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Ho tutto il tempo che serve

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Luca e Michele sono stanchi, hanno fatto troppi errori. Ma tutto accade per una ragione ben precisa. Tutto può e deve ricominciare.
Ho tutto il tempo che serve parla dell’unica cosa davvero preziosa che abbiamo, il tempo. Parla di un amore finito tragicamente, quello tra Milena e Luca, ma che nonostante tutto rimane fondamentale per una rinascita; parla di quegli incontri che migliorano o cambiano la vita.
Il tempo ci aiuta a rimettere la nostra esistenza nella direzione giusta, cura ferite profonde, regala speranze.
Questa è la storia di un ragazzo (e non solo) che, grazie al tempo scandito in un diario e da qualche foglietto sparso (dove appunta poesie) che ritrova in cantina, cerca di recuperare qualcosa di fondamentale, l’amore certo, ma soprattutto la fiducia in se stesso e la voglia di vivere.

Io e Michele ci sedevamo spesso sulla panchina del giardino nei pressi del consultorio. Io accendevo una sigaretta, lui invece dava grandi sorsate a una bottiglia che tirava fuori dalla giacca neanche fosse un mago. Certo bevevo anch’io, ma al parco no, al parco dedicavo la mia attenzione alle giovani mamme che spingevano il passeggino andando su e giù per il viale di ghiaia. No, non sono un maniaco, tranquilli. Era che quelle donne m’incantavano sempre, erano bellissime, tutte stanche ma felici. A guardarle mi sembrava che niente fosse perduto, che tutto potesse ancora accadere nella vita, che, anche se noi ci reggevamo in piedi a stento, con il metadone in circolo nelle nostre precarietà, la vita potesse subire inclinazioni migliori.
Parlavamo di tutto mentre le ragazze ci passavano davanti. Una volta una di loro mi sorrise, penso per educazione o per compassione, comunque mi sorrise davvero, a me, che stavo lì a fissarla come un coglione, cercando di fermare le mie braccia tremanti, abbracciandomi. Mi emozionai a tal punto che stavo per svenire. Michele mi sorresse, spingendo la bottiglia sulla mia spalla mentre rideva e continuava a dirmi di riprendermi, che non era niente, era solo vita normale, erano solo mamme con il passeggino e probabilmente erano incazzate come me, di certo Milena non era lì.
Appena sentii quel nome mi voltai verso Michele e gli sferrai un pugno in testa.

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«Ehi, che cazzo fai? Coglione!»
«Tu che cazzo dici, ubriacone del cazzo. Lo sai che lei non la devi neanche nominare, non ne hai il diritto, lo sai! Non puoi dimenticarlo solo perché hai bevuto come uno stronzo!»
«Tranquillo amico, tranquillo, era solo per dire, non volevo offenderti.»
«Per dire un cazzo, certe cose non si possono neanche pensare… tu lei non la devi nominare mai più.»
«Sì, sì ho capito… stai calmo.»
Ovviamente le mamme si erano dileguate vedendo due derelitti che litigavano nel loro parco perfetto. Ormai avevo perso il gusto di guardarle passeggiare in quel pomeriggio tiepido di aprile. Strappai la bottiglia di whisky dalle mani del coglione che era seduto di fianco a me, ne bevvi una sorsata, circa un bicchiere abbondante, che scese bene nello stomaco, e subito sentii una finta calma invadere il mio cervello. I miei pensieri e tutte le brutture sfumarono in armonia con il tiepido sole che sbucava dai rami intrecciati degli olmi.
Michele cominciò a piangere, così gli misi un braccio sulle spalle e dissi: «Non è niente, dai», lui pianse ancora più forte e finì il resto dell’alcol. Eravamo più tristi di prima: aspettavamo l’orario per una dose resa legale da qualche medico, come due piante inaridite nell’unico posto del giardino dove non arriva acqua. Avevamo bisogno di credere in qualcosa e di passeggiare con un cielo azzurro sulla testa da regalare a due occhi da non dimenticare.
Potevamo tornare ad amare?
Michele smise di piangere e andò a pisciare dietro un muretto, io rimasi lì, seduto a guardare l’aria che sembrava cambiare colore insieme al tramonto che stava ormai arrivando. Pensai a Milena, che non c’era più, pensai a com’ero bello quando lei mi guardava, pensai a Michele che stava pisciando fregandosene di tutto e di tutti. Presi un’altra sigaretta e la accesi, presi il tempo e lo fermai ancora un po’ prima di tornare nella realtà, prima di comprendere davvero la mancanza che sentivo, prima di rimanere in silenzio e non pensare più a niente.
Quando Michele ritornò alla panchina mi chiese ancora scusa. Era ubriaco, ma io capivo, capivo che lui era esattamente come me. Potevo sentire la sua solitudine, potevo sentire anche il suo dolore. Potevo sparire e riapparire in un’altra vita, una vita passata, la mia vita con lei. Insomma, ero come la maggior parte delle persone che avevano perso, solo più debole di qualche centimetro, sempre una misura, sempre un conteggio di distanze strane e incolmabili. Sempre i soliti, senza mai finire nulla in tempo, senza mai restare davvero per rimanere qualcosa o qualcuno, solo lei e il suo cancro mortale a vivermi addosso, come pulci putride sulla pelle da grattare di continuo.
Quella notte mi drogai bene. Tutto mi appariva meglio che nella vita, meglio che nelle pubblicità che passavano in TV, ancora meglio che nelle storie che ci raccontano certi benpensanti, e meglio delle belle canzoni, di certi film, di certe ragazze che senza una ragione se ne vanno lasciandoti qualcosa su cui ragionare, certo. Sapete come mi sentivo? Mi sentivo come una busta di plastica impigliata tra i rami, immobile e nello stesso tempo in movimento, mi sentivo come una poesia che non si può né leggere né scrivere, mi sentivo un cazzo di un fantasma, mi sentivo uno stronzo che appunta pensieri su un taccuino sperando siano importanti almeno per lei, lei, che non c’era più. Un gioco beffardo, un destino sconvolgente, una malinconia che premeva sul cuore come un macigno.
Dai foglietti sparsi della mia vita:

Poeti ignoranti, con l’anima spezzata, osservano pezzetti di giorno scivolare nel segreto stellato della prossima notte… che comunica.
Perché parli così? Senza respiro, senza respirare, senza restare ancora nel cuore di chi riesce a rincuorarti, nell’anima favorevole di chi ti stringe senza chiederti nulla in cambio, senza chiederti nemmeno un bacio, senza suicidio e senza resurrezione.
Dove andrai adesso?
Perlustrare zone incantevoli a pochi passi dalla gioia, rivivere situazioni incompatibili per incastrare controrivoluzioni possibili, diventare finalmente una persona buona, raggiungere insignificanti traguardi per arrivare almeno da qualche parte.
Poeti ignoranti che contano i granelli di sabbia rimasti sui fili d’erba dopo una tempesta di stagioni da dimenticare.
È raro essere contenti.
È raro che qualcuno respiri insieme a te.
Sopravvivere di arte, è una rarità.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Gianluca Nadalini
è nato a Bologna nel 1972. Ha pubblicato due raccolte di poesia: Ricomincio da uno con Miraggi Edizioni nel 2019 e Il carciofo felice con Gli Elefanti Edizioni nel 2020.
Ho tutto il tempo che serve è il suo primo romanzo.
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