove l’abbaiare dei cani si sovrapponeva al cinguettio dei passeri, al canto delle capinere e al rombo dei trattori, in una polifonia non propriamente orecchiabile ma certamente caratteristica.

Melodia e atmosfera campestre che venivano interrotti giornalmente, a intervalli regolari, dal rombo della Ferrari Purosangue di Giuseppe Fabbri.

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Il fatto stesso che fosse stato il primo italiano a ricevere il SUV del Cavallino, alcuni anni addietro, non aveva fatto che aumentare ancor di più l’autostima, per non dire l’arroganza, la supponenza e la spocchia dell’imprenditore modenese, che incarnava alla perfezione l’archetipo dell’industrialotto di provincia.

Un metro e ottanta, quarantacinque anni, sposato da venti, tre figli, un passato da donnaiolo mai del tutto sopito, appassionato di boxe, fondatore di un’azienda molto ben avviata e profittevole nel settore della carne, costantemente fasciato in completi sartoriali scuri. L’outfit quel giorno diceva gessato blu marino, con petto a lancia, camicia azzurrina e pochette in fantasia rosa e azzurra, sormontato da un paio di occhiali da sole con lenti rotonde, sull’azzurrino fumè, a formare una sorta di armonia cromatica.

Il rapporto tra Il Fabbri e la carne andava ben oltre il lavoro. In barba a qualsiasi raccomandazione delle agenzie internazionali e, negli ultimi anni, anche di Slow Food, che raccomandavano di ridurre il consumo di carne e proteine animali per ragioni tanto ambientali quanto di salute, Giuseppe, con suo sommo gaudio, continuava infatti a consumare carne, talvolta anche due, se non tre volte al giorno. D’altro canto, un commerciante di carne vegano, aldilà dell’odio viscerale nutrito verso la galassia dei “mangiaerba” come egli amava definirli, sarebbe il più grande degli ossimori. Forse più grande della “meravigliosa monotonia” dei campi di grano. Un’amore per la ciccia non privo ovviamente di risvolti a livello di salute, che si palesavano spesso e volentieri ogni qualvolta il Fabbri premeva l’acceleratore o il freno, o anche quando solo si infilava le scarpe.

Da un certo punto di vista, a Giuseppe non dispiaceva affatto che anticamente la gotta venisse chiamata “La malattia del re”. Per quanto tale definizione fosse ormai decisamente desueta, e decisamente anacronistica, la stessa contribuiva a fargli mantenere quell’aria di superiorità che da sempre lo contraddistingueva. Che lo faceva camminare idealmente ad un metro da terra. Che gli faceva considerare tutti coloro che lo circondavano come esseri inferiori.

Il sole era già alto in quella calda giornata di fine primavera e, puntuale come ogni giorno, Giuseppe interrompeva la monotonia del paesaggio agreste con il rombo del suo SUV, sfrecciante sulla strada di campagna che collegava la mega villa dell’imprenditore modenese con la sede della Fabbri Carni S.p.A. 

Ma il suo stato, sia fisico che mentale, non era dei migliori.

Quel giorno arrivò in ufficio alle otto. E già questo di per sé era da considerarsi un evento eccezionale, dal momento che egli adorava arrivare in ufficio sempre per ultimo, dopo le nove, a rimarcare di fatto che fosse lui il capo supremo. Una specie di sovrano. L’alter ego moderno di un feudatario..

Una figura certamente controversa che faceva apparire talvolta la Fabbri Carni S.p.A. come una sorta di regno medievale. E non era inusuale che si facesse beffe degli imprenditori e dei manager svizzeri che invece erano soliti arrivare per primi. “Mi dispiace, ma io so io, e voi non siete un cazzo” era la citazione del compianto Alberto Sordi che Giuseppe pensava tra sé e sé ogni qualvolta varcava la soglia dell’azienda. Un ingresso accolto quotidianamente da un ossequioso “buongiorno Sig. Fabbri” dalle tre ragazze addette al ricevimento, sempre impeccabili nei loro tailleur scuri, coi capelli sempre perfettamente in piega e il trucco leggero, quasi impercettibile, abbastanza per dare alle segretarie un’aria ordinata senza scadere nel volgare. Non erano mancate in passato osservazioni di Giuseppe per tramite dell’ufficio del personale, sul colore del rossetto, la lunghezza delle unghie e persino sul tratto dell’eye liner.

Con la sua assistente personale, che nel corso degli anni era diventata quasi un’appendice della sua persona, e che aveva generosamente ricompensato cedendole delle quote aziendali, facendola diventare a tutti gli effetti l’archetipo della perfetta socia operativa, il Fabbri sembrava essere un po’ più accondiscendente per quanto riguarda trucco e outfit. Un po’ perché la Signorina Buiatti, trasferitasi tre anni prima da Udine, non avesse contatti costanti con i visitatori esterni, ma un po’ anche per puro sollazzo personale.

Signorina Buiatti che come una sorta di automa, da tre anni, pochi minuti prima delle ore nove ritirava i quotidiani in reception, che sistemava ordinatamente nella scrivania del suo capo e schiacciava il pulsante della macchina del caffè all’udire del rombo della Ferrari nel parcheggio.

E non era stata da meno in quella mattinata del 27 maggio. Il Grande Giorno. Con tutto ciò che qualsivoglia grande giorno potesse portare a corollario con sé. A partire dal capo che arriva per primo.

In azienda si respirava infatti un’aria particolare, elettrica, frizzante, ma al contempo anche leggermente tesa, permeata dal tipico carico di eccitazione e preoccupazione. Con un confine tra i due stati d’animo decisamente labile.

La gioia che si fondeva con l’ansia. Il buon auspicio che diventa un tutt’uno col timore del fallimento E quella giornata non faceva ovviamente eccezione, benchè solo una manciata di persone fossero a conoscenza dell’imminente esperimento: tre scienziati, quattro tecnici, un project manager e il direttore finanziario, l’avvocato Vittorio Cavani, rappresentante legale, nonché amico di lunga data di Giuseppe, oltre a Ilenia e al Fabbri ovviamente. Il quale, seduto sulla sua poltrona di pelle nera, fissava la tazzina di vetro fumante di caffè appoggiata sulla pila di giornali. E pensava.

Pensava alla notte d’inferno passata.

Pensava a come tutto ciò fosse iniziato.

Pensava ai primi contatti avuti coi misteriosi finanziatori

Pensava a come tutto fosse così spaventosamente folle.

Pensava ai tre miliardi di euro incassati.

Che avrebbero potuto dargli la gloria eterna.

O mandarlo in rovina.

E probabilmente anche in galera.

La veglia di Giuseppe era stata infatti particolarmente agitata, preludio ad una notte passata praticamente insonne, con una fastidiosa acidità di stomaco a far da corollario, che per tutta la notte gli interruppe il sonno più e più volte, alimentata da quel turbinio di sensazioni contrastanti che aveva fatto capolino e lo aveva accompagnato sin dalla giornata precedente. Il tutto inserito in una sorta di rapporto causa-effetto, dove era impossibile individuare cosa causasse cosa.

Le sue condizioni attuali, stanco, irritabile, con due belle occhiaie mascherate parzialmente dalle lenti azzurro fumè, avrebbero suggerito di restare a casa, in pigiama, a lavorare da remoto.

Ma considerata l’importanza della giornata e gli ospiti di primo piano in arrivo, la cosa era praticamente fuori discussione e il pensiero non gli era minimamente balenato per la testa.

Un omelette al Parmigiano e prezzemolo con una generosa dose di caffè, il tutto seguito da un’aspirina, gli diedero quel briciolo di forze necessario per salire sul SUV Ferrari ed arrivare al lavoro. Con non poca fatica, nel breve tragitto che separava casa Fabbri dallo stabilimento, riuscì temporaneamente a mettere da parte ansia e agitazione per godersi la campagna circostante. Pur trattandosi di luoghi nei quali era nato e cresciuto, quel giorno gli apparivano come luoghi freddi, estranei, scevri di qualsiasi emozione. Ma derubicò il tutto a conseguenze del suo particolare stato d’animo.

Non era assolutamente un caso che per la prima volta nella storia della Fabbri Carni, Giuseppe, nonostante la notte passata senza chiudere occhio, fosse arrivato in ufficio prima di tutti. D’altro canto  la posta in gioco era troppo alta e doveva assicurarsi personalmente che tutto fosse in ordine.

Nel frattempo, Giuseppe e Ilenia si erano spostati nell’enorme capannone-laboratorio da 7’000 metri quadrati, praticamente quanto un campo da calcio, costruito alle spalle dello stabilimento principale della Fabbri Carni, che quel giorno brulicava di fervente attività. Scienziati e tecnici armeggiavano sulle console e sui loro portatili, scambiandosi opinioni e facendo qualche piccolo test. Un vero e proprio setup finale.

Il Panerai Marina Luminor Titanium al polso di Giuseppe, uno dei tanti giocattoli dei quali l’imprenditore modenese amava circondarsi, segnava le 8:30. L’avvio del tunnel quantico e il primo test erano programmati per le 11:00 e la cordata internazionale che finanziava il progetto, accompagnata dagli avvocati Valsangiacomo e Balestra, erano attesi in stabilimento per le 10:30.

Il livello di tensione di quella giornata, come se non fosse già incredibilmente elevato, veniva ulteriormente incrementato dal fatto che i misteriosi investitori non si fossero mai palesati di persona, schermati dallo Studio Legale Ceresio, adeguatamente istruito e profumatamente pagato, che li assisteva tout court.

Nelle call e incontri precedenti, il team scientifico del progetto, aveva più volte paventato e sottolineato il fatto che quel primo esperimento avrebbe potuto concludersi con un grande buco nell’acqua, considerata la complessità della tecnologia e le molte variabili in gioco.

Giuseppe, che per quel progetto tanto importante aveva abbandonato lo scettro da feudatario medievale a favore di un approcciò più collaborativo e accondiscendente, su consiglio sempre del team scientifico, aveva suggerito agli avvocati un collegamento da remoto per quella giornata, per non sprecare tempo in una giornata che avrebbe potuto anche essere fallimentare.

Aveva furbescamente evitato qualsiasi commento sullo spreco di denaro, parlando a un gruppo di membri dell’élite mondiale che gli aveva messo in mano tre miliardi di euro.

La cordata di imprenditori, in tutta risposta, aveva asserito di essere consapevole di tutti i rischi che l’avviamento del tunnel comportava e dell’eventualità che ovviamente avrebbero potuto esserci dei problemi, ma avevano insistito per assistervi in presenza, anche per conoscersi di persona. Di fronte a cotanta insistenza, ad un certo punto Giuseppe si vide costretto ad alzare bandiera bianca. D’altro canto i soldi non erano suoi e il tempo avrebbe dovuto comunque impiegarlo.

A onor del vero, un collegamento da remoto ci sarebbe comunque stato, con la sede commerciale della Quantum Cell Srl, la newco creata appositamente per il progetto, sita in Viale Tunisia a Milano, in zona Repubblica.

Compagnia controllata per il 5% dalla Fabbri Carni, per il 5% da Giuseppe Fabbri e per il 90% da una holding svizzera, facente capo a sua volta ad altre holding, controllate dalla cordata di investitori e al Fabbri stesso. Il classico, intricato ma non troppo, gioco delle scatole cinesi. Alla suddetta videodiretta avrebbe partecipato Giuseppe Manzione, omonimo del capo nonché responsabile finanziario del progetto.

Sul fatto di eleggere la città Meneghina come sede legale e finanziaria della newco, tutte le parti in causa si erano trovate da subito concordi. Sia perché “Milano è sempre Milano” sia perché il Fabbri, pur legato in modo indissolubile alla propria terra, e al contempo affascinato dalla città Meneghina e stabilirvi lì una propria attività lo considerava una piccola vittoria personale.

Il setup tecnologico, un avanzatissimo sistema di videoconferenza installato nel laboratorio era a posto, testato e funzionante. L’impianto elettrico industriale ad altissima potenza, secondo le stime e i primi test effettuati, avrebbe tenuto.

In teoria, c’erano tutti i presupposti per un successo. Ma il Fabbri e tutto il team, considerata la complessità della tecnologia, erano consapevoli che, in tale frangente, tra teoria e pratica ci fosse un abisso che definire profondo era certamente un eufemismo. Ma, almeno per questa prima fase, tutto era pronto.

Mancavano giusto i misteriosi finanziatori.

Nel mentre, pensava a come tutto ciò fosse iniziato, appoggiando una mano sulla spalla di Vittorio che, in qualità di advisor legale del progetto, era nel frattempo arrivato allo stabilimento.CAPITOLO 2 – Lugano mon amour – Lugano – 23 marzo 2026

La sala riunioni dello Studio Associato Legal Ceresio, situato all’ultimo piano di un elegante palazzo in Via Nassa a Lugano, era disegnato ed arredato esattamente come ci si potesse aspettare da un gruppo di avvocati d’affari che da sempre rappresentavano l’assoluta eccellenza del settore. Un tavolo da dodici persone, in legno massiccio con elementi in acciaio, partorito certamente dalla mente iper-creativa di qualche architetto di grido. Sedie in pelle e acciaio, a richiamare il tavolo. Un’ampia libreria ricolma di vecchi volumi. Il tutto sovrastato da una vista mozzafiato sul Lago di Lugano, il Ceresio appunto.

L’Avvocato Vittorio Cavani, che era stato il primo punto di contatto per il progetto e che accompagnava Giuseppe in quella trasferta in terra elvetica, era invece invece la perfetta antitesi dei due colleghi svizzeri. Incarnava alla perfezione lo stereotipo del tipico avvocato di provincia, bassino, stempiato, tracagnotto, abituato a districarsi tra querele, cause civili e piccole operazioni di finanza straordinaria. Per l’occasione aveva ovviamente sfoggiato “l’abito buono”, un gessato grigio topo, con camicia bianca e cravatta azzurra, che gli conferivano un aspetto più solenne di quanto non fosse in realtà. Mentre aspettava i due avvocati, seduto comodamente sulla la sedia di pelle, ripensava al suo modesto ma dignitoso studio legale situato nel centro di Modena, decisamente agli antipodi in quanto a sfarzo e allestimento rispetto a quello dei due squali ticinesi.

Giuseppe era invece in piedi davanti alla finestra, completamente assorto nei propri pensieri mentre si faceva ammaliare dal panorama, col fascino senza tempo del Lago di Lugano, al quale le giornate uggiose a cavallo della primavera davano un tocco quasi sinistro. Anche la vista dello studio Legal Ceresio era agli antipodi rispetto al grigiore e alla monotonia della pianura padana, nella quale vi era nato e cresciuto, e della quale ne era oltremodo quasi assuefatto. Le tre tazze di caffè americano che avevano accompagnato l’abbondante colazione continentale consumata in hotel, a base di uova, bacon e croissant, lo rendevano alquanto nervoso e impaziente, con il rumore generato dello schiocco nervoso delle dita che riecheggiava in tutta la stanza, facendo da improbabile colonna sonora a quei febbrili momenti di attesa.

Aspettando l’arrivo dei due avvocati, Giuseppe andava indietro con la mente ripensando a come tutto ciò fosse iniziato. Con una telefonata. Del suo avvocato e amico Vittorio, con il quale stava condividendo la missione luganese.

«Giuseppe ci sei per un caffè, dobbiamo parlare di affari». Secca, asciutta e lapidaria, nel pieno stile dell’avvocato Cavani, molto milanese e molto poco emiliano, come Giuseppe amava ripetergli. La telefonata risaliva a metà gennaio, ed era stata seguita da altre due telefonate, che avevano avuto l’unico scopo di fissare l’incontro odierno, durante le quali non si era mai entrati nei dettagli dell’iniziativa, i quali sarebbero presumibilmente discussi durante la giornata.

2024-12-18

Youtube

A questo link il finto trailer creato per promuovere il libro https://youtu.be/K3l27pWbUH8?si=WAD8vM5Pp3kCZvN0
2024-11-17

ESG360

https://www.esg360.it/agrifood/cosa-succede-se-uninnovazione-geniale-viene-stravolta-food-technocracy-il-contrappasso/
2024-11-11

Aggiornamento

Buonasera a tutt*, nel ringraziarvi tutt* per il supporto fornito fino ad ora, vi scrivo per informarvi del raggiungimento del primo mini obiettivo di 60 copie pre-ordinate. Ciò significa che almeno voi riceverete le vostre copie, non è molto ma è già qualcosa. Ne mancano 140 per la pubblicazione definitiva... Dovrebbe uscire un articolo a breve e il mese prossimo ci sarà un evento di presentazione a Bologna. Incrociamo le dita. Grazie mille a tutt* Buona serata Antonio Iannone

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Antonio Iannone
Antonio Iannone, classe '78, da sempre appassionato di cibo, dopo una carriere decennale in una casa farmaceutica, nel 2015 è partito alla volta di Aruba, ai Caraibi, per aprire il suo ristorante in spiaggia, oltre ad una società di catering, tornando in Italia nel 2017 per dedicarsi completamente all’innovazione agroalimentare, dal campo alla tavola.
Si occupa di comunicazione, insegnamento presso la prestigiosa ESCP School di Parigi e attività di freelance per alcune riviste di settore, tutto a tema foodtech.
Foodtechnocracy: il contrappasso è la sua prima opera, di una potenziale trilogia.
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