Tutto ha avuto inizio una mattina mentre mi trovavo presso la Biblioteca Comunale in cui, per anni, ho svolto mansioni di bibliotecaria come volontaria. Mentre sistemavo brochure e volantini venni attratta da uno di questi in cui si parlava di affido familiare.
Conoscevo la parola “Adozione”, di “Affido Familiare”, no, non avevo mai sentito parlare. Lessi con molta attenzione. Una settimana dopo varcavo la porta del Centro per l’Affido di Pieve di Soligo. Da quel giorno iniziò la mia avventura di mamma affidataria. Un percorso non facile che mi ha portata a confrontarmi con le problematiche umane, familiari e personali di un adolescente confuso, smarrito. Un ragazzino con alle spalle una storia triste, umanamente straziante. Mi sono sentita fin dal primo istante in cui ho visto “quegli occhi verdi come un mare di montagna”, le mamme che non ha avuto. Le mamme, quella biologica e quella adottiva, le quali, per due diversi ma al contempo tragici motivi, lo hanno lasciato solo.
Perché ho scritto questo libro?
Il tempo non cancella i ricordi, soprattutto quelli ben conficcati nella mente e nel cuore ma ne smussa gli angoli, ne smorza i colori, cancella le parole. E io non volevo che il tempo mi portasse via nemmeno un minuto, nemmeno una frase e nemmeno un’emozione di tutte quelle provate durante questa mia straordinaria esperienza.
Ecco perché ho scritto questo libro.
Per me, per chi leggerà e vorrà intraprendere l’esperienza dell’Affido Familiare e per lui, il “mio” bambino venuto dal freddo.
ANTEPRIMA NON EDITATA
CAPITOLO UNO
Settembre 2012, Pieve di Soligo
Ho fatto bene a portare l’ombrello
Salutai con un sorriso l’autista del pullman e, appena messo piede a terra, alzai lo sguardo verso un cielo gremito da grosse nuvole sporche e cariche di pioggia. La corriera, partita quaranta minuti prima da Cison di Valmarino, aveva chiuso dietro le mie spalle la porta automatica con una sorta di sibilo. Per mia fortuna, la fermata del mezzo pubblico era situata a pochi passi dalla palazzina a tre piani verso cui mi diressi, a passo sostenuto.
Il colore dell’intonaco presentava diverse screpolature e una patina grigiastra stava a testimoniare che gli anni fossero trascorsi sbiadendo la tonalità originale dello stabile, il cui aspetto conservava ancora la parvenza di un piccolo ospedale, situato nel centro storico di un grosso paesotto ai piedi delle Prealpi trevigiane.
Un appuntamento importante mi attendeva quella mattina, con il sole oscurato e il vento a scompigliarmi i capelli. Una porta a vetri, fin troppo tecnologica data la vecchiezza dello stabile, si aprì di scatto. Varcai la soglia, dirigendomi senza esitazione, verso la rampa di scale in granito chiaro.
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Non ero mai stata in quel posto prima di allora, ma sapevo dove mi stavano attendendo. Mancavano quindici minuti alle nove. Era quello l’orario indicato nella e-mail ricevuta la settimana precedente al mio indirizzo di posta elettronica. Secondo piano, ultima porta a destra. Era chiusa, come d’altronde tutte le porte che si affacciavano in quel lungo e stretto corridoio. L’ambiente circostante trasmetteva la sterile atmosfera di un ricovero ospedaliero. Il linoleum consunto e le porte di un antico color crema confermavano, senza ombra di dubbio, l’origine di quel luogo.
Un foglio A4, fissato con nastro adesivo, spiccava sulla parete lavabile verde acqua.
SI PREGA DI NON SOSTARE NEL CORRIDOIO
Allungai lo sguardo per individuare un’area, dove collocarmi durante l’attesa. Al termine del corridoio, il mio sguardo incrociò una grande vetrata, da cui entrava una fascia luminosa perlacea e lattiginosa. Una luce biancastra in fondo al tunnel. Il rumore di una porta che si apriva, interruppe la ricerca di uno sbocco, dove poter attendere senza ingombrare l’angusto ambiente.
«Signora Stocco?»
«Sì, sono io.»
«Prego, mi segua…»
Pochi passi ed eccomi all’interno di una piccola stanza. Una scrivania, quattro sedie, un attaccapanni in acciaio, un calendario di Padre Pio alla parete e tre donne. Rimasi in piedi di fronte alla scrivania, sproporzionata rispetto alle dimensioni della stanza, tanto che la signora, di cui al momento conoscevo solo l’aspetto esteriore, dovette appiattirsi tra il muro e il lato del tavolo per prendere posto sulla sedia in tessuto blu.
«Bene, possiamo iniziare. Sono Adele De Nardi, assistente sociale.» Poi volgendo il capo alla sua destra disse: «E lei è la dottoressa Silvia Donadel, psicologa al nostro Centro Affido».
Ci scambiammo un saluto stringendoci le mani. Ero ancora in piedi, in attesa di un cenno per sedermi.
«Prego, si accomodi pure.»
Con voce pacata, dal forte accento veneto, la dottoressa De Nardi mi invitò ad accomodarmi. Presi posto. Scostai i capelli dietro le orecchie. Faccio sempre così quando mi sento osservata.
E osservata lo ero davvero.
L’assistente sociale non si perdeva un movimento. Ogni mio gesto veniva fissato sotto un’immaginaria lente d’ingrandimento. Lo sguardo ceruleo e penetrante oltrepassava le spesse lenti degli occhiali poggiati sul naso minuto. Sentivo quegli occhi quasi a sondare ogni anfratto della mia mente, cercando di captare impercettibili sfumature intellettive… ma non solo. La dottoressa De Nardi, austera nella sua posizione, stava seduta di fianco alla psicologa intenta a seguire la conversazione appena iniziata. La scrivania divideva le nostre persone e le nostre vite. Della mia conoscevo ogni piccolo particolare, mentre della loro sapevo solo che facevano parte dell’equipe del Centro per L’Affido di Pieve di Soligo.
“Affido Familiare”. Fino a un paio di settimane prima ignoravo l’esistenza di questo termine e dell’istituzione pubblica preposta a mettere in atto le fasi complesse e delicate richieste per l’attuazione dei progetti di affido. Le prime informazioni le avevo apprese leggendo uno dei tanti opuscoletti che vengono affissi nella bacheca della biblioteca comunale.
Il volantino invitava le famiglie, ma anche persone individuali, a occuparsi a tempo pieno o parziale di bambini o adolescenti nella propria abitazione. Lessi attentamente quanto scritto nel pieghevole e dopo qualche giorno inviai un’e-mail all’indirizzo di posta elettronica, riportato sul fondo del dépliant.
Prima di iniziare, la dottoressa De Nardi si schiarì la voce.
«Signora Stocco, abbiamo preso in considerazione la sua richiesta per un affido familiare pomeridiano. Ecco, il motivo di questo primo incontro qui al nostro centro. Vorremmo scambiare due chiacchiere con lei, diciamo, per conoscerci meglio…»
Ornella Stocco (proprietario verificato)
Trama: all’interno di questo testo l’autrice ha deciso di raccontarci un periodo particolare della sua vita, legato alla peculiare esperienza dell’affido famigliare. In questi primi capitoli vengono approfonditi i rapporti iniziali tra la narratrice, una donna che ha cresciuto autonomamente i due figli, ormai adulti e proiettati verso il futuro, e Serghei, un ragazzino di quattordici anni, ribelle e silenzioso. La trama si presenta interessante, originale, diversa, soprattutto per via della delicata tematica trattata. Ciò che la arricchisce ulteriormente è il fatto che si tratti di una storia vera, così che l’autrice, avendo provato di persona tale esperienza, possa trasferire le sue stesse emozioni all’interno delle sue parole
Chiara Gabbiano
Ornella Stocco (proprietario verificato)
Siamo al secondo giorno. Al giorno numero 2
E sono felice per questi primi lettori che hanno creduto in me. Grazie.
Il percorso è ancora molto lungo e tutto in salita ma io sono abituata alle strade tortuose e non facili.
Basta crederci. Basta avere fiducia nel prossimo e io ne ho in abbondanza e confido in voi e in me stessa.
Andiamo avanti.
LUNGO IL PERCORSO…