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Il Filo Bianco

Il Filo Bianco
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Consegna prevista Marzo 2024

Dustville è una città in bianco e nero, l’unico colore concesso è quello del sangue; è una metropoli corrotta nel profondo in cui nessuna strada è sicura, soprattutto se pattugliata da poliziotti. Ad aver inquinato Dustville di mazzette e violenza è stata la famiglia Kray ma, sebbene all’apparenza regni l’equilibrio, la verità è che qualcosa di ancor più malvagio s’è insediato in città da anni nutrendosi della violenza e della corruzione che l’ha cullato fin dalla nascita. E quel nucleo di malvagità porta il nome di un nemico storico dei Kray: Nana Yoshima, un incubo o, forse la salvezza, per Dustville e per chi la abita. Da quando ha perso tutto, Nana non fa altro che sfidare l’autorità di Roger Kray. Numerosi sono i suoi tentativi di assassinarlo, ma nessuno di questi è mai andato in porto. Eppure, la storia sembra cambiare quando proprio uno dei figli del capo gli si rivolta contro, cercando alleanza in quella ragazzina disposta a far da kamikaze pur di compiere la sua vendetta.

Perché ho scritto questo libro?

Dustville è quell’angolo di mondo in cui gli stereotipi sono forti e brutali. I personaggi che lo abitano sono caratterizzati dalla fame di vendetta, ma sono innanzitutto umani, tesi al limite all’interno di un ambiente che li terrorizza e a cui sono stati costretti ad abituarsi. L’esigenza di scrivere questa storia, credo sia nata proprio dalla necessità di creare delle caricature di esseri umani e renderli quanto più fumettistici e stereotipici possibile. Per esorcizzare, forse, le mie paure.

ANTEPRIMA NON EDITATA 

1

Dwight era a malapena un marmocchio quando il grosso mantello della morte s’aggirava per casa. Il suo regalo a otto anni, il primo di cui ha ricordo, era una Smith & Wesson 44 magnum argentata. Un gioiellino, una figata pazzesca, per qualunque incosciente bambino cresciuto in quell’ambiente… meno che per lui. Mai aveva apprezzato l’utilizzo della violenza, ma suo padre non accettava che potesse comportarsi da “checca”. Così, a suon di sberle, aveva tentato invano per anni di risvegliare i geni di famiglia, come se la mela marcia dell’albero genealogico fosse lui. C’erano stati momenti in cui Dwight aveva ceduto, costretto dal dolore fisico causato dalle mille torture che l’aguzzino si inventava ogni giorno. E dopo il suo primo omicidio, qualcosa si era rotto in lui.

La vendetta ribolle oggi nelle sue vene, il desiderio di fargliela pagare e di farsi giustizia da solo, contro l’uomo più potente della città, lo tiene sveglio ogni notte… be’, eccetto questa. Era stata una giornata impegnativa per lui, come lo erano state quelle della settimana precedente. E sebbene abbia tentato di ignorare la venuta di Morfeo, egli aveva vinto. Sono infatti le tue palpebre, con perfetto tempismo, a schiudersi per prime; come due serrande, lasciano che l’occhio si abitui pian piano alla soffusa luce dell’abat-jour in fondo alla stanza. Di fianco a essa, un uomo ben piazzato giace su una poltrona. Impieghi qualche decina di secondi a inquadrarlo bene e, anche una volta trascorsi, la tua vista rimane offuscata, in parte persino di una tinta differente simile al rosso. Ma quel viso tu lo conosci, seppur ti sfugga il nome. Dorme ignaro del tuo risveglio, con un pollice tra le pagine di un libro dal nome “L’ultima carta è la morte”. I ciuffi neri come la pece coprono la fronte corrucciata e le maniche della camicia arrotolate e sgualcite al di sopra dei gomiti mostrano cicatrici indelebili che persino la tua debole vista riesce a notare.

E tu? Tu non eri morta?
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Ti metti a sedere tra le lenzuola di cotone bianco, ripercorri gli eventi, trasalisci al suono del grilletto. Ti ha sparato, ti ha colpita dritto in mezzo agli occhi. O forse no?

“Hai il chiodo della vendetta fisso nella testa, ti ha offuscato la ragione. Credevi di poter entrare in casa mia, puntarmi un coltello alla gola e intagliarci un bel sorriso da orecchio a orecchio senza che i miei se ne accorgessero? È un piano da romanzo, Clara. Non funziona così questo mondo. A Dustville la giustizia si compra.” Quelle erano state le ultime parole che il tuo cervello aveva elaborato, le ultime di cui oggi possiedi un ricordo. Dopo di esse, il buio… un buio che si è dimostrato essere la tua salvezza poiché, a causa della violenta lotta col bestione e della pressione emotiva subita all’interno dell’ufficio, avevi perso conoscenza. Eri crollata all’indietro nell’esatto momento in cui il proiettile aveva colpito il tuo petto e a tal punto nessuno s’era accertato della tua morte. Ti sfugge il motivo tanto dell’assenza di controllo quanto della zona colpita dalla pallottola, ma non hai tempo di rifletterci, te ne occuperai in seguito.

La tua mano non attende alcun comando. Si solleva, prende il controllo di sé e raggiunge la zona colpita. Non entri in contatto con nulla se non con la fasciatura umida di sangue e la stoffa della maglietta con cui hai dormito. Ma sai di esser stata incredibilmente fortunata, perché una ferita tanto profonda avrebbe potuto ammazzarti se avesse mirato meglio o se solo non avessi avuto cure mediche così tempestive. Pare evidente ormai che l’uomo in fondo alla stanza abbia avuto un ruolo rilevante nella tua salvezza. Ciononostante, non ti concederai mai il lusso di fidarti ciecamente.

Scruti attorno a te, cercando di delineare gli oggetti che ti circondano con l’aiuto della poca luce artificiale. Devi andartene da lì. Colui che dorme davanti ai tuoi occhi non è altro che un estraneo di cui sei quasi certa di aver già visto il volto. E non conosci molta brava gente… meglio non rischiare. I piedi nudi e addormentati formicolano appena nel sentir il pavimento freddo a contatto con le loro piante. Tenti di risvegliarli, ma non ne vogliono sapere, non nell’immediato futuro. Dunque come scappi senza l’ausilio delle gambe?

Passi al piano b: l’arma che hai visto spuntar fuori dal cinturone attorno ai fianchi del bell’addormentato. Devi raggiungerla, devi usarla per difenderti in caso si svegliasse prima che tu possa superare la soglia. Atterri sui glutei e cominci a gattonare verso l’obiettivo. La regressione allo stadio infantile almeno funziona, ti consente persino una dignitosa agilità. E una volta vicina a sufficienza decidi di allungare la tua mano, quella che ha già dimostrato di esser reattiva e che dunque sfiora l’impugnatura della pistola senza troppe cerimonie. Sollevi lo sguardo, punti gli occhi come torce sul viso del moro e… merda. Ti sta fissando. Ti fissa come un coccodrillo fisserebbe un uccellino posato sul proprio muso. Ti si raggela il sangue, ma non lasci che ciò ti paralizzi.

La mano afferra d’impeto e violenza l’arma, estraendola dalla cintura prima che lui possa anche solo pensare di fermarti. Ma con gran sorpresa, quando punti la canna contro di lui, ti rendi conto che non ha mai avuto l’intenzione di contrastare i tuoi gesti. Ora si raddrizza sulla sedia, posa il libro sul comò, esattamente sotto l’abat-jour e reagisce calmo alla minaccia che gli poni.

“Non lo farei se fossi in te.” È tutto ciò che ha da dire. Attendi una spiegazione, ma non arriva. Non fino a quando non abbassi la levetta della sicura. ”Ma sì. Spara.” Ti esorta con tono di sfida, esausto, potresti dire sia persino divertito dal tuo tentativo di incutere timore. Dopo un breve accenno di risata, ti porge la spiegazione migliore che riesce a imbastire. “Sono passati sette giorni da quando si sono resi conto che manca all’appello il tuo cadavere. E ora sulla tua testa c’è una grossa taglia. Hai tutta Dustville contro. Se ti trovassero, farebbero qualunque cosa pur di portarti da Roger Kray… viva o morta. E senza di me, non hai dove nasconderti.”

“Chi ca–”sette giorni. Lo avevi già dimenticato. Sette giorni senza parlare sono tanti e adesso che la voce ti si strozza in gola lo sai. Tossisci, due, tre, quattro volte prima che il moro ti passi una bottiglietta d’acqua che teneva vicino. La afferri con la mano libera, ancora seduta ai suoi piedi e con la canna della pistola in bella mostra. Ti prendi un buon mezzo minuto per finire tutta l’acqua che vi era rimasta all’interno, accartocci la bottiglia e la getti dove capita prima di ritentare la domanda. ”Chi cazzo sei tu?”

“Puoi chiamarmi mio salvatore. Non mi dispiacerebbe un po’ di riconoscenza.” Sbruffone, arrogante e dal pessimo umorismo. Non gli devi niente, lo decidi nel preciso istante in cui scrolla le spalle e abbassa gli angoli della bocca in una smorfia.

“Nome!” Lo ammonisci bruscamente, agitando l’arma con furore. Lui sospira, si stropiccia gli occhi, ci pensa su e poi ammette la sua identità. ”Dwight.”

Dwight. Dwight Kray. Ecco perché avevi già visto la sua brutta faccia.

Tutti conoscono Dwight Kray, più di quanto si conoscano i suoi fratelli. Chi ti siede di fronte è il primogenito prediletto della famiglia, un uomo attorno al quale aleggiano leggende di ogni tipo: per qualcuno è un ribelle, la pecora nera, un rivoluzionario con l’obiettivo di spazzar via l’impero del padre; per altri, a partire dal caro vecchio Roger stesso, un sicario infallibile, il futuro erede, l’uomo più spietato che Dustville conosca. Tu a quale versione credi? Hai sempre preferito optare per la seconda, diffidente come sei, ma non neghi di aver sperato. E vederlo in quella stanza al tuo improbabile risveglio ti fa sentire di non aver sperato invano.

“Un Kray che mi toglie la vita e uno che me la salva?” L’idea sembra far ridere anche lui, ma si trattiene. Puoi vedere l’ilarità sul suo volto per via delle sopracciglia inarcate e le labbra debolmente curve. Se fosse davvero nemico del suo stesso cognome, il destino avrebbe giocato davvero un brutto scherzo a Roger. E non può che farti piacere. ”Se lo dicessi in giro mi prenderebbero per pazza.” Concludi abbassando la pistola.

“Lo fanno già.” E approfittando del tuo gesto inoffensivo, tira fuori dalla tasca sigarette ed accendino. Glielo lasci fare, anche se detesti l’odore di nicotina nell’aria. ”Avrai delle domande. Sentiti libera di farle.”

Domande. Sì, ne hai molte in effetti. Accogli il suo suggerimento, ma non per questo abbassi le difese. Sempre in allerta, gli riservi un’occhiataccia minatoria, pronta a sollevare la pistola in qualsiasi momento. Che ti abbia aiutata o meno, non è sufficiente… potrebbe avere secondi fini e tu non sei la marionetta di nessuno.

“Tuo padre mi ha sparato. Erano pronti a seppellirmi.” Affermi l’ovvietà. ”Com’è possibile che io sia viva?”

“Ci ha pensato un bravo medico.” Taglia corto, ma non gliela dai vinta.

“Di Dustville?”

“Non proprio. Vive al confine da anni ormai. Incorruttibile, leale, nonché la più grande perdita dell’ospedale locale, a mio avviso. Esercita la sua professione per pochi, mentre per molti è un semplice meccanico.”

“Quindi siamo al confine.”

Dwight scuote la testa e getta il fumo dalla bocca, guardando in direzione della finestra. Le tende pesanti non consentono di guardare l’esterno, ma è lui stesso a darti la risposta che cerchi e non esita a farlo .”Non ancora. Siamo in un motel in centro.”

“Ed è sicuro?”

“Non ti senti al sicuro?” Chiede, tornando finalmente a rivolgere lo sguardo su di te. Riesce persino a scoprire i denti con un sorriso più ampio. Non sai se lo hai mai visto sorridere in qualche foto o apparizione pubblica, ma hai la sensazione che sia la prima volta.

“Non con un Kray nella stanza.”

“Eppure, sei tu quella con la pistola.”

D’un tratto ricordi di averla. Be’, non è che te ne fossi dimenticata, però quando Dwight te la fa notare avverti quasi un tono di rimprovero nei tuoi confronti, come se avessi fatto un errore ad abbassare la guardia. Risollevi la pistola, gliela punti contro ma stavolta miri al cavallo dei pantaloni. Sei stremata; hai ignorato la reazione del tuo corpo grazie alla scarica di adrenalina, ma non puoi più far finta di non provare nausea e labirintite, di avvertire un cerchio attorno alla testa e aver problemi a percepire la profondità e i colori. Fai uno sforzo – speri l’ultimo, almeno per il resto della notte – e tieni l’arma in una presa salda, il gomito trova sostegno sulla tua coscia, le spalle si sbilanciano appena e quella posizione torna vantaggiosa per squadrarlo meglio, per esaminare le rughe attorno alla sua bocca con cura minuziosa. ”Perché mi hai salvata? E perché mi sorvegli?” Riprendi l’interrogatorio, ma a differenza di ciò che dovresti incutere con l’arma in mano, sei quasi certa di scaturire nell’uomo una certa pietà. Ti guarda come si guardano i cuccioli in pena, ti studia come se potessi ferire più te stessa che le sue palle. Un’inetta. Una poppante. Incapace persino di premere un grilletto. O forse crede di essere in una botte di ferro, perché ti pensa in debito con lui. Giuri sul nome di tua madre, mai saresti stata in debito con un uomo, né tanto meno con un Kray.

“Non posso farlo perché ho una coscienza?”

“No.” Contrasti con forza il suo tono di voce intenerito. Eppure la sua domanda retorica ti sembra sincera. Come può un Kray possedere una morale? Come può esser spinto a salvare una vita umana dalla sola coscienza? Il tuo cervello non riesce a elaborare quel dato, lo risputa fuori come un distributore automatico fa con le banconote false. È questo che è: una banconota tarocca.

“È così però. Be’, hai anche un bel caratterino e sei abbastanza fuori di testa da andare contro morte certa pur di ammazzare mio padre. Mi sembrava un peccato lasciarti morire.”

“Avevo un buon piano.” lo fermi prima che possa andare oltre, mettendo i puntini sulle i, offesa dalla sua descrizione dei fatti. Ti deride, appunto, in seguito alla tua affermazione, regalandoti straordinariamente il secondo sorriso della serata e confermando i suoi pensieri ad alta voce. ”Permettimi di dissentire.”

È a quel punto che esplodi, permalosa, infantile, colpita nel segno. ”Non sapevo di Bobby. Chi cazzo è Bobby? È almeno umano? Quello scimmione mi ha distrutto la faccia.”

“La tua faccia sta bene, è solo ammaccata. Si rimetterà… almeno in parte.” ma non è così rassicurante sentirglielo dire. Ora che ci pensi la senti indolenzita, senti la pelle tirare quando muovi gli zigomi. Non sei affatto sicura di volerti guardare allo specchio. ”È una bella persona, un bravo soldato…” prosegue Dwight ”ma è fedele all’uomo sbagliato. Non per sua colpa.”

“Come può non esser colpa sua?”

“È una lunga storia.” Un velo di tristezza e malinconia cade sul volto del giovane uomo e, sebbene te ne importi ben poco, non riesci a percorrere quella strada. Anzi, ti ammutolisci proprio. È lui a dover riportare l’attenzione sulla tua domanda. Lo fa con schiettezza.

“Ma hai ragione, ti ho salvata anche per un altro motivo.” Ammette, portandoti a stringer più saldamente l’arma. Ti aspetti la fregatura, ti aspetti il ricatto, ma la bomba che sgancia riesce a spiazzarti. La sua sembra una promessa, una dolce promessa che riesce a metterti l’acquolina in bocca spazzando via il sapore di nicotina misto a sangue. E la fa guardandoti dritta negli occhi, non muovendo un solo muscolo, deciso, sicuro… sincero. ”Posso farti arrivare a Roger Kray. Posso fartelo incontrare… da solo.”

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Myriam Russo
Sono nata nel '96, tra i libri gialli e l'amore per la psicologia. Con il tempo ho sviluppato una grandissima attrazione per il cinema e questo, senza dubbio, ha influenzato il mio stile narrativo. I generi pulp, noir e gangster mi hanno completamente rapita, dandomi occasione di approfondire nel quotidiano (attraverso il corso universitario di scienze e tecniche psicologiche) la mia innata curiosità per ciò che si nasconde dietro i gesti più efferati dell'essere umano, ma anche di esorcizzare la crudeltà di tali gesti con l'utilizzo della penna e attraverso la potente arma dell'ironia. Ridere e fantasticare, in fondo, è forse l'unico modo che abbiamo per godere a pieno della vita.
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