Azionò i tergicristalli alla minima velocità, ma la pioggia prese ben presto ad intensificarsi, fino a quando grosse gocce non iniziarono a picchettare con ritmo frenetico all’impatto sulla carrozzeria.
La strada di campagna percorsa dal il tenente Harada non riusciva a drenare l’acqua a dovere, costringendolo a rallentare l’andatura per evitare di perdere il controllo del veicolo e finire nel fossato.
“Spero solo che i soccorsi siano già sul posto”, pensò nel tentativo di auto-convincersi. Le informazioni che ricevette dal comando di polizia non parlavano di sopravvissuti, ma la speranza era sempre l’ultima a morire.
Il muro d’acqua generato da quell’imprevedibile acquazzone primaverile impediva una buona visibilità, e il tenente Harada si accorse di essere giunto a destinazione con soli pochi metri di preavviso, non appena vide un paio di luci rosse.
Solo due auto sulla scena: un furgone accostato sul ciglio della strada con i lampeggianti in funzione, ed un’altra auto, pochi metri più avanti. Capovolta.
Vetri rotti e pezzi di lamiera circondavano il veicolo, assottigliato sull’asfalto, mentre, con suo rammarico, notò che nessuno dei soccorsi si trovava sul posto. Evidentemente decisero di prendersela comoda, date le circostanze e il meteo avverso. Forse erano già stati informati che non era rimasto nulla da fare.
Quando il tenente Harada accostò, azionò le frecce d’emergenza nel tentativo di segnalare la presenza di veicoli fermi a chiunque fosse sopraggiunto da quella strada, in ogni caso poco trafficata. Allo stesso tempo azionò brevemente la sirena per avvisare chiunque fosse all’interno del furgone che la polizia si trovava sul posto.
“Forza, al tre si scende. Uno, due…”
Smontare dall’auto richiamò all’appello tutta la sua forza di volontà. Non appena tenente Harada spinse con forza la portiera per uscire all’aperto, la pioggia iniziò ad inzuppare i suoi capelli laccati e pettinati all’indietro prima che potesse sollevare il cappuccio del suo impermeabile. Le pesanti gocce fredde che colarono dalla sua fronte lungo le guance finirono per inumidire l’ispida barba che quel giorno decise di non radere, come spesso faceva, soprattutto durante le giornate più impegnative.
La forte presa sui lembi del cappuccio impedì alle sferzate di vento di sollevarlo, mentre si avvicinava di corsa all’auto incidentata.
Poi, la portiera del furgone si spalancò. La punta di un ombrello fuoriuscì dall’abitacolo per primo, anticipando due mani lo aprivano mentre una figura rimaneva all’interno del veicolo. Un uomo scese dall’auto: soltanto le caviglie erano scoperte da un impermeabile giallo di una taglia evidentemente troppo abbondante. Dai piedi sporgeva timidamente un un paio di anfibi color verde militare. Si avvicinò frettolosamente al veicolo capovolto quando, con un cenno del braccio, invitò il tenente Harada a prendere copertura sotto l’ombrello assieme a lui.
«Grazie, molto gentile,» esordì il tenente Harada mentre abbassava il cappuccio del soprabito. Con un gesto mnemonico andò alla ricerca del distintivo che custodiva come sempre nella tasca interna del soprabito, per identificarsi. «Sono il tenente Harada, dipartimento di Uji, prefettura di Kyoto.» Lo sguardo dell’uomo era a un tempo carico di sospetto e sollievo.
«Salve tenente, io sono Takeshi Yamada. Vivo poco lontano da qui, ho inviato io la chiamata ai soccorsi. Come mai non è ancora arrivato nessuno, a proposito? A parte lei, ovviamente,» Si corresse l’uomo, facendo capire al tenente che il suo era un riferimento alle squadre del pronto soccorso. Il tenente chinò il capo e sospirò con rassegnazione, pronto a raccontare il solito, triste copione.
«Questa stagione sta causando non pochi problemi, soprattutto in città. Gli acquazzoni improvvisi e le forti raffiche di vento causano feriti, i soccorsi sono sotto stress. E quest’area lontana non è facile da raggiungere in queste condizioni.» Seguì una breve pausa, uno smacco silente all’efficienza delle forze dell’ordine e alla loro impotenza di fronte alla furia della natura. «Purtroppo,» aggiunse poi, «le prime informazioni che ha fornito al centralino non hanno lasciato intendere che sia rimasto molto da fare. In circostanze simili, la priorità nell’intervenire diminuisce drasticamente,» concluse, mentre volgeva lo sguardo verso il veicolo capovolto.
Il tenente Harada squadrò il signor Yamada da cima a fondo. I capelli leggermente brizzolati gli attribuivano un’età di circa sessant’anni, la mano che impugnava il manico dell’ombrello era segnata da calli e cicatrici, probabilmente un lavoratore di campi. Se c’era un’arte che il tenente Harada imparò a perfezionare nel corso della sua carriera, era saper leggere gli occhi delle persone. Riteneva che lo sguardo parlasse più della bocca, e che a volte sapesse rivelare quei segreti che le parole tentavano di celare. Quegli occhi in particolare raccontavano la storia di un uomo che visse una vita difficile, segnata da difficoltà e problemi irrisolti. Occhi forti, duri, di chi ha dovuto far fronte a dispiaceri con cui ancora è costretto a convivere. Ma sullo sguardo nessun dubbio: era morbido, privo di giudizio, e trasmetteva un senso di calore, tipico delle persone di cui ci si può fidare.
«Signor Yamada, le andrebbe di raccontarmi come ha rinvenuto l’auto?» domandò il tenente, ma senza alcun segno di accusa nelle sue parole. Non voleva che quell’uomo iniziasse a sospettare che si trattasse di un interrogatorio. Yamada si grattò la fronte con la mano libera mentre cercava di riorganizzare i ricordi più recenti.
«Stavo percorrendo la statale verso casa, abito a circa cinque chilometri da qui. Ho una piccola fattoria nei pressi di Higashikasatori.» Fu interrotto dal forte boato di un tuono, il tenente imprecò in seguito allo spavento. «Come tutti i martedì,» proseguì Yamada che fece finta di ignorare il turpiloquio di Harada, «mi sono recato in città per comprare il mangime per i miei polli,» aggiunse, mentre con un gesto della mano indicò alcuni sacchi di mangime che spuntavano dal rimorchio del furgone, accuratamente impilati uno sopra l’altro. Il tenente sporse la testa oltre le spalle dell’uomo.
«Ha percorso la stessa strada anche all’andata?»
«Sì, ma la strada era sgombra, non ho incrociato una sola auto. Ma è molto comune, da queste parti non circola molta gente, di solito,» rispose il signor Yamada. L’incidente era necessariamente avvenuto in quel lasso di tempo. Il tenente passò in rassegna l’area circostante: proseguendo in direzione della casa del signor Yamada la strada, con i suoi numerosi tornanti, serpeggiava tra le colline. Eppure, il tenente lo notò, un dettaglio lo fece trasalire. Quella vicenda, che non lasciava presagire nulla di buono, gli fu immediatamente chiara. Indicò al signor Yamada un punto al di sopra delle loro teste mentre puntava il dito poco sotto il bordo dell’ombrello.
«Guardi là.» Il signor Yamada seguì con lo sguardo l’indicazione del tenente. Senza occhiali, impiegò qualche secondo per mettere a fuoco. Poi, non appena collegò gli eventi, portò istintivamente la mano alla bocca. In prossimità di un tornante, lungo la strada in salita, la sagoma di una parte divelta di guard-rail era appena visibile attraverso la nebbia sollevata dalla pioggia torrenziale. Senza aggiungere altro, coordinati da una speciale sincronia, i due passarono in rassegna il tratto sottostante quella curva pericolosa. Ben presto, anche se mimetizzati tra i campi, riscontrarono segni di pneumatici e rami spezzati che, come in un percorso obbligato, conducevano sino al punto esatto in cui l’auto era finita sottosopra sulla carreggiata.
«Sembra che la pioggia abbia fatto altre vittime», disse il tenente Harada, che dovette gridare per sovrastare il rumore del temporale. Ora la pioggia, che rimbalzava sull’asfalto, finì per bagnare le scarpe nuove che il tenente acquistò solo qualche giorno prima. Il signor Yamada scosse la testa visibilmente contrariato, come se esprimere il suo forte dissenso potesse in qualche modo cambiare l’ordine degli eventi.
«Quella strada è troppo pericolosa. Ho contattato più volte le autorità, chiedendo che quella curva venisse segnalata a dovere, ma nessuno mi ha mai dato ascolto. Posso solo immaginare quanto sia difficile per un forestiero notare una curva così stretta nel mezzo di una smile tempesta.»
Il bagliore di un lampo irruppe dalla grigia coltre di nubi, seguito dal boato di un tuono ancora più forte del precedente. Il tenente Harada, tra le cui paure svettava quella di venire colpito da un fulmine, si ritrasse istintivamente. Assieme al signor Yamada prese rifugio sotto il portellone del baule aperto della volante, dove iniziò a trascrivere le generalità del contadino, come previsto dalla prassi.
Terminò di inserire tutti i dettagli quando, in lontananza, un debole suono di sirene giunse alle loro orecchie.
«Era ora,» disse il tenente. “Ma sempre troppo tardi”, aggiunse, senza mai dar voce a quelle parole.
L’auto-ambulanza non era sola: era scortata infatti da un’auto-pompa, evidentemente i soccorsi ricevettero indicazioni circa la possibile presenza di corpi da estrarre dalle lamiere, compito per il quale i medici del pronto soccorso non sarebbero stati attrezzati. Entrambi i mezzi accostarono proprio a lato della volante, tre pompieri smontarono in fretta dall’abitacolo: due scattarono fulminei verso la sciagurata vettura, mentre un terzo raggiunse il tenente. Era un uomo robusto e ben piazzato, di quelli che farebbe piacere trovarsi accanto durante un’eventuale rissa. Si introdusse con un tono di voce caldo e rassicurante, quello di chi è abituato a gestire situazioni d’emergenza come quella. Il pompiere si rivolse ai due con un cenno della testa, in segno di saluto.
«Salve, sono il caposquadra Mitsugi. Credo sia il caso di bloccare il transito. La strada è stretta e ci vorrà tempo. Non credo che passeranno molte auto, ma non si sa mai.» Il tenente Harada lo fissò come l’eroe tanto atteso appena giunto sul luogo del crimine.
«Certo, certo, procedete pure.» Harada convenne pur sapendo che non avrebbe avuto modo di opporsi.
Il caposquadra Mitsugi si voltò verso l’autopompa. Emise un fischio acuto che prese a pugni i timpani del tenente e del signor Yamada. Immediatamente, un paio di uomini recuperarono alcune transenne dal retro del veicolo, che disposero poi in modo da bloccare l’accesso a quel tratto di strada. Quando le sirene si spensero il rumore della pioggia sembrava più debole, segnale di come il temporale si stesse allontanando.
«Presto, servono due uomini, abbiamo bisogno di flessibili!» urlò un dei pompieri vicino all’auto, «dobbiamo aprire immediatamente!»
Il caposquadra Mitsugi scattò per raggiungere il resto della squadra, le sue lunghe falcate macinavano metri sull’asfalto cona una leggiadria non comune tra gli esseri umano. Il tenente Harada e il signor Yamada si scambiarono un’occhiata di curiosità che racchiudeva un briciolo di speranza. Una squadra di medici, fino a quel momento rimasta a bordo, scese dal retro dell’ambulanza. Due portavano una barella, mentre un terzo indossava lo zainetto contenente il defibrillatore. Il tenente realizzò che qualcosa stava succedendo. Forse qualcosa di buono.
«Resti qui,» disse al signor Yamada, con tono autoritario. Corse verso l’auto, ad ogni passo poteva avvertire il dolce abbraccio della fiducia farsi sempre più inteso. Venne raggiunto da alcune delle scintille prodotte dalle lame dei flessibili che, poco alla volta, scoperchiavano l’auto lacerandone il telaio. Si rivolse al caposquadra Mitsugi, l’affanno del suo respirò rivelò una non più ottimale forma fisica.
«Cosa succede?» Le parole vibrarono nella sua testa prima di posarsi delicatamente e rilasciare tutta la gioia in esse contenute.
«Abbiamo un superstite.»
“Un superstite”, ripeté Harada a sublimazione dell’inaspettata notizia. Com’era possibile che né lui, né il signor Yamada, presenti sul luogo dell’incidente da tempo, non avessero udito alcun grido o richiesta d’aiuto?
Il tenente Harada si inginocchiò di scatto finendo carponi sull’asfalto bagnato, mentre prestava attenzione a non tagliarsi con i frammenti di vetro nelle vicinanze. Passò in rassegna la parte anteriore dell’abitacolo: il conducente era un uomo, le braccia ancora sul volante stringevano debolmente lo sterzo, mentre il passeggero era una donna, le braccia allungate verso l’alto conferivano a quella posa sinistra l’aspetto di una macabra esultanza. Ricoperti di sangue, gli occhi di entrambi erano vuoti, assenti. Entrambi gli airbag erano esplosi, in quei corpi non sembrava esserci traccia di vita. I loro volti, con le bocche deformate, erano contorti nella spaventosa espressione di chi ha appena realizzato di andare incontro a morte certa. Da quel che poté intuire nel mezzo di quella scena piuttosto tetra, i due dovevano essere abbastanza giovani, forse una coppia di sposi o fidanzati che non superavano i trentacinque: non fu una scena facile da digerire, nonostante non fosse di certo la prima volta.
Si mosse gattonando all’indietro, spostandosi verso il lato posteriore dell’auto. Diede una prima, rapida occhiata, ma un dolore acuto e improvviso lo distrasse: un piccolo frammento di vetro recise un taglio nlla parte esterna della mano sinistra. La ferita era superficiale, nulla di grave, ma il sangue iniziò ben presto a sgorgare copiosamente mescolandosi all’acqua ancora presente sull’asfalto. Riuscì a realizzare meglio non appena si ridestò da quel piccolo incidente di percorso. Si voltò nuovamente verso i sedili posteriori, in cerca di conferme. La bocca si fece molle e la mascella cadde in una naturale espressione di estremo stupore. In quel momento, il tenente Harada ne ebbe la certezza: quello sarebbe diventato senz’ombra di dubbio il pomeriggio più incredibile che avesse mai vissuto. Lo trovò ancorato al seggiolino, la cintura allacciata e lui, con una serenità disarmante, avrebbe potuto attendere lì per il resto dei suoi giorni.
Immersi nel surreale silenzio all’interno di quel veicolo, lontano dallo sferragliare dei flessibili e dalle urla dei pompieri, senza tracce di pianto o di lamenti, due grandi occhi azzurri lo stavano fissando.
Noemi Averna (proprietario verificato)
Ho avuto l’onore e il piacere di leggere il manoscritto non editato e devo confessare che è davvero un bel libro.
Attraverso il suo romanzo, Filippo ti porta a riflettere sull’importanza delle piccole cose della vita, un inno a cogliere la bellezza della quale spesso noi adulti ci priviamo con le scuse più assurde, causando la nostra stessa sofferenza.
Un romanzo scorrevole e piacevole, semplice nella stesura e nel linguaggio ma ricco di insegnamenti e intenso se si guarda a ciò che ti lascia dopo averlo letto.
Vengono trattati temi come la sofferenza derivante dall’interruzione di importanti relazioni spesso causata da quel sentimento di orgoglio di cui non sappiamo fare a meno, ma anche routine di vita che ci fanno sentire prigionieri di scelte altrui (come accade spesso quando bisogna scegliere il percorso di studi o che lavoro fare, o ancora il rapporto con la morte e la frenesia alla quale la nostra generazione è sottoposta.
Tutto questo attraverso gli occhi di un bambino, poi diventato ragazzo, che ha fatto della saggezza una costante di vita.
Gli ultimi capitoli sono davvero commoventi.
Sono fiduciosa che la comunità di lettori e, ancor di più, gli appassionati di crescita personale riescano a riconoscere il valore di una lettura di questo tipo.
In bocca al lupo!