Cap. 1
Era nato tutto come un progetto dell’agenzia aerospaziale.
Nel 2079 venne inviata una prima missione su Marte.
I motori a propulsione nucleare, proposti quasi 150 anni prima da Stanislav Ulm, avevano finalmente trovato un campo di applicazione, dopo aver miseramente fallito sia nel progetto Orion che in Dedalus. La possibilità di rilasciare particelle nucleari, per quanto in minima parte, all’interno dell’atmosfera era stata bandita dai trattati internazionali, ma con l’istallazione della nuova stazione orbitante intorno al nostro pianeta, la navetta poteva essere assemblata in loco, e le prime testate nucleari rilasciate dopo una spinta propulsiva data da un congegno che sfruttava l’effetto fionda. Da lì in poi era spazio profondo; niente regole, niente trattati, niente interferenze dell’opinione pubblica, solo il vuoto e le leggi della meccanica. Ad ogni testata fatta detonare alla distanza di sicurezza, il disco posto alla poppa della nave avrebbe ricevuto la spinta sufficiente per raggiungere Marte in un mese. In realtà i progettisti si erano rivelati un po’ troppo ottimisti sulle tempistiche. Avevano tralasciato un piccolo particolare: le esplosioni dovevano avere una portata molto ridotta per dare la possibilità agli astronauti di cablare ed evitare di finire dispersi nel vuoto. In secondo luogo, avevano calcolato la massa del modulo per arrivare su Marte, ma non per fare ritorno e la NASA non approva missioni che non prevedano un piano per riportare i suoi uomini a casa.
Il viaggio, con i motori finalmente perfezionati, era di ventisette mesi e quattro giorni. Tredici mesi due settimane e 3 giorni per percorrere lo spazio che divide il terzo e quarto pianeta del sistema solare, altrettanti per il ritorno.
Apparentemente era un arco di tempo che un equipaggio rodato e ben preparato, che aveva superato ogni test medico e psicologico, avrebbe potuto affrontare, senza incorrere in troppe difficoltà. Anche perché l’addestramento svolto e la selezione che avevano passato era senza precedenti.
Un gran numero di risorse vennero investite per creare una apposita struttura, nelle vicinanze di San Antonio, dove si sperimentavano sui candidati al viaggio stellare tutte le condizioni più estreme. Ogni pilota venne sottoposto a privazione di cibo, e alimentato solo con acqua arricchita di aminoacidi e complessi vitaminici. Vennero tenuti per lungo tempo in vere e proprie celle, al buio e al silenzio senza nessuna possibilità di interazione con alcun essere vivente. Vennero stipati a gruppi di tre in ambienti anche più angusti del modulo marziano, e sottoposti a sedute di addestramento ininterrotte per giorni. Si premurarono anche di creare delle simulazioni di volo che fossero volutamente fallimentari e di alterare le letture dei sensori in modo che a turno ognuno dei tre si sentisse colpevole del fallimento o vittima dell’incompetenza dell’altro. Studiarono a fondo le risposte agli stimoli negativi, come in una gabbia di Skinner, e videro chi collaborava e chi perdeva il controllo e si rivoltava contro il resto dell’equipaggio.
In fine furono sottoposti a sedute di deprivazione sensoriale in apposite vasche sul modello di quelle progettate da John Lilly, ma se l’obiettivo medico di queste era di provocare stati alterati di coscienza e modificare lo il pattern bioelettrico del cervello, i medici della NASA, erano alla ricerca di persone che potessero fronteggiare la deprivazione di stimoli rimanendo vigili, senza cadere in uno stato semionirico. Alla prima comparsa di onde theta o delta si veniva depennati.
Il percorso all’andata fu completato con successo, benché come per gli allunaggi delle navette Apollo, alla fine il risultato non era stato che l’approdo in un paesaggio desertico, inospitale e privo di qualsiasi forma di vita.
A quel tempo prestavo i miei servigi come stagista, non retribuito, in una compagnia che curava l’immagine di una casa produttrice di alcolici.
Durante la missione del Minerva 1 erano tutti in fibrillazione all’interno della compagnia. Vi sarebbero stati dei collegamenti televisivi durante il viaggio e più importante ancora, al momento dell’approdo sul pianeta rosso. Gli spazi pubblicitari erano pochi e molto costosi. La mia compagnia non avrebbe mai potuto coprire le spese e rientrare nel bilancio. Dopo interminabili ore di discussioni sul nulla, decisi di intervenire, più per noia che perché credessi veramente a quello che stavo dicendo. Volevo solo rompere lo stallo e tornarmene a casa. Le parole mi uscirono di bocca come fossero pronunciate da qualcun altro e per qualche secondo rimasero nell’aria simili alla nuvoletta di un fumetto, che attraversava come una lama affilata lo scambio di sguardi attoniti e perplessi del resto dello staff, improvvisamente caduto nel silenzio assoluto.
- Non compriamo spazi pubblicitari ne su reti nazionali ne su reti statali per il viaggio di andata ne per il momento dell’arrivo. Teniamoci i soldi da parte, e quando tutto andrà bene e gli ascolti crolleranno, ricompreremo spazi per il viaggio di ritorno a prezzi stracciati.
Non vinsi il premio Nobel per l’economia, ma funzionò anche troppo bene.
L’aver previsto che gli ascolti televisivi sarebbero crollati, dopo il corretto approdo del modulo, senza schianti ne drammi al cardiopalma, come vi erano stati per la missione dell’Apollo tredici, aveva attirato l’attenzione del capo della mia sezione e dato il via alla mia rapida ascesa nelle file di quella azienda.
I problemi sul Minerva 1 sorsero inaspettati nelle settimane durante le quali si svolsero le manovre di rientro dal suolo marziano.
Gli spazi pubblicitari li avevamo ricomprati ad un sesto del valore iniziale ed ora valevano 10 volte tanto.
Gli astronauti cominciarono a soffrire di una strana e devastante forma di insonnia. Pare che il responsabile medico della stazione a Houston sia arrivato persino a minacciare i piloti e il navigatore, affinché dedicassero almeno qualche ora al riposo. Inizialmente il capo missione disse che come al solito ingegneri e medici non andavano d’accordo. Chiese al collega con il caduceo ricamato sulla divisa, di essere più elastico, di comprendere lo stress del volo, specie in condizioni così anomale.
Ci furono degli inconvenienti tecnici durante la breve sosta sul suolo extraterrestre del colore della ruggine. In principio credettero che si trattasse di banale ansia, dovuta all’incertezza che quegli insoliti, ma tutto sommato, tollerabili problemi alla strumentazione, aveva scatenato in un gruppo di persone ben addestrate, ma pur sempre umane.
Del resto avevano svolto il più lungo viaggio nello spazio nella storia dell’uomo fino a quel momento. Non tutto era prevedibile; non si poteva simulare nei centri di Houston ogni situazione. Il problema era che l’insonnia era comparsa prima che i sensori segnalassero dei guasti.
I dati dell’equipaggio sul monitor medico andarono però drammaticamente peggiorando, raggiungendo livelli critici. Benché essi affermassero di dormire, il medico dell’agenzia spaziale aveva dati in abbondanza per essere più che sicuro del contrario.
Non vi fu modo di imporre loro di lasciarsi cadere fra le braccia di Morfeo.
Dopo qualche tempo la lucidità e la capacità decisionale sulla navetta vennero meno. Per alcuni giorni si temette il peggio. La missione sembrava irreversibilmente compromessa.
Non si può stare più di trenta giorni senza chiudere occhio.
Benché non sia noto all’opinione pubblica per ovvi motivi di facciata, tutti gli astronauti, Gagarin compreso, non avevano a loro disposizione solo aspirina e paracetamolo. I sovietici per primi, quando la guerra fredda imperversava e i lanci nello spazio erano un forte ed efficace strumento di propaganda, sapevano che chi andava nello spazio necessitava di tutti gli aiuti possibili per mantenere concentrazione e sangue freddo qualsiasi cosa fosse accaduta. C’è chi sostiene che persino la cagnetta Laika, subì una iniezione di tranquillanti perché salisse sulla piccola navicella a lei dedicata. Nessuno è a conoscenza del numero di lanci approvati dal Cremlino che non sono andati a buon fine. Vi sono state delle teorie sul numero di vittime senza nome del programma spaziale dell’URRS, ma nessuna certezza. Ogni volta che un particolare passo dell’internazionale veniva suonato dalla orchestra ufficiale del partito, i meglio informati sapevano però, che un pilota russo spiccava il volo verso l’ignoto. Persino dei radioamatori italiani e francesi, ricevettero dei segnali disturbati e disturbanti di persone che imploravano aiuto dallo spazio profondo, che chiedevano una pietà che non sarebbe mai stata data loro. Per il partito comunista era uno smacco troppo grande non trovare il successo prima degli americani, ma nascondere la morte straziante di compagni devoti era un lusso che non si poteva permettere. Il dottor Kirilenko, ex medico del KGB, decise perciò che ad ogni missione, venisse data la possibilità all’equipaggio di togliersi la vita senza provare troppo dolore, sul modello che aveva sviluppato nel campo spionistico, durante le situazioni di tortura, non per il bene dei suoi pazienti, ma per il buon nome della sua patria. I regimi totalitaristici non ammettono sbagli né fallimenti. Quelle voci lontane, ma così evocative di solitudine, di debolezza, di spirito di autoconservazione non dovevano più esistere. Cianuro per farla finita in tempi brevi, ansiolitici per affrontare le paure del viaggio, sonniferi per riposare a comando e anfetamine per reggere lo stato di iperattività per un tempo prolungato. Due potenze contrapposte si specchiano l’una nell’altra molto più spesso di quanto vogliano far credere e di rado non trovano elementi di fascinazione l’una nell’altra. Gli USA non ci misero molto ad ispirarsi al modello sovietico per i viaggi spaziali e anche se la rivalità si era assopita da un secolo, i protocolli di volo erano rimasti sostanzialmente invariati.
Quando gli astronauti finirono il cospicuo numero di stimolanti, che erano stati, forse con troppa leggerezza, inseriti nel kit sanitario della nave, finalmente tutti i membri della MINERVA 1 caddero in un sonno profondo.
Uno degli assistenti a Houston disse che sia il capo missione su terra, che l’ufficiale medico, accolsero la comparsa delle prime onde TETA sull’EEG con un sospiro di sollievo, seguito da gesti di inconsulta esultanza, compreso un abbraccio fra i due.
Nelle settimane che seguirono vi furono sporadiche manifestazioni di insonnia similari, ma mai altrettanto gravi o prolungate.
Soprattutto per quanto riguarda il tenente di corvetta Mckain, tali sintomatologie atipiche, si procrastinarono fino al rientro della capsula, in pieno Pacifico.
Tutto questo non venne reso noto a nessuno.
Secondo il mondo intero l’uomo era giunto fino al pianeta rosso e aveva fatto ritorno con qualche piccolo problema tecnico a rendere il giusto dramma, ma mai sarebbe stato accettato un problema umano. Quegli uomini erano eroi, senza paure, senza difetti, la sintesi di tutti i pregi dell’americano dalla mascella quadrata.
Giunti a terra, un aiuto tecnico al progetto del modulo, il dottor Cooper, volle però prendere in esame tutte le registrazioni di quei giorni nei quali il su gioiello aveva dato quei piccoli problemi. Non vi erano stati guasti, ne errori nella progettazione; esaminando attentamente i dati giunti alla centrale operativa di Houston era ormai chiaro che erano stati manomessi. Quando andò dal responsabile in capo della missione fu invitato a lasciar perdere con le sue indagini. La missione era terminata, era stata un successo, null’altro importava.
Lo stesso giorno, il mentore di Cooper, assediato dai media e capro espiatorio di tutto quello che era andato storto su Marte, si tolse la vita.
Cooper si dimise pochi giorni dopo, ma si portò dietro, insieme ai suoi effetti personali, tutto il suo materiale di ricerca. Nei mesi successivi quelle registrazioni divennero una ossessione. Nulla sembrava razionale, nulla spiegava cosa fosse realmente accaduto agli strumenti da lui stesso progettati. I dati erano però distorti, qualcosa nel suo progetto non era stato calcolato. Nessuno seppe mai quale reazione ebbe Cooper quando scoprì la verità. Non si trattava di un incidente, né di un suo errore. Uno o più membri dell’equipaggio avevano tentato di sabotare la missione. Erano stati loro la fonte dei problemi fin dall’inizio, ma il perché Cooper non lo seppe mai. Mandò un rapporto al centro medico della NASA e scomparve nel nulla.
Vennero concessi 10 mesi di licenza agli astronauti tornati, ma solo a patto di non fare alcuna menzione di ciò che era avvenuto.
Non fu difficile avere la loro completa disponibilità e non solo perché erano soldati ben addestrati e devoti al programma spaziale. Due di loro infatti non sembravano ricordare nulla di quei terribili ventidue giorni ne delle falle tecniche del modulo; avevano un’amnesia retrograda e settoriale, relativa ad un arco di tempo molto ristretto; una condizione patologica teorizzata, ma mai riscontrata nella realtà.
Il terzo, Mckain, non aveva la minima voglia di parlare del suo problema di insonnia. Ogni tentativo che l’equipe medica aveva sperimentato era miseramente fallito. Cercarono nuovi approcci, persino l’ipnoterapia, che era ormai considerata una pratica da sciamani, una peculiarità della decaduta cultura new age, ma invano.
La domanda che tutti si ponevano era quali terribili incubi dovessero aver avuto i tre della missione Minerva 1 per rifiutarsi di dormire fino a mettere a repentaglio la loro salute e il buon esito della loro missione.
Mckain non volle mai dirlo; appena si accennava al discorso iniziava a vaneggiare con frasi di senso incompiuto e gesti inconsulti.
L’ipotesi più gettonata era che, presa coscienza di un sabotatore a bordo, i tre avessero cominciato a sviluppare uno stato di paranoia tale da rendere impossibile abbassare la guardia anche solo per qualche ora di sonno. Di certo nessuno si fidava più di nessuno sul Minrva 1, tutti si scrutavano con sospetto. Quando Mckain aveva cominciato a scrutare con sospetto la sua stessa immagine riflessa, i suoi nervi erano crollati. Era una spiegazione valida e razionale, ma lontana dalla verità.
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