I nostri cervelli sono notoriamente plastici: miliardi di neuroni possono modificare le proprie funzionalità creando semplicemente connessioni (sinapsi) nuove e più forti con altri neuroni.
È così che il cervello riesce a modificare la propria struttura e le proprie funzionalità nel corso del tempo. Ma quando alcune connessioni si rafforzano, altre si devono per forza indebolire. A dimostrarlo per la prima volta, in un studio apparso sulle pagine di Science, sono stati i ricercatori del Mit che rivelano una semplice regola alla base della plasticità sinaptica: quando una sinapsi si rafforza, le sinapsi vicine si indeboliscono, in base all’azione di una proteina chiamata Arc.
“I comportamenti di sistemi complessi hanno sempre regole semplici”, afferma l’autore dello studio, Mriganka Sur. “Quando una sinapsi si rafforza, c’è una diminuzione della forza di altre sinapsi che segue un meccanismo molecolare ben definito”. Questo risultato, precisano gli autori, fornisce una spiegazione di come il rafforzamento e l’indebolimento delle sinapsi si combinano nei neuroni per produrre la famosa plasticità cerebrale.
Mentre le nuove sinapsi create dal neurone con il suo cambio di funzione divenivano più forti, i ricercatori hanno osservato che quelle vicine si indebolivano. Da cosa viene regolato questo meccanismo? Per capirlo i ricercatori hanno studiato un particolare tipo di recettori sinaptici definiti Ampa, scoprendo che il rafforzamento e l’indebolimento delle sinapsi è legato alla maggior o minore presenza di questi recettori. L’attività di questi recettori viene regolata dalla proteina chiamata Arc (activity-regulated cytoskeleton-associated).
Grazie a questi risultati, possiamo affermare che le sinapsi che si trovano in stretta vicinanza l’una con l’altra interagiscono attraverso un meccanismo molecolare a cascata, in cui la proteina Arc gioca un ruolo fondamentale. Questa informazione ci consente di capire non solo come i circuiti neuronali si sviluppano e si rimodellano, ma fornisce informazioni preziose per capire il mal funzionamento di questi processi nelle diverse malattie neurologiche.
PLASTICITA’ CEREBRALE E CAMBIAMENTO INTERIORE
Il nostro cervello muta, cambia ogni giorno, ogni ora, rendendoci sempre più efficienti alle richieste ambientali. Per poterlo fare, però, deve utilizzare un particolare meccanismo neurobiologico chiamato plasticità neurale.
In natura, la plasticità si manifesta, con due facce, tra loro contrapposte: la versione adattiva, che conduce a un funzionale e positivo adattamento all’ambiente esterno (qualsiasi esso sia), e la versione maladattiva, che produce una dannosa e disfunzionale attività cerebrale.
Anche un fenomeno naturale, come il dolore, può rivestire un ruolo fondamentale nel processo fisiologico di apprendimento.
L’essere umano, è un animale sociale, che interagisce costantemente con gli altri ed è legato agli altri. Questo ancestrale bisogno di socializzazione si scontra con il più profondo principio della natura umana: il disperato bisogno di essere apprezzati.
Questa contrapposizione tra il bisogno di stare con gli altri e quello di essere apprezzati deve però fare i conti con le leggi della società: le regole sociali cambiano, così come cambiano e si evolvono le nostre abitudini e tradizioni. Le regole che a volte, ci possono costringere, restringere o schiacciare.
Lo scontro tra le regole della società, i feedback provenienti dall’ambiente esterno e i propri bisogni produce quel dinamico fenomeno chiamato plasticità neurale. Stiamo parlando di cambiamenti nella struttura cellulare che avvengono ogni giorno.
Biologicamente parlando, vengono continuamente prodotte:
a) nuove sinapsi (sinaptogenesi);
b) nuovi vasi sanguigni per alimentare le nuove popolazioni di materia grigia cerebrale (angiogenesi);
c) nuove cellule di sostentamento dei neuroni.
Tutta questa iperproduttività cellulare serve per dare nuova forma ai neuroni e, quindi, ai nostri pensieri.
Nel processo di comunicazione con il mondo esterno, l’essere umano può avere solo due fondamentali modalità di interazione: una modalità adattiva o una modalità maladattiva. Nel primo caso, i nostri comportamenti verranno rinforzati e premiati dall’ambiente esterno, risultando quindi funzionali al nostro processo di adattamento. Nel secondo caso, invece, quello del comportamento maladattivo, i comportamenti di un individuo saranno poco compatibili con l’ambiente esterno e produrranno, a loro volta, un effetto “tossico” sulla salute e sulla psiche dell’individuo.
Il concetto di maladattivo in neurobiologia è più legato all’ambito medico-patologico. Si parla infatti di plasticità maladattiva quando si verifica un’alterazione nel neurosviluppo già durante la vita intrauterina, che può portare il bambino a sviluppare fenomeni di epilessia causati da una iperproduzione di materia grigia in particolari regioni cerebrali.
Il termine plasticità maladattiva viene inoltre usato per descrivere le conseguenze a livello cerebrale dell’uso massivo e cronico di farmaci, i quali possono produrre fenomeni di aumento di materia grigia incontrollata.
Infine, si usa questo termine per spiegare quello che accade nel caso di alcune rare malattie, come la distonia del musicista: una malattia neurologica caratterizzata dal blocco muscolare di mani e polsi dovuti all’eccessivo e ossessivo allenamento da parte del musicista. Il paziente, ad un esame di risonanza magnetica, mostrerà un innaturale aumento di materia grigia cerebrale di poco superiore a quella raggiunta da un super-esperto che si allena al pianoforte da molti anni.
Il cervello muta di forma e la struttura cambia per fare spazio a nuovi apprendimenti o per gestire eccessive stimolazioni che arrivano dall’esterno.
Plasticità neurale, quindi, significa sostanzialmente questo: nuova vita, nuova materia cellulare, nuovi sistemi di elaborazione di dati provenienti dall’ambiente esterno.
Contrariamente a quello che si pensa anche il dolore (come lo stress) non ha valenza solo negativa per l’essere umano. Anzi, il dolore è uno dei pochissimi eventi sensoriali che innesca il più atavico, ancestrale e misterioso, fenomeno neurobiologico chiamato neurogenesi.
Di che cosa si tratta?
Per oltre un secolo nel campo delle neuroscienze qualsiasi ricercatore sapeva benissimo che il cervello umano non può rigenerarsi come fanno i reni, il fegato e gli altri organi “inferiori”.
Il cervello umano, una volta sviluppato (fino ai 14-16 anni), non può più produrre nuovi neuroni.
Anche quando apprendiamo qualcosa di nuovo non produciamo nuovi neuroni, ma solo come abbiamo detto prima, nuova materia cellulare, ovvero sinapsi.
Dagli anni ’80 in poi, tutto ciò è stato fortemente messo in discussione: si scoprì, infatti, che esistono alcune regioni cerebrali in cui la neuro genesi (genesi di neuroni) continua ad esistere anche in età avanzata. Tra queste aree, che dimostrano di mantenere intatte le capacità di autorigenerarsi, c’è l’ippocampo, ossia la regione cerebrale più importante per l’immagazzinamento di tutte le informazioni/memorie episodiche della nostra vita.
Una delle scoperte più sensazionali che si fece in proposito è che la neurogenesi nell’ippocampo è guidata anche dal dolore. Molti ricercatori, però, si sono chiesti come fosse possibile che il più importante meccanismo di rigenerazione biologica della nostra mente sia influenzata proprio dalla più temuta condizione dell’esistenza umana.
La spiegazione è abbastanza semplice: ogni qualvolta si verifica un evento a cui si associa una forte sensazione di dolore cronico sia fisico che psichico, quell’evento necessita di una nuova struttura neurale.
Tutti gli apprendimenti che ricadono nella categoria degli eventi stimolati da forti componenti dolorose richiedono una nuova famiglia di neuroni capaci di mantenere questo ricordo per lungo tempo. Così lungo che, se si arriva a una vera e propria condizione di trauma psichico, il ricordo dolorifico viene immediatamente trasmesso alla prole. Il tutto, in un quadro di ottica evoluzionistica secondo cui i ricordi nocicettivi (del dolore) devono essere mantenuti con grande rilevanza e forza neurale per permettere la sopravvivenza della specie.
L’adrenalina, consolida i processi di memoria: dal momento che l’eccitazione emotiva provoca un rilascio di adrenalina, la memoria cosciente delle situazioni emotive anche dolorose, dovrebbe essere più forte di quella delle situazioni non emotive.
L’amigdala, appena capta una situazione emotiva negativa, attiva il sistema nervoso autonomo che rilascia adrenalina nel sangue.
Non tutti gli aspetti di un’esperienza si ricordano altrettanto bene. Il rafforzamento dovuto all’eccitazione anche negativa, può privilegiarne alcun a discapito di altri. Ad esempio se siamo stati vittima di una rapina, ricorderemo meglio e in modo più vivido, la pistola puntata contro di noi, piuttosto che l’abbigliamento del rapinatore.
Quella qui presentata è una estrema sintesi dell’insieme delle conoscenze a cui sono arrivate le moderne neuroscienze negli ultimi anni in questo campo di studi.
In questo particolare settore non si conosce, per esempio, cosa succede alla mente umana quando questa è sottoposta alla condizione opposta alla creazione di plasticità neurale: l’isolamento. Alcuni studi sulle condizioni di vita sociale interrotta, come nel caso dei recenti fenomeni di Hikikomori, possono aiutare a rispondere a questa domanda. Ma esiste un altro fenomeno sociale che più di tutti rappresenta la condizione maladattiva di isolamento: la vita in carcere.
Infatti, mentre per l’Hikikomori la scelta di non interagire più con il mondo esterno è consapevole, il carcere rappresenta la condizione per eccellenza di isolamento costrittivo.
Cosa accade, allora, alla mente di un carcerato prima di entrare nella cella e dopo un anno di deprivazione sensoriale?
Studi su animali, dimostrano che l’isolamento può compromettere l’apprendimento, alterare il comportamento sociale e modificare le strutture cerebrali sottostanti questi comportamenti.
La ricerca suggerisce che l’isolamento prolungato, non solo produce danni psicologici, ma altera in modo significativo la struttura del cervello.
La dott.ssa Huda Akil, Docente di neuroscienze presso l’Università del Michigan, ha studiato gli effetti delle emozioni sulla struttura del cervello ed in particolare l’effetto degli ormoni dello stress.
Secondo i suoi studi gli ormoni dello stress, portano a cambiamenti significativi nella struttura dell’ippocampo. Come ricordiamo l’ippocampo controlla le modalità con cui i nostri sensi sono tradotti nel resto del cervello ed è responsabile della nostra relazione con lo spazio esterno.
Gli ormoni dello stress, possono riscrivere il programma del DNA e ricablare il cervello. Questi effetti ormonali sull’ippocampo cambiano la percezione dello spazio e il posizionamento direzionale. Il “GPS” interno del cervello viene disturbato e la percezione della profondità alterata.
Il disorientamento che vivono i detenuti una volta usciti di prigione, è coerente con il danno all’ippocampo.
L’isolamento sociale prolungato porta a gravi conseguenze dal punto di vista emotivo, cognitivo e sociale: si registra un aumento del 26% del rischio di morte prematura, aumento della pressione sanguigna, e dei processi di infiammazione. Aumenta inoltre il rischio di suicidio.
In conclusione, lo stress cronico legato all’isolamento sociale, danneggia l’ippocampo che a sua volta produce alterazione nei processi di memoria, di orientamento spaziale e di regolazione delle emozioni.
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