Joe era in cucina mentre Liz, la moglie, serviva ai clienti il caffè caldo e prendeva le ordinazioni.
«Ehi Liz! Quand’è che lasci quel caprone di tuo marito e vieni via con me?!» disse Larry, uno dei più grandi amici di Joe e abituale cliente del Fitzdale; «mi spiace Larry, l’ho sposato e me lo tengo stretto, finchè morte non vi separi…hai presente?» rispose la donna con una risata guardando verso il marito.
«Beh allora mi toccherà sporcarmi le mani» disse l’uomo anziano divertito, sollevando il coltello che era appoggiato sul suo tavolino.
La risata di Joe, scoppiò fragorosa dal pass della cucina che si affacciava sulla sala, «sta al tuo posto Larry, o mi toccherà chiamare tua moglie», i clienti di passaggio del Fitzdale sorrisero a quella scena.
Era davvero impossibile trovarsi male in quel locale.
Persona particolare il vecchio Joe Fitzdale, afroamericano ormai sulla sessantina, fisico robusto, gestiva la caffetteria praticamente da quando era ragazzino; prima insieme a suo padre, poi da solo e a sua volta nel giro di qualche anno avrebbe passato il testimone al figlio Joe Jr, da poco ventiquattrenne.
L’uomo si vantava di avere una memoria incredibile, quasi come un superpotere. Una volta entrato nella sua caffetteria lui si sarebbe ricordato per sempre di te, del tuo viso e soprattutto di ciò che avevi ordinato, o almeno così raccontava ai suoi amici.
Fatto sta che fu proprio grazie a lui che lo sceriffo di Glenville, un anno prima, riuscì a risolvere un caso di rapina, avvenuto in una gioielleria a un paio di isolati da lì.
I due malviventi avevano avuto la brillante idea di attendere il momento propizio per il colpo proprio al Fitzdale.
Qualche giorno dopo la rapina, quando la polizia ricostruì gli spostamenti dei due ladri, lo sceriffo Swanson si presentò alla caffetteria chiedendo se Joe si ricordasse qualcosa di quella fatidica sera, l’uomo fornì un identikit preciso dei malviventi, arricchito anche dalla loro ordinazione, lasciando esterrefatto l’ufficiale e gli agenti.
Questo gli valse in primis i ringraziamenti ufficiali del sindaco e soprattutto un bell’articolo con tanto di foto davanti al suo locale, in prima pagina del Glenville’s Journal; una copia venne subito incorniciata e appesa con molto orgoglio sulla parete sopra il Jukebox con le foto ricordo del locale, con il padre ed il nonno e anche qualche personaggio famoso che si era fermato per un caffè al Fitzdale.
Joe prese la farina ed il latte dalla credenza sotto i fornelli ed inziò a preparare i pancake; la caffetteria era aperta già da un paio d’ore e ai tavoli c’erano giusto una decina di persone più qualche camionista al bancone con la loro tazza di caffè nero fumante. Liz si avvicinò al varco nel muro da cui Joe teneva d’occhio tutta la sala dalla sua cucina; «Joe, prepara anche un uovo strapazzato con doppio bacon per Larry» « Ehi Larry» urlò l’uomo «se continui a mangiare doppio bacon ogni mattina finisce che ti seppellisco prima io!»; dalla sala si levò una risata generale; Liz sorrise e schizzò a portare il caffè bollente al tavolo sei, come richiesto dai due signori in abiti distinti seduti comodamente sui divanetti color porpora.
Il caldo di inizio luglio iniziava già farsi sentire la mattina presto, soprattutto così vicino ai fornelli, Joe prese l’asciugamano appoggiato sulla sua spalla e se lo passò sulla fronte madida di sudore.
Il figlio di Joe, Jr, entrò in cucina di gran carriera legandosi il grembiule in vita alla bella e meglio; «altra bella nottata, eh Junior?!» disse in un tono a metà tra il rimprovero ed il sarcastico;
«scusa, ma non ho sentito la sveglia» rispose il ragazzo, ormai più alto del padre, con ancora con il viso assonnato e si diede subito da fare.
Padre severo ma generoso, concedeva spesso a suo figlio giorni di ferie e scorribande con gli amici, si fidava di lui e la fiducia era ben riposta; Junior era un tipo sveglio e amava la caffetteria proprio come suo padre, sapeva bene che un giorno sarebbe stata sua ma fino ad allora si sarebbe goduto la gioventù.
Liz stava tornando verso il bancone, quando la campanella posta sopra la porta di ingresso tintinnò, alzò lo sguardo e salutò con un sorriso cordiale, potevi vedere nell’espressione di quella donna la genuinità di quel gesto; era sincero e non costruito dopo anni di lavoro, Liz era così riusciva a scaldarti il cuore appena mettevi piede nel suo locale.
Il ragazzo dagli occhi scuri e con un borsone sulla spalla rispose con un cenno del capo e si andò ad accomodare al bancone sul primo sgabello libero.
Joe diede uno sguardo fugace a quell’individuo, senza perdere d’occhio la cottura dei pancake; doveva essere arrivato con l’autobus delle 8.30 dall’aeroporto, pensò tra sé e sè.
Alto circa un metro e novanta, fisico muscoloso, decisamente allenato, sembrava quasi un marine, ma non indossava alcuna divisa, solo una maglietta lisa di un grigio chiaro e un paio di jeans. I capelli castano scuro, tirati indietro e rasati corti ai lati, davano un’aria severa a quella figura che suscitò nell’uomo una sorta di inquietudine; qualcosa non andava in quel ragazzo; ma c’era qualcosa di familiare in lui.
«Posso portarti qualcosa giovanotto?» chiese Liz avvicinandosi al bancone; «del caffè freddo e doppie uova strapazzate con bacon, Grazie». Il ragazzo rispose senza alzare lo sguardo dal menù che aveva davanti, con voce profonda e calma «perfetto, arrivano subito» la donna si allontanò in direzione della cucina; «Junior, doppie uova strapazzate e bacon per il bancone per favore», il ragazzo si mise subito all’opera.
Joe corrugò la fronte «doppie uova con pancetta? Ha detto davvero così?» susurrò a Liz, «si, tesoro, perché?», l’uomo guardò i pancake che aveva sulla piastra davanti a sé perplesso «nulla cara, sarà solo una coincidenza», la donna fece spalluce e corse dall’impaziente Larry con il suo piatto.
Joe finì la cottura dei pancacke, in modo del tutto automatico, dopo così tanti anni sapeva riconoscere se erano cotti anche solo dal suono dell’impasto sulla piastra bollente;
Pochi istanti dopo Junior, impiattò le uova strapazzate e suonò il campanello sul pass, Joe preparò due piatti di pancake, uno per il tavolo cinque e l’altro per il tavolo sette; Liz si precipitò al pass per prendere le portate pronte.
«ci penso a io a questo tesoro; Junior gestisci tu la cucina per un attimo per favore»; l’uomo allungò la mano e prese il piatto con le uova; se c’era una cosa che gli dava veramente fastidio era avere dei dubbi, così scelse di portare lui stesso il piatto al bancone.
La donna lo ringraziò con un sorriso e si avviò verso i tavoli; Joe uscì dalla cucina salì sul bancone e si diresse dritto verso il ragazzo, che era intento a leggere le notizie del quotidiano locale.
Perché quella strana sensazione?
Avrebbe messo a tacere quei pensieri molto presto.
Si preparò ad appoggiare il piatto accanto al quotidiano, ma nell’istante in cui il suo cliente alzò la testa, Joe rimase di stucco.
Per poco non si lasciò cadere, non poteva credere ai suoi occhi «Logan?» pronunciò con un filo di voce tremante.
Il ragazzo non si scompose di un millimetro e continuò a guardare Joe. «sei tu?».
No… pensò, o almeno, non più, quel ragazzo non era più Logan O’Bryant. Non era più il bambino che andava ogni sabato con la sua famiglia al Fitzdale; poteva leggerglielo negli occhi. Erano diversi, vuoti, come se avesse perso qualcosa, qualcosa che però non si dava pace di dover ritrovare.
La persona che Joe intravedeva in quel viso d’un tratto così familiare era morta quattro anni prima, la sera dell’omicidio degli O’Bryant, la sua famiglia.
Lo stupore fece spazio alla consapevolezza nella mente dell’uomo.
Quello davanti a lui non era Logan, ma il suo fantasma, ed era tornato per far luce sulla morte della sua famiglia.
II.
QUATTRO ANNI PRIMA
Southtale, quartiere residenziale a sud del centro di Glenville; l’aria fresca di metà settembre si destreggiava tra le quindici ville di lusso costruite in quella zona e faceva vacillare le esili foglie dagli alberi; le più deboli, venivano strappate dal vento e cominciavano la loro giocosa caduta verso le strade, che si sarebbero trasformate in distese di lava arancione per i bambini più fantasiosi del quartiere.
Le monumentali abitazioni, circondate da ampi e rigogliosi giardini, erano edifici irti a celebrare la ricchezza e lo sfarzo dei magnati della finanza e dell’edilizia che avevano avuto la lungimiranza di investire in quella che un tempo era una piccola cittadina a nord di Chicago; ed il padre di Logan, Michael O’Bryant, era uno di questi.
Uomo di sani principi, nato da una famiglia benestante, il padre direttore di banca e la madre cuoca rinomata, che possedeva un piccolo ristorantino nel quartiere di Near South Side, a due passi dal Soldier’s Filed e dal Millenium Park.
Michael aveva vissuto la sua gioventù in tutta tranquillità; laureato in economia presso l’Università di Chicago; si era buttato nel mondo dell’edilizia investendo denaro in alcuni palazzi del centro della città del vento, arrancando, e non poco, in quel mercato di squali, ma sopravvivendo egregiamente.
La svolta arrivò pochi anni dopo quando conobbe Arthur Smith, già da anni nel giro dell’edilizia, grazie ad una lunga tradizione di famiglia; gli Smith infatti, possedevano già un’ottima fetta del mercato di quell’epoca.
Michael non si fece sfuggire quell’occasione e, dopo il suo primo vero grande progetto, con cui riuscì a farsi un nome, si fece notare da Arthur. I due ragazzi instaurarono un’ottima amicizia e fondarono la O’Bryant & Smith Buildings.
Grazie anche a l’occhio esperto del padre di Arthur, ormai in pensione, e le dritte finanziare del padre di Michael, i due ragazzi posarono le basi del loro impero, che conta oggi più di duecento edifici costruiti in tutta la costa est dello stato, ma soprattutto divennero tra gli esponenti più in vista della città natale di Logan, Glenville; il terreno fertile che li fece crescere oltre le loro più rosee aspettative.
Con i primi successi finanziari, arrivò anche il successo in amore per Michael, che conobbe Laura Thompson, colei che divenne ben presto sua moglie. Più giovane di lui di circa dieci anni, ragazza dolce ed affettuosa, faceva l’infermiera nell’ospedale di Glenville.
Con la nascita di Logan però, Laura lasciò il lavoro dedicandosi interamente al primogenito e alla beneficenza, d’altronde i guadagni del marito bastavano ed avanzavano a mantenere la famiglia.
Fondò l’associazione “WE Care”, che si occupava di prendersi cura dei senzatetto di Chicago; aprì anche diverse sedi nei quartieri più disagiati della città del vento, in cui i volontari offrivano rifugio e pasti caldi alle povere anime disperate che per un motivo o per un altro avevano avuto un destino infelice.
I due erano talmente assorti nel lavoro e nell’attività che si concessero la gioia di una seconda gravidanza solamente diciannove anni dopo la nascita di Logan. L’arrivo della piccola Emily fu un’incredibile gioia per Michael che scelse di trasferirsi nella nuova villa a Southtale, proprio accanto alla dimora di Arthur, ormai divenuto oltre che consolidato socio in affari, il fratello che non aveva mai avuto.
Fu proprio lui a scattare, anni prima, la foto che Logan era intento ad osservare mentre cercava di farsi il nodo alla cravatta, nell’atrio di casa sua a Lincoln Park.
Mamma Laura, al centro, reggeva in braccio la piccola Emily, alla sua sinistra, papà Michael le cingeva un braccio attorno alla vita e Logan era dalla parte opposta mani in tasca e sorrisetto beffardo da ventenne; sullo sfondo la magnifica “villa degli O’Bryant”, una casa bianca in miniatura con due colonne in marmo chiaro che facevano da cornice al portone di oltre due metri di legno pregiato lavorato, che segnava l’ingresso nella residenza.
Logan era cambiato parecchio da quella foto, era ormai un ragazzo di venticinque anni, con capelli castano scuro tagliati corti con un leggero ciuffo sbarazzino, che per l’occasione di quel giorno aveva dovuto ricomporre in modo decente.
La vita fino a quel momento gli aveva sicuramente sorriso, capiamoci, i soldi non fanno la felicità, ma di sicuro danno una grossa mano a vivere senza pensieri e di questo lui ne era consapevole.
Scuola privata, università prestigiosa e poteva togliersi tutti gli sfizi che desiderava, ma nonostante la disponibilità economica scelse sempre di guadagnarsi ciò che aveva ottenuto, senza scorciatoie.
Amava seguire sua madre nei centri e dare una mano ovunque ce ne fosse bisogno, sempre con un occhio attento agli affari del padre, che fin dai sedici anni lo rese partecipe delle attività svolte dalla sua azienda, spiegandone talvolta anche gli aspetti più complicati.
D’estate cercava lavori stagionali, come cameriere, falegname, aiuto carpentiere; dapprima spinto dai genitori che volevano insegnargli il valore del lavoro e del guadagno, poi da solo.
Cercava le mansioni più umili e faticose, una sorta di sfida con se stesso; odiava essere classificato come un figlio di papaà.
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