Sono nata a Casinalbo in provincia di Modena da una famiglia considerata atipica per la fine degli anni Ottanta. I miei genitori non erano sposati e mio papà aveva avuto un figlio dal precedente matrimonio, e per questo la nostra situazione familiare non era vista di buon occhio dalla realtà provinciale ristretta in cui vivevamo. Ho iniziato presto a sentire il desiderio di andar via verso una città più grande, più libera, più moderna. Quella frazione conta, tutt’ora, poco più di cinquemila abitanti, una chiesa, le scuole elementari e medie, un campo da calcio e l’oratorio. Non avevo parenti lì perché mio papà è nato a Napoli da padre campano e madre veneta e hanno vissuto per tanti anni a Torino. La nonna materna era invece di Piano D’Arta, in provincia di Udine, e il nonno che era di origini tarantine, lavorava come poliziotto stradale. Quando non riusciva più a fare multe ai suoi nuovi compaesani friulani ha chiesto il trasferimento ed è stato spostato a Modena, dove sono poi nata io. Non ho mai sentito il paese come il mio luogo, non avevo una famiglia numerosa con cui festeggiare il Natale o cugini con cui trascorrere il pomeriggio. Ero l’unica bambina presente in casa ed ero abituata a sentire sempre voci adulte e discorsi da grandi.
Ho avuto un’infanzia serena ma solitaria, non amavo le bambole o il pallone, era la musica la mia principale compagna di giochi. Mi divertivo ad ascoltare cd che mettevo in continuazione, imparando a memoria i testi delle canzoni che cantavo a squarciagola. Già a pochi anni intonavo i ritornelli dei brani che sentivano i miei genitori, ricordando tutte le parole, anche le più difficili.
Con i punti della benzina mio padre aveva comprato tutti i dizionari del mondo e il mio passatempo preferito, già alle scuole elementari, era tradurre i testi delle band che più amavo. Non mi accontentavo semplicemente di comprendere il contenuto del brano, ma cercavo anche il corrispettivo italiano più esaustivo. Ho imparato così l’inglese, tra le parole degli artisti che ammiravo. Arrivata alle scuole medie ero l’unica che conosceva la lingua così bene e per questo avevo il permesso di andare, durante le lezioni di speaking, in aula di informatica dove c’era l’accesso a Internet. Davanti a un computer lento e rudimentale, in una stanza silenziosa, cercavo tutte le informazioni delle canzoni che ancora non conoscevo e stampavo i testi che nascondevo gelosamente nello zaino. Tornata a casa, il mio primo pensiero era prendere il dizionario e tradurre i termini che leggevo sul foglio. Analizzavo ogni singolo passaggio delle canzoni, poi accendevo la televisione per vedere i videoclip, le interviste e gli approfondimenti musicali. Segnavo tutto in quaderni con copertine colorate dove trascrivevo i testi e riportavo le informazioni che più mi colpivano.
A volte, per alcuni vocaboli più complicati avevo bisogno di segnare, vicino alla traduzione, una breve analisi del significato e del motivo per il quale secondo me si era scelto proprio quel termine. Interpretare i testi mi permetteva di accedere all’anima del brano. Riuscivo a immedesimarmi nelle storie che la musica raccontava, lasciandomi trasportare dalle note lontano dalla mia stanza. Solo con il rock riuscivo a evadere, chiudevo gli occhi e sentivo che le vibrazioni delle canzoni mi davano ritmo, energia.
Era un pomeriggio del novantasette quando, cercando tra i vari canali televisivi, ho visto per la prima volta MTV, emittente dedicata esclusivamente alla musica. Guardavo stupita i vee-jay che presentavano le hit internazionali e incontravano i miei cantanti preferiti. Mi immaginavo di essere lì sul palco, con un microfono in mano, le cuffie in testa e una folla rumorosa che si muoveva al ritmo dei video che presentavo. Dalla mia cameretta fantasticavo di essere in televisione, con i testi tradotti in una mano e i dischi da presentare nell’altra.
Tra le classifiche, i brani più ascoltati e le rivelazioni delle star, il lavoro dei vj mi sembrava un sogno e seguivo le loro interviste con assoluta attenzione. Non mi perdevo mai una puntata e il momento che più amavo era quello dell’incontro con i cantanti che presentavano i loro nuovi singoli e cd.
È stato mio padre a regalarmi i primi dischi. Un giorno è tornato dal lavoro con due album, uno era quello di esordio di Gianluca Grignani e l’altro era Everything Changes dei Take That. La copertina era una fotografia dei cinque membri della boyband vestiti di bianco che ridevano e si abbracciavano. Erano il sogno di ogni adolescente e io avevo un debole per Robbie Williams che, nonostante mia mamma sostenesse ogni volta come fosse il più brutto del gruppo, sentivo che sarebbe stato quello che avrebbe fatto più strada.
Mentre i singoli nuovi risuonavano nello stereo, tappezzavo a ritmo di musica le pareti con i poster. La casa dove abitavamo era totalmente rivestita con la carta da parati, grande passione di mia madre che non permetteva assolutamente di rovinarla appendendo cartelloni, quadri o fotografie. Oggi sorrido al pensiero di quanto adori anche io la tappezzeria, tanto da aver foderato la maggior parte dei muri della nuova casa con stampe floreali a tinte nitide e decise.
Non potendo contare sulle pareti della mia camera, il garage era diventato il mio regno, il mio personalissimo studio musicale. Non c’era centimetro del muro che non fosse ricoperto da un’immagine presa dalle riviste. C’era un angolo dedicato ai “belli” del cinema, Leonardo di Caprio e Brad Pitt, e un altro a quelli, altrettanto belli, della musica, come i Backstreet Boys e i Savage Garden. All’età di sei anni è stato chiarissimo per me che avrei voluto sposare Darren Hayes e, anche davanti alla dichiarazione della sua omosessualità, ero certa che ci sarei riuscita!
Amavo poi sfogliare i libri e le riviste che trovavo in casa e nutrivo una passione smodata per Quattroruote, il periodico mensile italiano di automobilismo che acquistava mio papà e che collezionavo in garage. Mi piaceva leggere per capire come erano strutturate e immaginarmi al volante di macchine velocissime, basse, sportive e da corsa. Insieme alla passione per le auto, avevo ereditato da mio padre soprattutto l’amore per la musica, sua grande passione oltre che professione prima che nascessi. Aveva infatti un programma in una radio locale dove si faceva chiamare Daniele. Mia madre ha scoperto dopo un anno di frequentazione che il suo vero nome era in realtà Luigi e oggi, anche se ha cambiato lavoro e si occupa di investigazione, per tutti è ancora Daniele. Non parlava mai del periodo trascorso in radio o forse semplicemente io in quegli anni non chiedevo.
Quando i miei genitori si sono separati, a casa eravamo tutte donne, io, mia madre e mia nonna Maria. L’unica presenza maschile era Marino, un cane che mi hanno regalato quando avevo dodici anni per farmi compagnia. L’ho chiamato come il signore da cui lo abbiamo preso, un uomo estremamente stravagante, e mi sembrava il nome perfetto per un cucciolo irrequieto, vivace e incontenibile. Con lui trascorrevo interi pomeriggi ascoltando musica e traducendo i testi.
Mi sentivo diversa dai compagni sia di scuola elementare che media con i quali non avevo mai legato. Probabilmente le mie passioni erano considerate bizzarre e insolite e la musica che ascoltavo incomprensibile. Non mi capivano quando raccontavo loro di adorare Push it dei Garbage o I Knew I Loved You dei Savage Garden. Già da piccola amavo il rock, le atmosfere internazionali, i suoni forti, il ritmo intenso. Non avevo molti amici se non Margherita e Giorgia, una ragazza che abitava nel mio palazzo ma che trascorreva il tempo libero con la sua comitiva che io non frequentavo. Da qualche anno ci siamo però ritrovate e siamo diventate inseparabili nonostante non viviamo nella stessa città. Ora ci capiamo meglio, forse perché io non sono mai stata veramente bambina. A rendermi diversa dai miei coetanei era anche il mio aspetto estetico, la mia altezza di molto superiore alla media. A soli nove anni misuravo un metro e sessanta, decisamente sproporzionata e per questo scoordinata e disarmonica. Avevo almeno trenta centimetri in più dei miei compagni di classe più alti e mi sentivo a disagio, mastodontica. Stavo sempre ricurva con le spalle per perdere qualche millimetro e non volevo frequentare le lezioni di danza come la mia vicina di banco che aveva un fisico proporzionato per la sua età. Avevo comunque deciso di iscrivermi con lei a un corso ma con scarsi risultati, fino a quando ho scoperto la passione per il tennis, che pratico tutt’ora.
Desideravo andar via, trovare un posto dove sentirmi accolta, amata, non giudicata. Persino nei professori leggevo uno sguardo di tenera accondiscendenza quando raccontavo loro che avrei voluto lavorare in televisione.
Nascosto tra i cd avevo un diario dove appuntavo aneddoti sulle canzoni, curiosità sui gruppi e i brani che più mi colpivano e ovunque, in caratteri cubitali, scrivevo: da grande farò la vj. Nei miei piani sarei diventata come Paola Maugeri che a MTV intervistava gli HIM, Richard Ashcroft e i cantanti che io più amavo. Sentivo che quello sarebbe stato il mio futuro, la mia strada, che avrei trovato il modo per vivere di musica e che avrei incontrato i miei idoli, intervistato le band più note, presentato le canzoni che hanno fatto la storia e scoperto nuovi talenti.
Pasquale Nuzzolese (proprietario verificato)
Carissima Giulia, ho appena ordinato il tuo libro e non vedo l’ora di leggerlo! Avrà di sicuro la tua energia: un abbraccio grande!
Giulia Salvi (proprietario verificato)
Grazie mille, cara Carmen! Sarò felice di raccontarvi TUTTO! Il supporto di Voi lettori è musica per le mie orecchie 😉
Carmen Cos
Ciao Giulia! Che sorpresa e che piacere trovare te, proprio te, col tuo libro “Giulia Salvi on air” di fianco al mio qui su bookabook! Ti seguo sempre su Virgin. Prendo subito il libro. Come si fa a non farlo se l’anteprima è con Dave Gahan?! Se questo è solo l’inizio, il resto è da leggere assolutamente!!! In bocca al lupo per la campagna. Intanto io pre-ordino subito!