Prologo
«Ispettore Meyer, venga, da questa parte.»
Entrando nell’appartamento al secondo piano, al numero 18 di Noymburger Straße, due sono le cose che mi colpiscono: l’odore pungente di fiori marci e l’immagine che lo specchio all’ingresso mi restituisce, quella di un uomo che pare più vecchio dei suoi cinquantadue anni, con gli occhi infossati e una calvizie che ormai da tempo dispero arresti il suo corso.
È il primo giorno di primavera e, nonostante l’aria non abbia risentito del cambio di stagione, ho sostituito il soprabito imbottito con quello più leggero. Come ogni anno, me ne pento fin dall’istante in cui metto piede fuori casa, ma del resto… un’abitudine è un’abitudine.
La temperatura dell’appartamento è calda, anche troppo per i miei gusti, e mi sfilo il soprabito dando un rapido sguardo in giro.
L’ingresso affaccia direttamente sulla sala, luminosa, ricca di quadri e di fotografie con un denominatore comune: i paesaggi. Su un tavolo noto il vaso dal quale proviene l’odore: mi sembrano camelie, ma non sono io l’esperto. Dovrei chiedere a mia moglie, lei ha la passione per le piante e i fiori; in questo momento è in viaggio verso la montagna con nostra figlia, per trascorrere quella settimana di ferie che ci stavamo pregustando da tempo, prima che una chiamata dividesse le nostre strade: «Per favore, Aaron, non ho mai visto niente di simile. Ho bisogno del tuo parere e magari…».
«Ispettore, i calzari!»
«Come?»
«I calzari» ripete sorpreso l’agente indicandomi un angolo vicino alla porta d’ingresso.
Scuoto la testa dandomi una pacca sulle gambe, quindi mi chino e li indosso.
Mentre percorro il corridoio nella direzione che mi indica, incrocio un giovane agente, bianco in volto, che si allontana in tutta fretta nella direzione opposta alla mia.
A ogni passo un odore acido sempre più pungente riempie le mie narici, fastidioso al punto che vorrei mettermi un fazzoletto sul naso, ma evito di farlo, a volte anche l’odore è un indizio.
L’agente che mi ha ricordato di indossare i calzari si trova sulla soglia di una camera, tiene lo sguardo fisso sul mio, forse per evitare di voltarsi verso l’interno.
La mia camminata è attutita dalla moquette, uno dei faretti del soffitto tremola in un riverbero fastidioso. Prima di entrare studio il poliziotto, lui sostiene il mio sguardo senza dire nulla, ma deglutisce con fatica.
In vita mia mi sono occupato di molti omicidi, ho analizzato campioni e studiato scene del crimine elaborate, eppure, stavolta, ho la sensazione che sarà diverso.
La conferma arriva un attimo dopo, quando compio quell’ultimo, pesantissimo passo. Se la mia mente si aspettava qualcosa di macabro, con sangue alle pareti o un corpo fatto a pezzi, rimango invece sorpreso, perché è di tutt’altra natura l’orrore che mi si presenta.
«Aaron, perdonami se ti ho chiamato, lo so che a quest’ora dovevi essere in viaggio…»
È Karl a parlarmi, prima ancora che io possa notare la sua presenza. È un ispettore più giovane di me e, a differenza mia, dimostra anche meno della sua età. Siamo colleghi da anni, ma amici da due.
«Non ti preoccupare, cosa mi sai dire?»
«Ben poco: si chiamava Fabrice Montreaux, un fotografo paesaggista. Era ospite di un amico, il proprietario di casa, un certo… Derek Dietrecht. L’abbiamo contattato, era via da un paio di settimane per un viaggio di lavoro. Dalle foto che ci sono in giro pare che ci fosse una storia tra i due, e la reazione che ha avuto appena ha saputo sembra confermarlo. Rientrerà col primo volo disponibile.»
«Chi vi ha chiamato?»
«La donna delle pulizie, viene una volta la settimana. Stamattina ha cercato di entrare, ma le chiavi erano inserite dall’interno. Ha suonato e bussato più volte, poi, temendo un malore dell’inquilino, ha chiamato noi. Quando siamo arrivati, questo è ciò che abbiamo trovato.»
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Faccio un cenno d’assenso senza smettere di guardarmi in giro: «Mmh… quindi la porta è stata chiusa dall’interno».
«Già, e per inciso, anche le finestre sono sigillate.»
Mi esce un grugnito di disappunto; metto la mano nella tasca sinistra dei pantaloni, dove tengo un pacchetto con un’unica sigaretta, quella che ho promesso a mia figlia di non fumare mai. Infilo allora la mano nella tasca destra e ne estraggo un altro pacchetto, questa volta di gomme da masticare.
«Il medico legale?»
Karl solleva le sopracciglia scuotendo il capo, di certo scontento per quanto sta per dire: «Non ha detto un granché».
«Cioè?»
«Non ha idea delle cause, dell’ora, di niente. Forse solo l’autopsia potrà aiutarci.»
Due agenti fanno il loro ingresso e si affiancano alla poltrona, sulla quale giace come un sacco vuoto il corpo del fotografo. Ci osservano per ricevere l’autorizzazione a prelevare il cadavere, ma l’ispettore li ferma chiedendogli ancora qualche minuto, e io so il perché.
«Dunque, Karl, ricapitoliamo: un fotografo francese in visita al suo amico è stato rinvenuto morto in seguito alla segnalazione della donna delle pulizie, questo mentre il proprietario di casa si trova in viaggio. L’appartamento è chiuso dall’interno, tutto pare in ordine, senza tracce evidenti di colluttazione. Verrebbe da pensare che la vittima non sia riuscita a opporre resistenza e che l’assalitore abbia raggiunto l’obiettivo con l’omicidio.» Torno a fissare il cadavere, un’immagine che non dimenticherò facilmente. «Hai visto gli occhi?»
Il collega fa un verso di disappunto: «Occhi carichi di terrore».
«Infatti, terrore e dolore. Non credo che l’obiettivo principale fosse ucciderlo, ma ciò che avrebbe preceduto quel momento.»
«Pensi a un serial killer?»
«Forse… o magari a un qualche tipo di rituale.»
Mi distraggo a pensare a mia figlia, una nuova vita giunta come un regalo inaspettato quando ormai con mia moglie disperavamo; e guardo colui che un tempo era un uomo, con speranze, desideri, quella passione per la fotografia e per i paesaggi.
Come sono riusciti in questo scempio, e perché?
Il silenzio si prolunga fin quando non mi volto verso Karl, che tiene lo sguardo basso e si tormenta una mano, rimuginando su una domanda sospesa che fatica a uscirgli: «Aaron, abbiamo a che fare con un folle… lo sai che dobbiamo fermarlo il prima possibile, vero?».
Ecco, ci siamo.
«Karl, lo sai quello che mi costa ogni volta…»
Evita di guardarmi perché sa benissimo cosa voglio dire. Lo sa dal giorno in cui ho ritrovato sua figlia, due anni fa, dopo che era stata rapita all’uscita di scuola da un uomo reso folle dalla perdita della propria bimba.
«Lo so… ma se fosse solo il primo? Se l’assassino stesse già progettando la sua prossima mossa e…»
«D’accordo, d’accordo… tanto lo sappiamo tutti e due che l’avrei fatto.» Gli rivolgo un sorriso che cerca di nascondere la preoccupazione. «Per quale motivo avrei fatto il poliziotto, altrimenti? Non fare entrare nessuno, mi raccomando!»
Karl annuisce, e un attimo dopo si posiziona all’ingresso della stanza.
Mi accovaccio e allungo la mano verso il braccio del ragazzo, tocco quel corpo incartapecorito, leggero. Solo il viso, con l’orrore che gli è rimasto impresso, ha mantenuto la sua forma; per il resto, si tratta di un guscio vuoto, afflosciato su se stesso, privato della struttura ossea.
Raccolgo l’orologio scivolato sulla moquette, a pochi centimetri dai piedi scalzi del proprietario. Ha un quadrante analogico con la data del 20 marzo 2016, appena coperta dalle lancette, che in questo momento segnano le nove e diciotto; il cinturino in pelle non lo rende meno freddo, così come la lancetta dei secondi in movimento non lo rende più vivo. Quel contatto mi provoca un brivido lungo la schiena, ma non è ancora il momento di affrontare l’orrore, di calarmi nel buio della morte.
Mi sollevo e vado verso la finestra: i lampeggianti e le transenne tengono lontani i curiosi, ancora oltre un automobilista gesticola con un poliziotto indicandogli il palazzo di rimpetto al mio. Traggo un profondo respiro prima di tornare a fissare Karl, quindi il cadavere, poi un punto imprecisato del soffitto: sono pronto!
Stringo le mani sull’oggetto avvolgendolo come un passerotto infreddolito e chiudo gli occhi. Il buio mi avvolge per diversi secondi prima che la luce prepotente del sole che invade la stanza mi riporti indietro di quattro giorni. Partecipo alla scena da spettatore, una presenza invisibile agli occhi dei protagonisti, che tuttavia non mi risparmia la sofferenza, seppur attutita dall’esperienza, del proprietario dell’oggetto. E, condensate in pochi attimi, rivivo le ultime ore di vita di Fabrice Montreaux.
Quando riapro gli occhi sono disteso a terra, senza essermi accorto di averlo fatto. Karl gesticola, ma non riesco a sentirlo. Mi spostano su una barella, con lui che mi stringe il braccio, mentre le forze mi abbandonano.
In un sussurro, con una voce che fatico a riconoscere come la mia, gli dico: «Sa… Satoru Nakamura… il mio telefono… contattalo… digli di venire qui a Monaco». Poi perdo i sensi.
annamarchi123 (proprietario verificato)
Bel libro, personaggi sviluppati bene che ti fanno immedesimare nella storia e prendere le parti ora di uno ora di un altro. I continui colpi di scena ti confondono e ti fanno dubitare di cosa sia reale o meno, di chi sia nel giusto e chi no. Mi sono molto immedesimata nel personaggio di Lana, complessa e combattiva. Complimenti davvero. Sebbene il finale sia autoconclusivo, lascia spazio ad un proseguo che mi auguro vivamente.
vincenzo listto (proprietario verificato)
Volevo aspettare di ricevere la copia cartacea ma la lettura della bozza mi ha incuriosito e l’ho finito. Storia scritta bene, con molti colpi di scena. Quella che sembra una cosa scontata, si rivela l’esatto opposto. L’elemento fantasy si inserisce molto bene con la realtà. Sono favorevolmente sorpreso
Sonia Maiolo (proprietario verificato)
Libro dalla lettura scorrevole e piacevole. Conosco l’autore avendo già letto il suo primo romanzo e in questo secondo trovo una storia ancora più intrigante e avvincente. All’inizio mi domandavo come delle storie così separate potessero unirsi. Arrivata alla fine tutto si incastra egregiamente. Complimenti e in bocca al lupo.