«Cosa guardavi» gli chiese.
«Qualcosa che brillava».
Da qualche anno, gli inverni erano piuttosto miti. Tutti dicevano però che l’aria non era più la stessa: era cambiata una certa qualità del freddo durante gli ultimi giorni di dicembre. Che la temperatura fosse più o meno bassa, le strade erano visitate da un’aria densa e sibilante che aumentava la distanza tra le cose: lampioni, spartitraffico, alberi, numeri civici parevano isole disabitate, oggetti collocati in ordine sparso, in uno spazio provvisorio. Le luminarie natalizie parevano in procinto di cadere da un momento all’altro sopra alle automobili, o sulla testa dei passanti, e nei giorni di pioggia, con le luci attenuate nel grigiore, la situazione non migliorava. Soltanto la pineta, che si estendeva parallelamente alla spiaggia, rimaneva immune da questa desolazione, tanto che i bambini, sempre più spesso, usavano recarvisi nei giorni dell’Avvento per lasciare dei doni, come un frutto o un cioccolatino, a cui attaccavano col nastro adesivo dei bigliettini con pensieri augurali o desideri. I bambini evitavano di raccontare agli adulti di questa abitudine: in genere dicevano di dover portare questi regalucci a scuola, per scambiarseli tra loro; invece poi trovavano il modo di lasciarli nella pineta, dove bastava distrarsi un momento, che gli spiriti dei boschi sarebbero venuti a ritirarli senza farsi accorgere.
Anche Diego aveva portato la sua offerta al bosco. Sul bigliettino aveva scritto soltanto papà, convinto che gli spiriti avrebbero capito. A quel tempo, Diego aveva sei anni ed era sempre molto impegnato: giocava, andava a scuola e, soprattutto, pensava. Non aveva più il papà da quattro anni, ma teneva stretti i pochi ricordi che aveva da quando era piccolo. Di suo padre conosceva tante cose, ma gli erano state raccontate e lui ci teneva a distinguere i ricordi veri da quelli immaginati. Le particelle del ricordo si erano staccate una dall’altra, si erano scomposte e si erano innalzate in volo verso non si sa dove, come lucciole nel buio che si allontanano in direzioni diverse. Diego immaginava di poter parlare con queste particelle luminose, per convincerle a restare nella sua mente, perché sapeva che se tutte fossero volate via, sarebbe rimasto solo il buio. Finora c’era riuscito abbastanza bene: molte delle particelle c’erano ancora.
Era la sera del 23 dicembre. Diego era nel suo lettino già da più di un’ora, ma non dormiva. Guardava verso la finestra della sua cameretta e, sebbene nell’oscurità non potesse vedere l’azzurro delle tende e a malapena distinguesse le tende stesse, gli parve che una debole folata di vento le avesse rigonfiate verso di lui, alitando un nebbioso richiamo: «Vai!» L’aveva sentito, ne era sicuro.
Tre volte lo vide quel movimento delle tende, ma se l’avesse raccontato alla mamma, lei gli avrebbe detto che la finestra era ben chiusa e che quindi l’aveva certamente sognato e poi avrebbe attaccato alla presa vicino alla porta la lampadina notturna arancione: troppo debole per far luce perfino a se stessa, quali mostri mai avrebbe potuto allontanare? E poi Diego sapeva che non era questione di incubi, quella era una faccenda seria, che sicuramente aveva a che fare col sogno della notte precedente.
Mentre soppesava queste considerazioni, la mamma era in cucina con la nonna Margherita. Lei era la mamma di Daniele, il suo papà, e quella sera era arrivata a sorpresa poco prima dell’ora di cena. Gli aveva portato un nuovo puzzle con un’immagine dal film Cars e ci si era dedicato subito, sul pavimento della cucina, mentre lei e la mamma apparecchiavano la tavola.
La mamma aveva dolcemente rimproverato Margherita di far troppi regali a Diego, a pochi giorni da Natale poi, il puzzle sarebbe stato meglio sotto l’albero, con un bel fiocco rosso sopra. Margherita aveva risposto che per quelle cose lì c’era Babbo Natale, lei era la nonna e non aveva l’obbligo di rispettare le ricorrenze. Aveva strizzato l’occhio a Diego, che le aveva risposto con un sorriso (perché l’occhiolino non lo sapeva ancora fare) tornando presto a concentrarsi sul suo nuovo gioco.
Dopo cena, l’avevano mandato a letto presto, forse per parlare di cose importanti, e stavano ancora parlando. A bassa voce la maggior parte del tempo, ma animandosi di tanto in tanto. Diego distolse lo sguardo dalle tende azzurre, sgattaiolando fuori dal letto, e si accovacciò dietro la porta della sua stanza, con gli occhi chiusi, per sentire meglio. Si concentrava sulle voci, che dovevano uscire dalla cucina, attraversarne la porta, passandoci sotto forse, poi dovevano percorrere un pezzetto di corridoio, salire le scale e fermarsi davanti alla porta della sua stanza, proprio lì nel punto dove aveva accostato l’orecchio. Sarebbe stato meglio aprire la porta, ma la mamma e la nonna avrebbero potuto sentirlo. Percepiva delle frasi o singole parole, ma non sempre riusciva a capirne i collegamenti. Poteva darsi per certo che la nonna fosse molto preoccupata.
«È una maledizione, Barbara! – l’aveva detto chiaramente, ad alta voce – manca poco a Natale, pensa a proteggere il bambino!»
Il bambino era lui, presumibilmente. Parlavano di lui e di una maledizione che incombeva sulla famiglia. Ma quale maledizione?
Sua madre rispondeva minimizzando e accusando la nonna di spaventarla solo a causa di alcune crudeli coincidenze. Ma a cosa si riferiva? Cos’era successo?
La nonna Margherita se ne era poi andata. Diego l’aveva sentita mettere in moto la macchina – che era parcheggiata sotto la finestra della sua stanza – e fare manovra con una certa fretta nervosa, e poi – non poteva esserne sicuro – gli parve di sentire i passi di Barbara su e giù per la cucina. Forse le parole di Margherita l’avevano scossa.
Diego si addormentò ai piedi della porta. Il freddo della notte lo svegliò qualche ora dopo, intirizzito nel suo pigiamino felpato con gli stemmini neri e gialli di Batman. Corse a letto, tra le lenzuola diventate fredde, e in breve si riaddormentò.
Sognò lo stesso sogno della notte precedente: lui era nella pineta e guardava uno strano tizio alto alto che camminava sui trampoli, cercando inutilmente di evitare di impigliarsi tra i rami degli alberi con il suo soprabito di zucchero filato rosa, con grossi bottoni blu, che sembravano occhi. Mentre camminava tentando un fallimentare slalom tra le piante, lo zucchero filato si sfilacciava, rimanendo a grossi fiocchi sui rami o cadendo a terra disegnando un percorso. Il Tizio-alto-alto si voltava di tanto in tanto verso Diego e pareva volergli dire che quella era una traccia lasciata per lui. Avrebbe trovato qualcosa forse? E poi cosa avrebbe dovuto farci? Il Tizio-alto-alto, intuendo i suoi interrogativi, gli sorrise e fece ok con la mano. Voleva dire che avrebbe capito da solo come fare? Scomparve. Diego si svegliò.
La mattina dopo pregò la mamma di andare a fare una passeggiata sulla spiaggia.
Barbara tentò di replicare che era pieno inverno, ma provò una ricordò quanto piacesse anche a lei, da bambina, fare la stessa cosa a dispetto dei mutamenti stagionali. E soprattutto se pioveva. L’aveva raccontato tante volte e non poteva rimangiarselo.
Il padre e la madre di Barbara erano morti anni prima il giorno di Natale. Diego sapeva che per lei il Natale non era più una ricorrenza piacevole da allora e apprezzava la calda allegria degli addobbi e delle canzoncine, che la madre non gli faceva mai mancare. Quella mattina, Barbara aveva preparato le rondelle di mele fritte alla cannella. Diego le aveva trovate per colazione, dentro una bella ciotola di porcellana bianca bordata di blu, accanto alla sua tazza di latte e orzo. Sentendone il profumo al risveglio, era corso in cucina e si era precipitato prima su una frittella e poi tra le braccia di Barbara.
Camminava sulla battigia, a piedi nudi e con i pantaloni rimboccati che, nonostante questo accorgimento, si erano bagnati lo stesso. Indossava un maglione irlandese molto pesante e una giacchina di piumino rosso senza maniche, che doveva ricordare quella di Marty McFly in Ritorno al futuro, uno dei film preferiti dalla nonna Margherita. Le scarpe e le calze le aveva messe nello zainetto che portava sulle spalle.
Guardava davanti alla linea mobile dei suoi piedi, che definivano un nuovo orizzonte oltre le dita ad ogni passo. Camminava velocemente sotto il sole tiepido del mattino, tenendo in una mano un piccolo ramo proveniente dalla vicina pineta; mentre l’altra mano alternativamente si slanciava oltre il braccio ad indicare il percorso, oppure volava rapida alla testa, quando il vento scostava il suo cappellino di pile, facendolo scivolare tra una ciocca e l’altra dei suoi capelli mai a posto.
Sapeva che la mamma doveva essere poco lontano e che lo stava seguendo con lo sguardo. Sperava però che non gli avrebbe mai chiesto cosa stesse facendo, né dove di preciso stesse andando con quel piglio deciso. Diego sapeva di poterci contare sulla sua giovane anima, sul suo istinto e sulle cose che nella sua mente poteva vedere; ma sapeva altrettanto bene che certe cose agli adulti era meglio non dirle, perché non le capivano o non le volevano capire.
Si era attardato a giocare nella pineta, prima di terminare di attraversarla per arrivare alla spiaggia. Giocare era la scusa plausibile per giustificare quella specie di gimkana che aveva fatto per riprodurre il percorso dell’uomo in rosa del suo sogno. Sul luogo d’ingresso nella pineta non aveva avuto dubbi, era il solito da cui passava sempre e l’aveva riconosciuto subito, ma poi si era guardato attorno titubante, allora aveva battuto istintivamente i piedi per terra, spazientito. Era possibile che qualcuno avesse risposto a quel gesto? Che la terra avesse trasportato il messaggio agli spiriti del bosco? Forse sì, perché Diego aveva avuto la netta impressione di vederne uno, piccolo e velocissimo, e vestito come lui, l’impertinente! Diego lo aveva rincorso e quello improvvisamente si era fermato a guardarlo, per poi dileguarsi dietro ad un pino marittimo. Lì, davanti a quel pino, Diego aveva creduto di riconoscere una traccia, un segno tratteggiato nella terra, e allungando lo sguardo a una cinquantina di metri davanti a sé, aveva riconosciuto lo spazio percorso dal Tizio-alto-alto. Gli era parso pure di vedere i fiocchi di zucchero impigliati tra gli alberi, tanto l’ambientazione del sogno era stata fedele alla realtà. Svelato il tragitto da compiere, era quindi arrivato alla meta: senza dubbio essa era quel grosso sasso sul quale qualcuno aveva scritto ok col pennarello nero. Accanto al sasso c’era un bel ramo biforcuto, con un braccio un po’ più lungo dell’altro. Era bello. Forte ma leggero. Sembrava fatto per essere impugnato da un bambino. Lo aveva preso e poi aveva gridato alla mamma che andava al mare e si era messo a correre. Sulla sabbia si era tolto le scarpe e le calze e aveva iniziato la sua marcia meditativa. Sapeva che la mamma lo avrebbe interrotto presto per non fargli prendere freddo, e anche perché doveva portarsi avanti con la preparazione del pranzo di Natale. Barbara infatti lo chiamò e allora Diego ritornò a malincuore sui suoi passi, prima però, assecondando un impulso improvviso, si fermò un istante e guardando verso il mare, lanciò il ramo sussurrando: «Vai!» e corse dalla mamma.
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