Chiuso lo sportello, Stefano giunse nei pressi del cancello di ingresso del palazzo dove abitava Federica. Da una parte comprensori in edilizia convenzionata e dall’altra villette con giardino e palazzine basse, a due o al massimo tre piani di elevazione, completamente circondate dal verde e intervallate da parcheggi di pertinenza di supermercati.
Nel piazzale svettavano due palme imponenti e si allungavano insieme con altri alberi di alto fusto.
Salutò Giacomo, il portinaio del condominio: sui cinquanta anni, stempiato; gli occhi verdi contornati da vistose sopracciglia e una piccola ferita sulla guancia sinistra, facilmente identificabile come la sedimentazione di un herpes giovanile, troppo a lungo trascurato.
Giacomo era alle prese con la manutenzione del giardino.
“Chi cura le piante usa una pazienza ben superiore a quella necessaria tra esseri umani” gli aveva sentito ripetere Stefano: tutti i pomeriggi, al calare del sole, armato di tubi e annaffiatoi, si alternava nella cura di una ginestra o un geranio.
– Buon pomeriggio, dottore… ha visto che traffico oggi? Dev’esserci stato un incidente sulla circonvallazione… – disse, dopo aver scorto la sagoma di Stefano.
– Per fortuna sono uscito per tempo! Ha visto se Federica è scesa? – chiese Stefano, mentre le note di un pianoforte, attiravano la sua attenzione dal primo piano di uno degli edifici del super condominio.
– No, dovrebbe essere in casa. Comunque, verifico subito.
Giacomo posò l’innaffiatoio e, dopo essersi tolto i guanti e deposto il grembiule già sporco di terra e fango, si recò nella guardiola per citofonare.
Al citofono rimase pochi secondi; poi, voltandosi verso Stefano, con un cenno, gli indicò la scala, come per confermare, salutandolo con ampio gesto della mano.
Stefano percepì, dapprima flebilmente, poi più distintamente, una musica che proveniva da chissà quale pianoforte da uno degli appartamenti del comprensorio. Gli ci volle poco per riconoscere il brano: Mendelhsson, le “romanze senza parole”, suonato senza esitazioni, con un tocco deciso e “dritto”, a volte impreciso ma mai esitante.
Imbroccò la scala nella direzione dell’appartamento di Federica.
Gli occhi azzurri, grandi, intensi di Federica contrastavano con quelli nerissimi di Stefano, ma egualmente penetranti. Lo sguardo di lui a volte sembrava una scavatrice: si allungava, circoscriveva un arco e poi si fissava sull’interlocutore, vibrante e deciso a ottenere il risultato desiderato.
Gli occhi luminosi di Federica sembravano, invece, sfuggire lo sguardo di chi le parlava; le palpebre un po’ appesantite da privazione di sonno e da un eccesso di cartilagine: un piccolo difetto ben compensato da ciglia lunghissime.
Un viso, quello di Stefano, con le gote separate dal mento da due piccole fossette che si aprivano allo scattare di un impercettibile sorriso, lambite da basette lunghe e sottili, curatissime.
Federica stava stirando, nelle orecchie gli auricolari che pulsavano musica a decibel quasi insostenibili.
Quelle bellissime orecchie amavano proteggersi: tappi per l’acqua, tappi per il sonno, auricolari per l’iphone e l’ipad: era un continuo chiudersi alle voci e ai rumori del mondo.
Da circa quattro anni viveva in cinquanta metri quadri in quel frammento di periferia residenziale di Roma, piena di bei giardini, fontane, piccoli supermercati, piste ciclabili tagliate un po’ a caso, quasi senza criterio.
Salite le scale, Stefano suonò il citofono, senza risposta.
Federica non lo udì, intenta a vibrare colpi di vapore con il ferro da stiro al cavallo bizzarro dei suoi pantaloni che non sembrava cedere, addomesticarsi in pieghe decorose.
La signora Carla, vicina di casa di Federica, lo raggiunse alle spalle e lo salutò: lo conosceva da diversi anni. Non aveva avuto figli e si era separata dal marito, ormai oltre la cinquantina d’anni.
Un piccolo bassotto al guinzaglio, come un’appendice del suo corpo, da cui non era facile sbarazzarsi.
I suoi percorsi a piedi erano sempre gli stessi: spesa al supermercato e, la domenica a pranzo, al ristorante cinese. Sola, con il suo fedele compagno a quattro zampe che era costretto a restare in silenzio e starsene accucciato sotto il tavolino, per non disturbare.
– Buona sera dottore, mi permette? le apro il portone con le mie chiavi.
– Grazie signora – rispose Stefano, che le fece un cenno appena percettibile ma continuava a fissare in direzione dell’appartamento di Federica e, contemporaneamente, faceva squillare l’iphone.
– Quando posso disturbarla per una consulenza? – chiese la signora, varcando la soglia dell’ascensore piena di paccottiglie e sacchetti che non sapeva come reggere in mano e che la sbilanciavano.
– Quando vuole, sono a sua disposizione. Se non mi trova in casa, chiami a questo numero – disse Stefano.
– Non vorrei disturbarla, ma quando ho bisogno di un’informazione, lo sa, mi fido solo di lei. Dovrei farle vedere un po’ di carte…Grazie mille. Buona giornata.
Giunto al piano, salutò la signora Carla, nel frattempo raggiunta da una telefonata improvvisa. Stefano si trovò a tu per tu con la porta dell’appartamento di Federica.
Pigiò il campanello. Federica non apriva. Pochi minuti e Stefano era quasi pronto a tornare sui suoi passi, per quanto inspiegabile fosse quella circostanza. Ancora pochi secondi, poi la porta si aprì: maglietta, pantaloncini, ciabatte… I capelli di lei ancora bagnati e raccolti in un asciugamano.
L’appartamento aveva spazi ben distribuiti: un ingresso con salotto a vista; a sinistra la zona notte con servizi, più a destra un cucinino e un ripostiglio.
Stefano si sedette nel divano del salotto di fronte alla parete attrezzata, distendendosi e indietreggiando con la testa verso la posizione del più assoluto relax.
La guardava, attendendo un suo cenno. Lei gli fece segno di aspettare e gli preparò un caffè, corretto con l’anice, poi si allontanò verso la sua stanza.
Il salotto era tappezzato di fotografie: la principale passione di Federica. Foto di tutti i tagli: piccole, grandi e medie disposte al di fuori di un ordine prestabilito e di un’altezza precisa.
Stefano posò lungamente lo sguardo sulla specchiera e si rimirò, con una sottile vanità. Il gatto cominciò a stiracchiarsi fuori dalla sua cesta, posizionato ai piedi del tavolo. Accortosi di Stefano, voleva fare un po’ le fusa e, lentamente, sgusciò fuori in cerca delle sue morbide gambe.
– Eccoti qua, pigrone! già mangiato? mi sembri bello ingrassato… la tua padrona ti tratta bene. Vediamo se sei ancora in forma…
Così dicendo, Stefano prese una palla di gomma poggiata sulla mensola, la lanciò in direzione del muro per farla rimbalzare e cogliere il gatto di sorpresa, con l’effetto della carambola del biliardo. Il gatto, astutamente, si muoveva nella direzione opposta, per anticipare l’effetto e recuperare la palla al fine di impadronirsene e spezzare il gioco.
La temperatura della stanza cominciava a salire: Stefano prese ad armeggiare con il telecomando del condizionatore, cercando il grado di temperatura più adatto senza raffreddare troppo l’ambiente.
L’anziana madre di Federica giaceva a letto. Il silenzio era interrotto, a volte, dai suoi flebili richiami che restavano inascoltati da Federica, che amava anche se per pochi istanti rifugiarsi nei labirinti sonori della musica. In quell’istante Federica lanciò un richiamo dal bagno, per rassicurare la mamma. Eccomi…. eccomi.. ma non arrivava mai. Per fortuna c’era sempre Nadia, la badante che sopperiva alle sue mancanze.
Stefano entrò in cucina per bere un bicchiere d’acqua.
Il frigorifero sembrava un cimitero di guerra con gli alimenti sparsi come corpi abbandonati: scatole aperte; resti di cibo; piccoli avanzi di frutta; tappi di bottiglie di birra…
Bevve a sorsi lenti. Si diresse verso il bagno, quasi spiando le mosse di Federica: nessun rumore particolare: forse si stava truccando…
Ritornò in salotto, cercando qualche libro da sfogliare. La parete attrezzata era piena di libri: in doppia fila, l’uno sull’altro; in un disordine paragonabile a quello degli studi professionali in cui si accatastano volumi e riviste.
C’era una bella edizione, rilegata e patinata, di “Madame Bovary”. Come in un sogno, la lettura lo sorprese facendolo letteralmente sollevare da terra e dallo spazio circostante, avvolto nella nebulosa di frasi, espressioni e stati d’animo che lo inghiottirono facendogli rivivere, seppur parzialmente, la sensazione che aveva provato la prima volta che aveva letto quel libro: giunto ai capitoli finali, aveva pianto improvvisamente e inaspettatamente.
Il gatto cominciava ad aggomitolarsi, quasi in preda a un raptus, sulla palla per cercare di mantenere un equilibrio senza poggiare le zampe posteriori a terra.
Dal bagno cominciava a sentire lo scrosciare dell’acqua; Stefano si affacciò alla finestra.
La mamma di Federica emise alcuni strani lamenti, come il pianto sommesso e strozzato di un neonato venuto al mondo dopo una nidiata di altri fratelli, un po’ trascurato dalla madre.
Aprì la finestra del salotto, dando nel contempo un’occhiata al fluire delle auto nella strada, animata dalla percorrenza veloce e dal rombo intenso dei motori. Il parco interno separava la strada insinuandosi irregolarmente, come indispettito dall’avanzata del cemento che tracimava dai margini come un fiume in piena; era disseminato di cartacce e piccoli pozzetti scoperchiati, veri e propri trabocchetti per chi avesse desiderato fare una passeggiata in mezzo al verde.
La luce del pomeriggio (erano quasi le sei) cominciava ad attenuarsi, con l’effetto di sforzare e innervosire la stanca vista di Stefano, indeciso se accendere la lampada o continuare a godersi la luce naturale per leggere il libro. Poi entrò Federica, ancora profumata dalle creme del bagno, con un filo di trucco e fondotinta.
– Ce l’hai fatta, finalmente… – mormorò lui, senza guardarla, quasi rimproverandola per l’attesa, vestendo i panni dell’amico trascurato – stavo quasi per andarmene…
– Ma se sei piombato…
– Senza preavviso? sapevi che dovevo arrivare, forse ti dimentichi di ieri quando…
– No, non preoccuparti… – lo interruppe lei con un bacio schioccante – … mi hai portato i fiori!!! – Stefano si recava in visita da lei, quasi sempre nello stesso modo: giacca, cravatta, fiori nella mano.
– Non potevo presentarmi senza un “presente”, lo sai come sono fatto, no? – rispose Stefano, tormentandosi il ciuffo di capelli che gli sporgeva sulla fronte, mentre fece l’atto di baciare Federica, con uno slancio sentimentale irrefrenabile.
Lei, colta di sorpresa, si voltò offrendogli la guancia, con un moto freddo, formale. Lui la assecondò, ma furtivamente si soffermò nel contatto con la sua pelle, scivolando sul collo e tenendola abbracciata.
– Basta… su, sei sempre il solito! – esclamò, svincolandosi da una stretta sempre più decisa – piuttosto, parlami di quella cosa che abbiamo in sospeso…
Lui rimase interdetto. Poi riprese:
– Ok, sì…forse è il caso che ci sediamo. Come va in palestra?
– Tutto come al solito. Oggi si sono iscritte cinque nuove persone. Con queste abbiamo superato il centinaio. Direi che per la stagione va bene così – rispose, con una smorfia che tradiva una certa stanchezza unita a un certo grado di soddisfazione.
– Con Luisa? Tutto ok?
– Come al solito, lo sai che non ci sopportiamo. E’ una battaglia persa ma il titolare della palestra è lei e io ci devo stare.
– Certo, che lo so. Per questo volevo vederti. Se vuoi, possiamo provare un colloquio alla Sicurtà Assicurazioni. Te la senti? Qualche giorno fa, parlando con un liquidatore, sono venuto a sapere che cercano profili professionali corrispondenti al tuo. Non chiedermi come, ma sono sicuro che puoi farcela.
Federica trattenne il respiro.
Seguì una descrizione delle cose che Federica avrebbe dovuto fare: curriculum, scadenzario, appuntamenti, studio di alcune norme e prassi, raccolta di informazioni.
– Ne hai tutte le possibilità, sono sicuro… – riprese, con tono rassicurante ma anche emozionato e partecipe. Lo abbracciò forte, al colmo di una sorprendente e irrefrenabile allegria e, come tutte le bambine cui hanno accordato un permesso speciale o un regalo a lungo desiderato, prese a stringerlo a sé, con foga e smorfie di incredulità sul viso.
Stefano riservava molte attenzioni per Federica, non sempre ricambiate. Ma questo non sembrava contrariarlo. Sembra che gli eventi e il tempo si combinino in modo da sottrarre invece che aggiungere; il destino procede per sottrazioni progressive e non per compensazioni: ti dà qualcosa ma ti toglie molto di più e proprio quello che più ti serve in quel dato momento.
Per Stefano era proprio così; la sua attenzione spesso era rivolta ad aiutare gli altri piuttosto che se stesso.
– Secondo te… cosa devo fare adesso? mi conviene cominciare subito o aspettare per fare un piccolo ripasso? se vado così sembrerò una sprovveduta…
– Tu vai, presentati subito. Ti darò qualche dispensa pratica. il mercato delle assicurazioni è solo apparentemente complicato. Limitati a ciò che puoi e sai fare…è certo meglio che improvvisare. Non aver paura di farti spiegare le cose più volte. Si fidano di più di chi fa tante domande che di coloro che sembrano aver capito subito tutto.
– Certo… ma tu mi aiuti, no? – implorò con lo sguardo Federica mentre si staccava dallo smartphone, con un raptus che la coglieva quando era costretta, e lo era spesso, a parlare e chattare contemporaneamente.
– E’ naturale. Tieniti stretto il tuo posto ancora per un po’, poi darai il preavviso se tutto dovesse andar bene. Parla a Luisa solo dopo che te lo dico io.
Federica si “appendeva” letteralmente alle sue parole, confortata, rassicurata, ma non “presa” dall’insieme dei suoi sguardi, del suo corpo, della sua persona.
Adesso, in quel pomeriggio di sole morente Stefano le stava offrendo un’opportunità di lavoro, proteggendola con tutto il suo amore, ormai covato negli anni di frequentazione assidua.
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