La mamma è vestita da sposa. È in piedi all’ombra di un grande albero, sta parlando con gente che Fabrizio non conosce. Lui è contento perché la mamma è felice.
Si alza il vento; la gente comincia ad andarsene. La mamma è rimasta sola. Sembra che aspetti qualcuno. Ora è scesa la notte sul grande albero. Si sentono dei tuoni lontani. D’improvviso il rumore di un cavallo al galoppo, in avvicinamento.
La mamma si guarda intorno, smarrita. Fabrizio le grida di fare attenzione, di scappare. Ma la sua voce non si sente; esce solo un fiato che muore nel nulla.
È scoppiato il temporale. Il galoppo è cessato; dietro l’albero appare un’ombra minacciosa. La mamma non può vederla, perché gli dà le spalle.
Mamma, scappa via!
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Tutto diventa nero. Una voragine la risucchia, la sprofonda nel terreno sotto l’albero. Ora la vede di nuovo, dall’alto. È in un letto d’ospedale. Nella stanza c’è solo lei. È legata al letto con delle corde.
“Hai visto cosa mi hanno fatto, figlio mio?”
“Ho paura, mamma. Chi era quell’ombra? Perché sei legata?”
“Non preoccuparti. Non ti succederà nulla. Ci penseremo io e la nonna a proteggerti.”
“Rispondimi, mamma. Chi era quell’ombra?”
“Ora non posso rispondere. Va’ a parlare con la nonna. Lei ti dirà qualcosa. E non piangere, Fabrizio. Presto tornerò.”
Il suo viso si trasforma. Gli occhi si scuriscono, le rughe intorno alla bocca prendono una piega cattiva. Gli zigomi emergono, tendono la pelle sulle guance.
“Sì, ritornerò”, una voce rauca, maligna. Non è la voce della mamma, non può essere la voce della mamma.
Il letto adesso è vuoto. I legacci giacciono sulle lenzuola, sciolti. Eppure sul cuscino c’è ancora l’impronta della sua testa.
Dove sei andata, mamma? Perché devo parlare con la nonna? Cosa deve dirmi?
Di nuovo tutto buio. Poi laggiù in fondo balena qualcosa. Una costruzione verde in mezzo agli alberi. Il vecchio mulino. È notte e solo il rumore dello scorrere del Labironte, da qualche parte lì accanto, percuote il silenzio.
Fabrizio entra dentro. C’è la sua bicicletta in un angolo, senza ruote e con la sella staccata. Seduta sulla panchina di pietra c’è la bisnonna Berenice.
Si ferma a guardarla. Deve solo fare quella domanda. Solo quella domanda, e potrà andare via.
“La mamma mi ha detto che tu sai chi è quell’ombra,” le dice.
La bocca di Berenice si muove scomposta, come se lottasse contro qualcosa che si annida al suo interno. Una materia senza forma, senza nome, che balena attraverso le labbra rinsecchite. Un boccone gigantesco, irriducibile, eterno. Ora che Fabrizio ha parlato quella bocca si apre ancor di più, rivelando le gengive nude e scarnificate. Il raschio di una risata sembra emergere da quell’anfratto oscuro, che forse non è altro che il vuoto.
“Avvicinati, Fabrizio. Vieni, vieni più vicino.”
“No”, pensa Fabrizio, ma non una parola gli esce dalla bocca.
“Voglio vederti meglio in faccia, qui dentro è così buio. Avvicinati.”
Eppure lui la vede la sua bocca. E i suoi occhi perennemente spalancati, che lo scrutano da capo a piedi. Si ricorda del messaggio che deve portarle.
“La mamma è stata catturata, è legata a un letto dentro un ospedale, anche se poi è sparita, volevo dirti che nei prossimi giorni non potrà venire a trovarti”, gli esce tutto d’un fiato.
Nonna Berenice sembra cessare per un solo istante il perpetuo masticare della bocca.
“Legata a un letto? Chi ha osato?”
“Non lo so. Ha detto di fare attenzione, perché potrebbe venire qualche prete a fare un esorcismo.”
Qualcosa nella vecchia cambia. È come se la sua immagine stesse diventando liquida. Eppure la sua voce emerge chiara.
“Che ci provino a venirmi a trovare, quei preti. Comunque la mamma non è all’ospedale. Io la vedo. La mamma è in un posto bellissimo. La mamma è nel…”
Anche le parole diventano liquide, sfuggono via e si perdono nello scroscio del Labironte. Gli occhi della nonna brillano di un nuovo luccichio. Un riflesso nero, più nero della notte che li circonda. Più gelido del vuoto dentro la sua bocca. Fabrizio fa un passo indietro. Vorrebbe scappare. Le sue gambe sono come colonne di ghiaccio.
“Chi era quell’ombra, nonna?”, riesce ancora a chiedere.
Nessuna risposta. Solo un altro rumore, questa volta alle sue spalle. Si volta verso l’arco di ingresso. Di nuovo quel galoppo, lontano nella notte. Torna a fronteggiare la bisnonna. È sparita. Fuori sta tuonando: piove a dirotto.
Il cavaliere nero si avvicina.
Fabrizio apre gli occhi. Il cuore batte all’impazzata, gli manca il respiro. Cerca di calmarsi. Era solo un incubo. Il tuono però era vero: è arrivato il temporale. La chioma del grande albero lo protegge solo in parte, ogni tanto qualche goccia pesante lo schiaffeggia sulle gambe allungate.
Il grande albero…
Ha dormito sotto il platano dell’impiccato!
Il ramo da cui penzolava il cadavere di Giacomo Caretti è proprio quello sopra la sua testa. Non osa alzare gli occhi. Alberto, un ragazzo di quinta, gli ha raccontato che un mattino presto suo padre, di ritorno da cercare funghi, passando lì vicino ha visto il fantasma oscillare in mezzo alla nebbia. Ondeggiava nella sua direzione, e il vento pareva percorso dal suono di un lamento minaccioso, ripetuto all’infinito. Una cantilena che però il papà di Alberto non ha voluto riferire a suo figlio.
Giacomo Caretti viveva isolato in una capanna in mezzo ai boschi. Sembrava felice della sua esistenza, almeno a detta di coloro che lo conoscevano. Invece, evidentemente, non la sopportava. Non lasciò neanche un biglietto di addio. Forse non gli bastava essere solo. Forse voleva che la sua vita venisse cancellata via, senza lasciare tracce, ricordi: nulla. Come se non fosse mai esistito.
Il suo fantasma ha lo stesso carattere di quand’era vivo, dicono in molti. Vuole starsene da solo. Non sopporta di essere disturbato. Desidera sparire dal mondo, per sempre.
Ma non ci riesce.
A Fabrizio viene in mente una strana idea. Forse non vuole proteggere se stesso, forse vuole proteggere quell’albero.
Si alza in piedi di scatto, senza guardare il ramo, e corre giù attraverso il prato. Poi scende il sentiero e arriva a un punto da cui si biforca un viottolo che porta alla casa di Gianluca. La sua bici è lì, buttata in mezzo all’erba. La recupera e inizia a pedalare a tutta velocità.
A casa trova zia Ofelia ancora sdraiata sul divano. La tv è spenta. La donna si alza a sedere, si arruffa i capelli e lo guarda.
«Non sono ancora arrivati mamma e papà?», chiede Fabrizio, il cuore che gli batte nella gola. Sta gocciolando sul tappeto.
«Lo sapevo che prendevi il temporale. Corri subito in bagno a toglierti i vestiti o ti buscherai un raffreddore. Vado a prenderti un cambio.»
«Quando torna la mamma?»
Scuote la testa, distogliendo lo sguardo. «Non lo so. Non hanno più telefonato. Ma vedrai che stasera torna.»
Fabrizio va in bagno a cambiarsi. Gli torna in mente il sogno: l’ombra nera, la mamma legata all’ospedale, la bisnonna senza denti. Cosa gli ha detto la bisnonna?
D’improvviso la paura diventa certezza. La mamma non rientrerà. Dovrà aspettare il tramonto e sgattaiolare fino al vecchio mulino per informare la bisnonna. La bisnonna si arrabbierà molto quando saprà che la mamma non è tornata. Forse li punirà tutti. Gli appare la sua bocca, ancora più grande che nel sogno. Non smette mai di masticare. C’è come una forza che lo attira là dentro, dentro il vuoto nero che trapela attraverso le gengive. Ha paura di vederla dal vivo: potrebbe essere ancora più terribile. Potrebbe addirittura mangiarselo. Eppure deve farlo: lo deve alla mamma.
Cenano in un silenzio irreale. Fabrizio comincia a pensare che la mamma sia morta. Zia Ofelia sarebbe felice se fosse davvero così. Lui la conosce: lei odia la mamma. In mezzo a false lacrime gli direbbe: “Non ti devi preoccupare, perché ci sono io.” Cercherebbe di abbracciarlo con quelle sue braccia magre e nervose. La sbircia di sottecchi. Continua a stare zitta: sembra preoccupata.
Sono quasi le otto. Fabrizio sta per uscire per andare al vecchio mulino, quando il telefono squilla. Zia Ofelia va a rispondere. Fabrizio rimane fermo sul divano, gli occhi fissi alla tv. È partita la sigla del telegiornale.
Zia Ofelia rientra in soggiorno. Non sembra sollevata. È seria, guarda Fabrizio indecisa se parlare.
Si siede accanto a lui. Allarga le braccia e lo stringe. Fabrizio rimane rigido, non si lascia andare. Si volta a guardarla: aspetta solo che gli dica qualcosa.
«Zia, quando torna la mamma?», le chiede per l’ennesima volta.
«Stai tranquillo, piccolino. Non è niente di grave. La mamma…»
Si discosta con violenza. «Perché mi dici le bugie? È morta, non è vero? La mamma è morta.»
Lei sorride. «Cosa dici, Fabrizio? No che non è morta. Si è solo… ecco, si è sentita male.»
«Perché si è sentita male? Cosa le hanno fatto?»
«Nessuno le ha fatto nulla, Fabrizio, calmati.»
«Ma andava da un dottore. Com’è possibile che si sia sentita male, se era da un dottore?»
Di nuovo quel sorriso. «È successo prima che arrivasse dal dottore. L’hanno portata in ospedale e adesso papà è con lei. L’hanno visitata e hanno detto che non è niente di grave.»
«Quando torna a casa? Quando?»
Zia Ofelia abbassa gli occhi. «Non lo sanno ancora. Comunque domani mattina papà sarà di ritorno. Lui ci racconterà tutto nei dettagli.»
Fabrizio sente un’onda che sale da dentro, che sta per sommergerlo tutto. Non può fermarla: è impossibile.
Comincia a singhiozzare. I freni cedono, urla. Si alza e scappa via, senza ben sapere dove andare, cosa fare.
Va a chiudersi in camera e dà sfogo alle lacrime, la testa affondata nel cuscino.
Poi corre in corridoio, apre il portone e si precipita giù per le scale.
«Fabrizio! Dove vai? », la voce di zia Ofelia.
Fabrizio non si ferma. Inforca la bici e parte a rotta di collo verso il vecchio mulino. Il sole è appena tramontato dietro i boschi a occidente, e già brilla il primo quarto di luna su in cielo. Nonna Berenice sarà ancora là dentro? Quanto durano le sue apparizioni? Forse questa volta, non vedendo la mamma, attenderà più a lungo.
Mentre pedala costeggiando il Labironte, gorgoglii e risucchi echeggiano al suo fianco. Sembrano ombre che si danno alla fuga, saettando e sparendo in mezzo ai flutti.
Non devo farmi spaventare. Lo sto facendo per la mamma.
Arriva al vecchio mulino quando già la sera comincia a nascondere le cose. Abbandona la bici. Entra dentro il fabbricato verde, pieno di rabbia e paura.
La luce non penetra dentro quell’ambiente, come nella stanza dietro la porta nera. C’è una forte umidità che gli fa venire i brividi. Gli pare di sentire qualcosa strisciare sul soffitto. Alza gli occhi: ci sono delle chiazze d’ombra più scure, attaccate all’intonaco che s’intravede appena. Un sudore freddo gli bagna le ascelle e gli appiccica la maglietta alla schiena.
Da una delle macchie pare staccarsi una forma. È una goccia d’acqua. Si sta gonfiando. Il filo trasparente che la tiene al soffitto diviene sempre più sottile, sotto il peso che aumenta. Finché non si spezza. La goccia precipita. Va a schiantarsi in una piccola pozza d’acqua sul pavimento in pietra, proprio di fronte alla panchina, dove centinaia di altre gocce, prima di lei, si erano già schiantate. Fabrizio capisce.
Nonna Berenice è andata via.
E lui non ha mantenuto la promessa fatta alla mamma.
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