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Ghiaccioli al tè

Ghiaccioli al té
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Consegna prevista Aprile 2024
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È un pomeriggio d’estate. Sotto il sole, passo davanti al giardino della mia defunta nonna, abbandonato. Ma c’è una sorpresa. Nonna Maria è lì. Mi invita a entrare.
Comincia un viaggio, che dura poche ore pomeridiane. Un doppio viaggio. Nella mia infanzia, tra i ricordi luminosi della casa dei nonni.
Ma soprattutto, il viaggio nella vita di colei che si rivelerà la protagonista del racconto. Aida, la giovane lavandaia ribelle e amante dei libri, che agli inizi del Novecento in quella piccola città sfidò tutto e tutti.
È una storia che mia nonna ha sempre tenuta segreta. Un’avventura a cavallo della Prima Guerra Mondiale, tra belle case e soffitte, fiori e trincee.
Il racconto, con lo svelamento di alcuni misteri, durerà il tempo dello scioglimento, nei nostri bicchieri, dei ghiaccioli gialli, i ghiaccioli al tè che Nonna Maria metteva dappertutto.
“Ghiaccioli al tè” è rivolto soprattutto, ma certamente non solo, a lettori bambini e ragazzi.

Perché ho scritto questo libro?

Riempire un vuoto. Ho sempre saputo poco della mia bisnonna Aida, la protagonista.
Da ragazzo, non osavo chiedere.
Adesso, mia nonna non c’è più …
Così ho immaginato il suo fantasma che si mette a raccontare.
Vorrei trasmettere al lettore ragazzo il divertimento del raccogliere storie. Dei genitori, dei nonni. Dell’amico che viene da lontano. E quanto sia prezioso farsi raccontare la vita.
E infine, la libertà di inventare altre vicende accanto a quelle reali. Sempre, però, verosimili.

ANTEPRIMA NON EDITATA

GHIACCIOLI AL TE’

NON ME L’ASPETTAVO

Ho incontrato mia nonna. Non me l’aspettavo. La nonna, infatti, non c’è più.

Quindi ho incontrato un fantasma?

Forse sì. Era qualcosa di simile. Ma non la chiamerei proprio “fantasma”.

Era un pomeriggio d’estate, un caldo che abbaiava. Stavo sul marciapiede e guardavo il giardino che era stato della nonna. C’ero andato apposta. Volevo vedere in che condizioni era.

Una volta quel giardino era uno splendore. Rose multicolori. Cicale che cantavano fino a sera in cima ai due pini. Da piccolo mi divertivo a dare i nomi ai sentieri del giardino, inventare mappe di tesori, cercare tra i fiori le cavallette, le coccinelle e le dorifore.

Dopo la morte della nonna, casa e giardino li abbiamo venduti.

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L’ho trovato triste e abbandonato. Erbacce, aghi di pino, terra secca, rose appassite eccetera.

Ma nonna Maria stava lì in mezzo, in piedi.

– Accidenti, nonna. Non dovevi venire – Lei si guardava intorno e contemplava quel mondo disfatto.

– Che è successo? – ha chiesto. Sembrava più curiosa che addolorata.

– Eh, abbiamo venduto tutto. Casa e giardino. Costava troppo mantenerli.

– Avete fatto bene. Però … – Si guardava intorno con quei suoi occhietti azzurri – Chi l’ha comprato? C’è disordine.

– E’ abbandonato. La casa l’ha comprata un’agenzia per rivenderla, ma ancora …

– Adesso si spiega. Ti ricordi?

– Cosa?

– Quando sono venuta ad abitare qui. Da bambina. Con mia madre.

– Nonna, sono Beppe.

– Beppe?

– Tuo nipote. Sono nato cinquant’anni dopo.

– E’ vero – ha sorriso – Ti avevo scambiato per l’uomo del carretto.

Mia nonna ha vissuto centuno anni. Adesso era come negli ultimi tempi. Una centenaria bellissima ma con le sue confusioni.

– Chi è … l’uomo del carretto, nonna?

– Ci ha portate qui dalla stazione. La mamma e me.

– Col carretto?

– E il cavallo.

– Che anno era? – chiedo. Ha alzato lo sguardo verso la cima dei pini.

– Vediamo. Ancora non era finita la guerra. La Grande Guerra, eh. Sarà stato il 1918.

Mi sono ricordato che Maria è nata a Nizza, in Francia.

– E’ vero. Sei venuta qui da bambina. Però non l’hai mai raccontato.

– Perché non me l’hai mai chiesto. Sai che fa caldo?

Allora mi è venuto. Non me l’aspettavo. Ho scavalcato la ringhiera come un ladro. Tanto non passava nessuno.

Adesso mi trovavo in un giardino secco con una nonna fantasma.

Mi ha guardato con quegli occhi azzurri e tranquilli.

– Beviamo qualcosa?

– Dove?

– Davanti a casa – e s’è avviata nel vestitino a fiori. Andava veloce. E’ scomparsa dietro la siepe del giardino.

– Arrivo – L’ho seguita.

Dietro la siepe, la casa gialla non sembrava per niente abbandonata. Vetri delle finestre aperti, tapparelle abbassate. Una tenda a righe variopinte copriva la porta d’ingresso. Sullo spiazzo di ghiaia, un ombrellone aperto con la base di plastica.

– Prendi il tavolino – Ho spostato il tavolino di vimini intrecciati, che ben ricordavo – E le due sedie.

– Ok. Fatto – S’è seduta come una bimba.

– Sai cosa dovresti fare adesso?

I GHIACCIOLI GIALLI

– Cosa?

– Vai in cucina a prendere i ghiaccioli – Per “ghiaccioli”, lo sapevo, intendeva i cubetti nelle vaschette che stanno in freezer.

– Nonna … Bianchi o gialli? – Ha sorriso. La dentiera splendeva di bianco, insieme all’azzurro degli occhi.

– E me lo chiedi?

– Gialli.

– Naturalmente.

– Volevo essere sicuro – Sono entrato in casa. In cucina c’era il piccolo tavolo, la radio sulla mensola, le pesche nel vassoio.

E il Condominio Felino.

Il Condominio è un mobiletto di legno a tre piani, costruito apposta per i gatti. Un piano per gatto. I nonni lo tenevano accanto al termo. Così d’inverno i gatti potevano sonnecchiare al calduccio.

Nel Condominio stavano dormendo Malachia, Mezzacoda e Gatta Biscetta. Sembravano tre ciambelle pelose.

Li ricordavo, quei tre. Erano vissuti a qualche anno di distanza l’uno dall’altro.

Si vede che la nonna, da buona fantasma o altro che fosse, aveva chiamato dal passato cose e animali tutti insieme, alla rinfusa.

Ho aperto il vecchio frigo. Radicchi, pomodori, pecorino, stracchino, grana grattugiato e un salame a metà. Dal freezer ho estratto due contenitori di ghiaccioli. Ecco quelli gialli.

Non era un giallo limone. Più un giallo tè, direi.

Infatti erano i famosi ghiaccioli al tè.

Son tornato fuori con ghiaccioli e bicchieroni. Ho fatto cadere sei cubetti nel suo e cinque nel mio.

– Ci metteranno poco a sciogliersi, con questo caldo – ho detto.

– Mica dipende dal caldo – ha detto guardando il ghiaccio che splendeva nel vetro – Dipende da quanto ci metto a raccontare.

– Cosa mi vuoi raccontare?

– Un bel po’ di cose – Ha puntato l’indice su un piatto che stava in terra accanto al muro, nell’ombra, coperto da un altro piatto – Toglilo pure.

Tolto il piatto coperchio, è apparsa una doppia porzione di spaghetti al ragù di carne.

Da dentro casa si sentì un miagolio, un tramestio, una corsa di zampe. Qualche secondo dopo, i tre gatti stavano intorno al piattone.

Guardavano gli spaghetti, ma non mangiavano.

– Perché non mangiano? – ho chiesto.

– Ho capito. Vai a prendere il parmigiano.

Ricordavo. I gatti dei nonni non solo erano viziati di pasta col ragù, ma protestavano pure quando sopra non c’era il formaggio.

Feci cadere un’abbondante nevicata. A quel punto il trio felino attaccò gli spaghetti.

– Ora ci siamo – disse la nonna – Aspettiamo che il tè si sciolga, poi beviamo.

– Va bene.

– Ho già cominciato a raccontare?

– Parlavi di un carretto.

– Quando son tornata con mia mamma. Ma bisogna partire da prima.

– Da quando?

– Da quando ancora non c’ero. Diciamo dal 1910.

MILLENOVECENTODIECI

Aida abitava nella città vecchia, in una casetta sull’antica mura. Era lavandaia al torrente, come molte donne e ragazze. Un lavoro duro, da rovinarti mani braccia e schiena.

Però Aida aveva avuto una fortuna, oltre a quella di essere bella.

Il torrente Taglietto, che scorreva sotto un arco chiamato Porta delle Lavandaie, quel giorno era pieno di suoni. L’acqua, i merli, le gazze, cicale, cavallette, cani che abbaiavano a festa e gatti maschi che si azzuffavano per una bella gatta femmina. Aida la chiamava Biscetta perché si muoveva come un gatto serpente.

Aida lavava e cantava. Non cantava niente di preciso, le canzoni non le sapeva. Faceva la-la-la e po-po-po, mescolando un po’ di opera lirica e  canzonette popolari.

Al torrente la raggiunse Isolina, giovane come lei ma meno bella, col cestone dei panni. Guardò Aida con aria da “beata te” e si mise a lavare.

– Son felice per te – disse mentre immergeva i panni. Aida smise di cantare.

– Speriamo vada bene – sospirò.

– Non pensarlo nemmeno. Certo che va bene. Ti sposi. Con un signore – Aida sospirò ancora – E poi alla Porta delle Lavandaie non voglio più vederti – Aida quel giorno era in vena di sospirare.

– Dai, sì. Hai ragione – disse. Certo che aveva ragione, l’Isolina. Per una lavandaia del Taglietto, sposare l’Aristide Graffiedi delle camicie era un gran colpo.

Un giorno era sceso al torrente per vedere come venivano lavate le “sue” camicie. In realtà era venuto perché gli avevano parlato di questa bella Aida e lui era ormai ora che si sposasse. E anche Aida, a vent’anni, era in piena età da marito.

Aristide, alto e sportivo. Vendeva le camicie belle e le indossava molto bene. Isolina faceva certi sospiri, quando lui arrivava. Aida no, non sospirava per niente. Ma lui veniva per lei e dopo un po’ s’era messo a portarle i fiori al torrente.

– Non vorrai mica fare la lavandaia per sempre – le diceva accompagnandola a casa. E poi e poi, una passeggiata in carrozza fino al mare. Una serata al Teatro Comunale a vedere, guarda un po’, l’Aida. Con gli elefanti veri in scena. Dopo l’Aida, Aida aveva detto sì al fidanzamento. Il camiciaio di lusso aveva regolarmente chiesto la sua mano alla famiglia. I genitori di Aida, poveri com’erano, figuriamoci se non avevano accettato.

Quindi, tutto pronto. Si cambiava vita.

– Hai ragione – Aida si guardò intorno – basta lavare le camicie. Preferisco venderle.

– Con te in negozio, vedrai quanti clienti – disse Isolina guardandola con la solita ammirazione – Tuo marito ti porterà in palmo di mano – Era infatti stabilito che lei, con la sua bella presenza, avrebbe servito in negozio.

– Per oggi basta – La futura signora Graffiedi si alzò e prese la cesta dei panni da portare ad asciugare – Vado a stendere, poi a provare il vestito – e diede un’abbracciata all’Isolina, ancora china a strofinare sull’asse di legno con un pezzo di sapone – Tra un po’ ti sposi anche tu, vedrai. E magari meglio di me.

– Boh. Non so – sospirò l’amica.

Aida andò a stendere i panni in un prato più lontano del solito. Un prato accanto al vecchio muro del cimitero. Stese quattro lenzuoli di grossa canapa, poi sedette sull’erba. Gatta Biscetta l’aveva seguita, la raggiunse e si strusciò ronfando.

– Io sono come te, gatta – le disse accarezzandola. Si mise a canticchiare la “marcetta dell’Aida”, come la chiamava lei.

Intanto s’era alzato un vento caldo e luminoso, che sbatacchiava le lenzuola bagnate. Come le vele delle barche che le piaceva andare a vedere al porto la domenica.

Da dietro un lenzuolo spuntò un cappello paglietta.

– “Delle Sirene all’isola pervenne”. Cucù – disse quell’uomo giovane, bello anche se col naso grande, in camicia e bretelle e col cravattino allentato.

– Cos’è? – chiese lei, per niente sorpresa dalla visita – Buongiorno Direttore – aggiunse.

– L’Odissea. Quando Ulisse sente cantare le Sirene.

– E quando le sente cosa succede? – Lui uscì da dietro la vela bagnata e le sedette accanto.

– Che diventa folle – La guardava e sorrideva.

Era il direttore della Biblioteca. A lei, anche se non era andata oltre le elementari, piaceva leggere. Così frequentava la biblioteca pubblica. Prendeva a prestito soprattutto libri di poesia e anche i romanzi di una certa Carolina, pieni di amori contrastati e avventure paurose. Non le dispiacevano nemmeno i romanzi di pirati e piratesse. E aveva pure una certa passione per Pinocchio.

Ultimamente lui, Ruggero, le aveva fatto conoscere una nuova raccolta di poesie. “Poesie a matita”, si chiamavano. Le aveva scritte un amico che abitava a pochi chilometri, al mare.

– Bella camicia – disse Aida guardandolo con la coda dell’occhio – Ha il colletto sporco.

– Indovina dove l’ho comprata.

– Camiceria Graffiedi, dal mio futuro marito. Non va bene, Ruggero. Non dobbiamo più vederci. E in Biblioteca non verrò più. Ha detto Aristide che mi comprerà tutti i libri che voglio e useremo una stanza della casa come biblioteca – La gatta andò a strofinare la testa contro quella di Ruggero, che si era sdraiato con una margherita tra i denti e il cappello sugli occhi per ripararsi dal sole.

– Questa gatta – disse lui – vuole che continuiamo a vederci.

– Infatti è corteggiata da due gatti che si azzuffano per lei – Lo guardò imbronciata – Ma uno dei due deve fare un passo indietro.

– Aida … – sbuffò Ruggero – Certo che anche tu … Non mi vuoi vedere e poi vieni puntuale all’appuntamento. Quindi?

– Hai ragione – disse Aida – Quindi non vediamoci più.

MATRIMONIO

Il mese dopo, una domenica di Luglio, la bella Aida e il ricco negoziante Aristide si sposarono nella Chiesa delle Rose, circondata da un roseto. Il pranzo di nozze lo fecero in una trattoria sul mare. Lì dietro, come le aveva detto Ruggero, abitava l’amico poeta Martino Neri.

Quanto a Ruggero, era stato invitato da Aristide perché era un buon cliente del negozio e una persona nota in città, ma trovò una scusa per non andare.

Aida si trasferì nel piccolo ed elegante palazzo di famiglia dei Graffiedi. Il marito mantenne la promessa e le fece una biblioteca in casa, con tutti i libri che lei voleva.

Lasciò il lavoro da lavandaia. Adesso era una signora. La signora delle camicie. Cominciò ad aiutare Aristide in negozio. Quando il marito viaggiava per comprare stoffe, Aida si occupava da sola del negozio. Gentilissima coi clienti e dai modi sempre più forbiti.

Un giorno entrò Ruggero.

– E’ da un pezzo che non ci vediamo – disse.

– E’ sempre troppo poco – tagliò corto lei.

– Non posso comprare una camicia nuova?

– Torna quando c’è mio marito.

– Va bene – E così fece. Tornò in negozio quando a servire c’erano entrambi.

– Da quanto tempo, Direttore – lo accolse cordialmente Aristide, che nulla sapeva del passato corteggiamento. Aida rimase in un angolo, imbarazzata. Li guardava, uno accanto all’altro. Entrambi alti e atletici. Aristide con qualche anno in più e i baffetti. Ruggero con quel naso grande e buono che lo rendeva simpatico. Soprattutto alle ragazze. Infatti aveva fama di dongiovanni, frivolo conquistatore, uno da cui stare alla larga.

Un pomeriggio Aida andò a trovare Isolina al torrente.

S’erano viste l’ultima volta il giorno del matrimonio. Usciti dalla Chiesa delle Rose aveva lanciato il bouquet da sposa, di buon augurio per le ragazze nubili, cercando di farlo prendere all’amica. Purtroppo, davanti a Isolina s’era messa una cugina di Aristide, quarantenne zitella, e aveva afferrato al volo il mazzo di fiori stridendo di gioia.

Ma Isolina quel giorno era radiosa proprio a causa di un nuovo corteggiatore.

2023-08-27

Aggiornamento

Mi dicono che questo è un libro a doppio binario di età. Leggibile, cioè, indifferentemente da vecchi e bambini. Sta di fatto che il lettore pensato in fase di scrittura ha 9 o 10 anni. Mi sono fatto un’intervista da solo. D - Quando si scrive per ragazzi/bambini bisogna semplificare il mondo? R - Probabilmente sì, anche. Costa fatica. Non finisci di togliere il superfluo. Pensieri, ripetizioni, aggettivi, pieghe del discorso. Togli tutto quello che è in più e speri che alla fine la parola … D - Dipinga? Colori? Comunque “faccia vedere”? Qui sorge il primo dubbio. In un romanzo per l’infanzia, le parole devono obbedire all’imperativo di fissare immagini nitide nella mente del lettore? Tratti marcati, netti chiaroscuri? E già che ci siamo: netti sentimenti, buoni e cattivi etc? E’ questa la meta della semplificazione? R - Personalmente credo che ogni narrazione, anche quella per ragazzi, sia bella quando la musica delle parole è articolata, contrappuntata. Nitida ma anche misteriosa. Antiretorica, magari. Le parole al posto giusto, e lo senti quando lo sono. Se la musica è buona, anche il lettore di dieci anni potrà creare, dalle parole lette, un suo universo, una sua visione. Anche senza illustrazioni. Il libro che suona bene diventerà una sinfonietta diversa per ogni lettore. D - Solo che, per raggiungere questo, dobbiamo suonare bene. Far buona musica. Per niente facile. R - Infatti per campare uso un altro linguaggio. Faccio teatro per l’infanzia e i ragazzi. Lo so, anche ‘sta grammatica è ostica. Però io ce l’ho, come dire, più nel sangue. Poi in teatro faccio cose belle e meno belle, ma quella grammatica la conosco. Parlo con parole, occhi, sopracciglia, mani, oggetti, pupazzi, suoni, disegni, cose proiettate, ombre. D - Potresti accontentarti di usare il linguaggio teatrale, visto che ne hai uno tuo specifico. R - Invece no, voglio essere poliglotta e imparare a raccontare bene le storie anche con la pagina scritta. Quindi, imparare a suonare bene sulla pagina. Più lo faccio, più constato che sono lingue profondamente diverse. In teatro, dieci pagine possono stare dentro un gesto o uno sguardo. Una mano o un pupazzo che si muove, accompagnato dal suono. E i passaggi sono intuitivi, a volte tanto più belli quanto meno detti. E la logica di una storia in teatro a volte sta nel togliere logica e causa/effetto a questi passaggi. D - In narrativa è più difficile? R - Nella narrativa per grandicelli, quella non o pochissimo illustrata, quella che voglio imparare (l’illustrata ha similitudini con l’atto teatrale, secondo me), devi essere più logico. E anche più ingegnere. Senza abdicare alla fantasia, anzi. Devi dare logica e causa/effetto anche all’incredibile, per aiutare quella sospensione dell’incredulità che in teatro (che parla con parole e silenzi, salti logici, visioni, spiazzamenti) è più spontanea e che in narrativa invece va conquistata con le sole frasi. Difficilissimo. Una sfida. D - Torniamo all’inizio. Devi semplificare il mondo? R - Sai che ti dico? No, non credo. Ne devi creare un altro, realistico o fantastico ma un altro. Col suo respiro, la sua logica, la sua ragione, le sue facce, le sue regole, tutti i suoi perché o non perché. Poi sì, certo, questo mondo deve apparire semplice. Ma per arrivarci … D - T’è voja. R - E’ così.
2023-07-14

Aggiornamento

Ho trovato sul web una foto dei luoghi e tempi in cui si svolge la vicenda raccontata da Nonna Maria. Il cuore della storia, o uno dei cuori. Con quel quartiere, la casa della protagonista tra quelle in primo piano sull’antica mura della città, la chiesa … Inizio ‘900 come nel libro. E anche un’altra. Quella che nel racconto è chiamata Porta delle Lavandaie. Il mestiere originario della bella Aida, prima del matrimonio. Difficile mantenersi belle con quel lavoro. Ti incurvava la schiena e deformava le mani. I lavori usuranti si leggono in faccia, dopo un po’. Basta poco tempo. Ma dentro la cruda realtà c’è sempre, realisticamente, la fiaba. E allora, come nella filastrocca, la Bella Lavanderina lava i fazzoletti. Per i poveretti, si diceva, della città.

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Giuseppe Viroli
Sono nato a Cesena nei primi anni Sessanta (l’età che ormai ho). Ho preso la laurea in Legge, ma ho studiato anche da attore. Da fine anni ’90 faccio teatro a tempo pieno. Particolarmente, per bambini e ragazzi. Ho fondato Teatro Distracci a Cesena e collaborato con compagnie di giro (come Drammatico Vegetale di Ravenna), recitando un po’ dappertutto in Italia e con diverse esperienze in Spagna, Francia, Russia, Iran, Brasile.
Scrivo tutti i testi che metto in scena e li interpreto. Inoltre leggo libri ad alta voce, costruisco pupazzi, disegni e scenari virtuali, insegno teatro nelle scuole, tengo workshop per bambini e adulti.
Oltre alla scrittura teatrale, parte fondamentale del mio lavoro, pratico continuamente quella narrativa, per ragazzi e adulti. Ho pubblicato 9 romanzi in tutto. L’ultimo, “Ottavo Livello”, è tra i segnalati del Premio Calvino 2022.
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