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Il mio ricordo di te

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Consegna prevista Febbraio 2020
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Alessandro Tedde è uno psicoterapeuta come tanti, con l’unica differenza di essere un pessimo marito e un padre incapace.
Vive a Roma, nel quartiere dei sogni: Rione Monti, in un piccolo loft che, di giorno, è anche il suo studio.
Ha lasciato sua moglie Laura e sua figlia Chiara nella casa perfetta, con i fiori avvolti in un giornale in cucina, i compiti di algebra da correggere, la buganvillea in fiore e un libro appoggiato sulla finestra del balcone.
Tipico di Alessandro Tedde, tipico di un fallito.
La chiamata inaspettata di un vecchio amico porterà nella vita di Alessandro Vienna, una ragazza problematica di vent’anni con un passato di traslochi e un amore perduto. Vienna entrerà nella sua quotidianità in modo disarmante, dandogli la speranza di poter ancora credere in quella cosa che la gente chiama felicità.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro perché è una storia di mancanze, case sporche, incubi notturni e tramonti su Roma.
Ma soprattutto perché è una storia di seconde possibilità.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Capitolo 1.

Michele Sperduti viveva in un piccolo centro abitato, situato appena fuori Roma, chiamato Capena. Si era trasferito da circa 10 anni, poco prima del matrimonio con Simona una ragazza conosciuta ai tempi dell’Università di Medicina. Il primo incontro con Simona lo ricordava ancora perfettamente. Si conobbero per l’esattezza, nel reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, durante quel delirante periodo di tirocinio formativo universitario. Michele trascorreva 12 ore al giorno in quel reparto internato al terzo piano di una palazzina che, affacciava sulla Basilica di San Paolo.  Nel reparto di Neuropsichiatria Infantile il primo insegnamento che danno ad un ragazzino di 23 anni, con i brufoli e gli occhi affogati di sogni, è semplice e crudoQuesti bambini prima di tutto sono pazienti. Prima di venire a lavoro ricordati di lasciare a casa i sentimenti.” A Michele, la parola paziente è sempre piaciuta. Ogni qualvolta che qualcuno la pronunciava, ricordava la voce di sua sorella Rachele quando giocavano al “dottore” e gli diceva: Michele apri la bocca e tossici forte”. Lui spalancava la bocca e tirava fuori la lingua mentre lei, con in mano una torcia, gli perlustrava la gola come un esploratrice alla ricerca di pitture rupestri sulle pareti di una grotta. In quel reparto invece, la voce di sua sorella Rachele rimbombava flebile e strozzata nel diaframma e, quella parola che ad otto anni era il copione di un banalissimo gioco, ora risuonava nella sua testa come una sentenza e considerare quei bambini dei semplici pazienti gli sembrava un’altra inutile cattiveria inflitta dalla vita.

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 Quel giorno del 27 aprile 1998, Michele aveva il turno di notte e ai tempi, al notturno, o ti portavi avanti con lo studio per la sessione d’esame successiva oppure, nel giro di pochi mesi, divenivi un fenomeno della settimana enigmistica. Michele, non amava studiare la notte per via di una cefalea notturna congenita e odiava i cruciverba a causa di quelle stupide domande da due caselle relative alle targhe di qualche provincia italiana. Macerata, Ascoli Piceno, Caltanissetta, La Spezia, Monza. Lui conosceva solo la targa di Roma RM perché ci viveva e quella di Frosinone FR, perché sua Nonna Antonietta era di Supino e gli parlava spesso del piacevole vento estivo delle montagne ciociare che, sbirciava tra l’ombra degli alberi e nei vimini delle sedie a dondolo sulle verande. Di solito, portava l’album dei calciatori Panini con sè, comprava qualche pacchetto di figurine conservando i doppioni per regalarli ai bambini e passava le ore a testare la sua memoria sui goal fatti da Ronaldo:

“Cruzeiro? 14 partite 12 goal. Psv? 46 partite 42 goal. Barcellona? 37 partite 34 goal. Inter? 32 partite 25 goal”

Appena terminato, alzava il palmo di mano con cui copriva la figurina, controllava le risposte ed esultava intonando sotto voce quel coro da stadio che aveva sentito in curva Nord allo stadio Olimpico durante un Roma – Inter:

Il fenomeno ce lo abbiamo noi mo so cazzi tuoi .”

Qualche settimana prima aveva incontro Cafù, il pendolino brasiliano della Roma. Era venuto a trovare i bambini nel reparto di Oncologia. Capitava spesso che i calciatori venissero a lenire le giornate dei pazienti più piccoli. Lo vide firmare un paio di autografi su delle sciarpe giallorosse della Roma e pensò: “Chissà magari un giorno viene Ronaldo, così posso chiedergli lautografo e di fare goal contro il Milan al derby.”

Quella sera del primo incontro con Simona, il primario del reparto il Dottor Leucedio Minotti luminare della Neuropsichiatria Infantile, gli aveva lasciato una sola precisa e semplice direttiva: Badare a Mattia Preti, un bambino di 5 anni affetto dalla Sindrome di X Fragile.  Mattia nel linguaggio medico aveva un ritardo mentale causato dall’espansione di una ripetizione di triplette CGG sul cromosoma X, denominata premutazione. I sintomi sono vari e multipli: QI decresce dopo l’infanzia, avversione allo sguardo fisico, disattenzione, impulso ad agitare le mani, impulsività, disturbo del linguaggio, capacità spaziali compromesse, iperattività e un elenco di altre cose che insomma, ad un genitore, fanno maledire un po’ la vita. A Mattia la malattia per prima cosa cambiò la sua cameretta nella palazzina G nel comprensorio “I Girasoli” di Monteverde, in una camera più piccola e verniciata male al terzo piano di un palazzo che puzzava di alcol etilico e carne liofilizzata. Ebbe tutto iniziò il giorno del suo terzo compleanno quando successe quello che, Michele Sperduti, chiamava pausa. Ovvero quello che succede a tutti i bambini come Mattia. Zia Virginia gli regalò un Super Tele, uno di quei palloni che quando tiri devi dosare la forza per non mandarlo dall’altra parte della città. Mattia il pallone non lo vide proprio, preferì la rete di plastica che lo ricopriva con cui giocò per un’intera settimana. Dito dentro il buco. Dito fuori dal buco. Dito dentro il buco. Dito fuori dal buco. Una cazzo di settimana in cui suo padre andò a dormire giurando a se stesso che andava tutto bene. Così ebbe iniziò il viaggio di Mattia tra gli ospedali di Roma: Umberto I, Gemelli, San Camillo, Filippo Neri fin al Bambino Gesù. I nomi degli ospedali cambiavano, così come cambiavano i nomi dei professori che lo visitavano. La diagnosi no, lei non cambiava mai. Sindrome X Fragile. Ritardo Mentale. Suo padre, Vittorio Preti, reagì rifugiandosi nel suo lavoro. Per essere precisi, si chiuse nel suo taxi Athena 28 e il mese seguente riuscì a guadagnare l’incredibile cifra per l’epoca, di tre milioni di vecchie lire. Quei soldi un po’ di mesi prima li avrebbe paragonati alla felicità, adesso vedendoli gli tornavano in mente le parole di suo padre quando da piccolo gli diceva: “A paese tenevamo solo orto e galline, però bastava. Tenevamo la salute. Quando tieni la salute, tieni tutto.” Sua moglie Nadia invece, sin da subito, cominciò a dormire accanto a Mattia per controllare se respirasse con regolarità o semplicemente perché, quando Mattia dormiva, era l’unico momento in cui gli sembrava assomigliasse a tutti i figli delle sue amiche che, ogni giorno confrontava con la disabilità di suo figlio.

Quella sera, la direttiva impartita dal primario Minotti a Michele, era dovuta ad una terapia sperimentale proveniente dall’America. Erano gli anni del film “L’olio di Lorenzo”, della storia dei coniugi Odone e di come avevano prolungato la vita del proprio figlio con una miscela di loro invenzione. All’epoca, qualsiasi cosa arrivasse dall’America, si sperava avesse la stessa fortuna. Il giovane tirocinante Michele seguì le istruzioni del suo superiore e in tarda serata, quando il silenzio del reparto veniva rotto solo dal vento che sbatteva i rami sui vetri della finestra dell’atrio, raggiunse la stanza di Mattia che, ancora sveglio, guardava la videocassetta del cartone animato “La Spada nella Roccia”. Michele si limitò a controllare la giusta tensione delle coperte di lana pesante e si coricò sul letto inoccupato della stanza. Mattia aveva dei capelli biondi e corti, i denti da latte che ogni tanto muoveva con le dita e il mento a punta. Michele gli parlò tutto il tempo dell’Inter. Del capitano Bergomi, del giovane argentino Javier Zanetti e soprattutto del fenomeno Ronaldo. Mattia ipnotizzato dalle avventure di Semola e Mago Merlino non disse niente e, ogni tanto con spasmi, sbatteva le mani sul parapetto.

Alle 03.24 Mattina dormiva beatamente e Michele continuava a pensare a quanto potesse essere bello fare tredici al Totocalcio fin quando, un’infermiera, gli bussò delicatamente sulla schiena.

  • Scusami, vuoi un caffè? Lo abbiamo appena messo sul fuoco in sala relax.
  • Si grazie, tanto Mattia ormai dorme.

Nonostante l’orario, Michele aveva i capelli curati e laccati, la barba rasata alla perfezione come da routine ogni mattina alle 7.20 e un viso paffuto con qualche brufolo sparso sulla fronte tanto che, i bambini quando lo raffiguravano in qualche disegno, lasciavano qualche pallino rosso sul suo viso. La sala relax era una stanza asettica e squallida e, il sapore del caffè nella moca bollente, ricordava l’acqua sporca.

  • Dove sono gli altri?
  • Probabilmente avranno avuto qualche giro da fare in reparto.

Simona aveva dei capelli ricci lunghissimi e la fisionomia robusta tipica delle donne nordiche, completamente opposta al prototipo di donna che piaceva a Michele.

  • Tu cosa fai qui Simona, non ti avevo mai vista prima di stasera? Di cosa ti occupi? – Le chiese dopo aver letto il nome sul cartellino appuntato nel taschino del camice.
  • Sono un Ho trovato questo posto di lavoro da poco, mi sono laureata qualche settimana fa. Tu invece?
  • Tirocinante di Neuropsichiatria Infantile.

Entrambi buttarono giù una sorsata di caffe e lo sentirono bruciare fino alle budella.

  • Ti trovi bene qui?
  • Si, il Dott. Minotti è bravo e a noi tirocinanti cerca di insegnare tutto quello che sa.
  • Mattia invece, lui come sta?
  • Come tutti i bambini che sono qui, è in pausa.
  • Sai che non dovresti chiamarlo con il suo nome? Lho sentito dire da Minotti qualche giorno fa: Siate empatici senza creare un legame affettivo con il paziente
  • Si, lo so. Lo ripete spesso. Io però i “pazienti preferisco chiamarli per nome. Li ricordo tutti. La prima fu Alessia 6 anni di Rovigo le piaceva la danza e odiava gli smarties verdi. Dario 8 anni di Livorno aveva paura dell’acqua ma disegnava solo pesci rosso. Giuseppe 4 anni di Torre del Greco che divideva i pasti con il suo grande T-Rex di gomma. Ora cè Mattia 5 anni di Monteverde, gli piace Action Man e tifa la Roma. Non sono cambiati, sono solamente in pausa. Gli piacciono le stesse cose, i stessi cartoni, i stessi colori. Semplicemente non se lo ricordano. In questo posto ti insegnano come sono ora, che non esiste cura o guarigione ma solo miglioramento. Praticamente ti insegnano a partecipare ad una gara in cui già sai di partire sconfitto, quindi la mia unica vittoria è chiamare quei bambini con il loro nome. È il mio modo di provare a dargli una mano a ricordare.

 

Erano le 04.00 di notte e quei due parlavano dentro uno stanzino di pochi metri quadrati con al centro un tavolo e, agli angoli, un piccolo cucinino, un frigorifero e un divano marrone sfondato attaccato alla parete. A chiederlo oggi, nessuno dei due saprebbe darvi un motivo plausibile, ma pochi minuti dopo Michele era mezzo nudo su quel divano vecchio, con i seni sodi di Simona tra le mani. Michele e Simona si conobbero così, per poi sposarsi anni dopo e trasferirsi nell’isolata campagna romana di Capena. I brufoli hanno abbandonato il viso di Michele e un pronunciato strato di grasso gli evidenzia la pancia. È davanti il suo camino in pietra, nella casa costruita con la fretta di scappare dal caos della grande città. Ha delle pantofole in feltro ai piedi ed è tutta la sera che ruota i spigoli di un bigliettino da visita con i bordi consumati dal taschino del portafogli. Compone il numero stampato sul cartoncino. È il numero di un suo vecchio amico. È il numero di Alessandro Tedde.

Capitolo 2.

Il panorama serale su Ponte Sisto è una decorazione ondeggiante di luci che rifletteno i colori caldi e sfocati della città sulla superficie scura del Tevere. Lo scorrere silenzioso dell’acqua viene disturbato, talvolta, dal sordo Pluuufff di qualche tronco risucchiato in un mulinello improvviso del fiume e dalle cadute di gocce d’acqua rimaste in equilibrio, come funamboli, tra le crepe delle curve concave dell’arcate di marmo. Il livello della marea è basso e le sponde sono illuminate dai lampioni del lungotevere e da isolati falò di senzatetto. I sanpietrini sono scavati e arrotondati dal tempo e, ai lati della strada, i platani appoggiano il tronco sul parapetto per poi cadere a cascata sui muraglioni anneriti dallo smog della città.

Alessandro Tedde, percorreva quel ponte tutti i martedì sera, indipendentemente dalla stagione o dalla programmazione televisiva. Usciva dal suo studio a Rione Monti, che in realtà era anche la sua casa, e raggiungeva a piedi Trastevere. Deontologicamente parlando non era il massimo dell’etica ma il suo vecchio studio a Via Margutta, l’aveva preso in affitto solo per poter fare colazione con sua figlia Chiara che, frequentava l’adiacente Liceo Classico Torquato Tasso. Chiara era una laureanda che passava le giornate cercando di terminare la sua tesi in Filosofia dal titolo: “Il dilemma del Porcospino di Schopenhauer: La paura della sofferenza nel nucleo familiare”. Chiara non è cambiata molto dai tempi del Liceo. Capelli castani e denti bianchissimi. Una passione particolare per Salvador Dalì e Andrè Breton. Gambe lunghe e snelle e un seno povero ma elegante ereditato da sua madre. Una passione vivace per i fiori regalati avvolti nei quotidiani e i libri con storie ambientate nel 700’.  Con il padre invece, a causa di quella strana malattia che affligge gli uomini chiamata “orgoglio”, non beveva un cappuccino con schiuma e una ventata di cacao da circa 4 anni.

Secondo una stima di un ricercatore inglese Ponte Sisto, viene calpestato mediamente al giorno da 1.503.523.345 di passi rappresentando, dal punto di vista turistico, il secondo ponte più importante di Roma dopo Ponte Milvio. Il principale motivo di fascino e curiosità di Ponte Sisto è il suo “occhione”. Un grosso cerchio sul lato sud del ponte utilizzato nell’antichità, per monitorare la piena del fiume. Alessandro Tedde non conosceva bene Roma, figuriamoci i suoi ponti. Quelle poche volte che occupava il suo tempo pensando al Tevere e i suoi ponti, gli veniva in mente solo Mister Ok, il tipo che ogni anno si tuffa da Ponte Cavour e lo scempio dei corrimano imbrattati dalle scritte idiote di quelli che, negli Stati Uniti, chiamano “Writers”.

Fottuti teppisti, ecco cosa sono – Questo pensava.

Su Ponte Sisto invece ricordava sempre con piacere una storia che sentì da bambino, quando vedeva Quark in Tv con suo papà. Piero Angela, in una puntata del programma sul clero di Roma, raccontò di come Ponte Sisto veniva anche chiamato anche Ponte delle Prostitute per via di una leggenda che attribuiva la sua ristrutturazione, ad una tassa pretesa e ottenuta dalla Chiesa sulle prostitute.

Chissà quanti pompini è costato Ponte Sisto – Questo pensava.

Come tutti i martedì pensò a quell’aneddoto, al fetore di Cognac di suo padre Tonino e al volume della tv alzato di nascosto per non svegliarlo. Come tutti i martedì, gli mancò. Gli mancò tantissimo, nonostante tutto. Percorreva i sanpietrini di Ponte Sisto, stringendosi il collo del cappotto blu intorno alla gola e coprendosi bene le orecchie per proteggerle dal freddo. Era un tipo piuttosto freddoloso, ma al martedì di Trastevere non avrebbe mai rinunciato, neppure per sfuggire al freddo inverno di fine gennaio. A pochi metri dalla catena che bloccava l’accesso ai veicoli, poteva sentire il rumore della caduta dell’acqua della Fontana dei Cento Preti e il vorticoso destino di una bottiglia di Henikhen presa a calci da un turista olandese a Piazza Trilussa. Sulla scalinata sporca di terra portata dalla pioggia, c’era una varietà disparata di individui con cui Alessandro Tedde, probabilmente, non avrebbe condiviso neanche un caffè al Bar Desirè all’altezza del km 73 sull’Aurelia. L’unica cosa che risultava essere comune e evidente tra loro e Alessandro Tedde, era l’assenza. L’assenza nella loro vita, di qualcuno con cui passare un martedì sera di inverno. Qualcuno che li stesse aspettando a casa.

La prima tappa del martedì di Alessandro Tedde prevedeva una Spagnoletta da “Rivendita Libri, Cioccolato e Vino”. Una polverosa libreria dove la sera servono alcolici con nomi erotici. 69, Amplesso, Orgasmo, Sveltina e via dicendo. La Spagnoletta consisteva in un bicchiere di cioccolato, crema di whisky alla menta e panna. A lui quei miscugli non piacevano ma Tara, la ragazza che lo serviva aveva due tette tonde e sode che glielo facevano venir duro solo a vederle. Quella ragazza sulla trentina aveva un corpo che gridava di volgarità e sesso selvaggio che innescava in lui una serie di continui doppi senso nel vano tentativo di portarsela a letto. Con Tara ci provava tutte le sante volte, lei ci giocava come fanno le giovani donne con gli uomini separati che credono di ingannare la carta d’identità con delle stupide scarpe da ginnastica. In mente sua era più che conscio che non se la sarebbe mai scopata, ma il pensiero di sbattersela lo faceva sentire tremendamente vivo. Sarebbe rimasto fino alle 24:00 avrebbe aiutato Tara a far scendere la serranda e l’avrebbe vista andare via con il suo ragazzo, Ruggiero. Un pugile professionista che guidava una Mercedes-Benz G-Class indossando un chiodo nero e dei ridicoli guanti di pelle marrone. Come suo solito, dopo aver fantasticato sulle posizioni con cui avrebbe desiderato far l’amore con Tara, sarebbe andato a prendersi un Cognac da Freni a Frizioni da Andrea, l’ex fidanzato di sua figlia Chiara. Andrea era un ragazzo con i tatuaggi sulle braccia, i capelli rasati e gli addominali asciutti dalle onde prese con la tavola da surf a Maccarese. Ad Alessandro piaceva andare in quel locale, nonostante lo facesse sentire giovane e inadeguato allo stesso tempo. Forse perché Andrea lo salutava dandogli la mano schioccando il pollice con l’indice o forse perché, Andrea, era l’unico che sapeva alla perfezione cosa significasse amare Chiara e non poterla vedere.

  • Sei andato a surfare questa settimana? – Quanto lo faceva sentire vecchio fare questo tipo di domande.
  • No questa settimana no. Non cè il giusto vento, la giusta luna, la giusta energia

Alessandro vedeva Andrea agitare il Bar Spoon per mischiare lo zucchero di canna del Mojito e pensò a quanto i giovani abbiano bisogno di illudersi per sentirsi vivi.

  • Qualche giorno fa ho visto Chiara.

Il Bar Spoon scheggiava il bicchiere e la birra pizzicava sul palato di Alessandro.

  • Chiara? Dove?
  • A San Lorenzo, io stavo andando a bere una cosa con amico. Lho vista che attraversava la strada con un tipo.

Alessandro ha sempre pensato che, se invece di Chiara avesse avuto un figlio maschio, sarebbe potuto essere un padre migliore. Un figlio non avrebbe avuto bisogno di quell’affetto che a Chiara è mancato e gli ha sempre rinfacciato. Quell’incapacità di abbracciarla, anche nei momenti apparentemente insignificanti. Quando il cielo è azzurro e i corbezzoli sono pieni di frutti. Eppure, nel preciso istante in cui sentì il successivo vuoto della frase “Attraversava la strada con un tipo” nella voce di Andrea, capì, che l’affetto non è questione genetica ma una forma d’amore nella condivisione silenziosa del dolore che lui, chiamava “mancanza di comunicazione”.

Chiara è strana, sta sempre chiusa in quella cameretta a studiare ed esce poco nel weekend. Le ho chiesto se fosse tutto ok? E mi ha detto di sì, che era solo stanca per via del compito di Latino sulla versione di Tacito. Non mi parla ed è fugace come sua madre. Sempre immersa nei suoi pensieri e dannati silenzi. Non cè comunicazione. Non cè comunicazione in questa casa. – Questo pensava.

  • Magari è un amico delluniversità, ricordo che preferiva andare a studiare con gli amici in biblioteca. – A quest’ipotesi non credeva neanche lui, lo disse soltanto per Andrea.
  • Non credo, attraversavano la strada mano nella mano.

Quel giorno Alessandro Tedde imparò che il dolore di un figlio, per un padre, è lo stesso coltello piantato tra le costole.

Non era bravo con questo tipo di cose: consolare, pacche sulle spalle e parole giuste. L’interiorizzazione dell’emozioni l’ha sempre affascinato a tal punto da ritenerla, nelle sue conversazioni accademiche con i colleghi, un passo fondamentale per il processo di individuazione di Jung e scoperta del sé. Lo affascinava, come tutte quelle cose in cui si riteneva un perfetto incapace e, con cura, teneva a debita distanza. Non avrebbe mai aiutato Andrea, ma gli sarebbe piaciuto esserne in grado. Se ne rese conto quando sentì quella strana esigenza di sparire, che lo affliggeva ogni volta in cui credeva di essere la causa di una sofferenza.

Finì la birra e scambiò un paio di sguardi travestiti di complicità con l’ex ragazzo di sua figlia. Era un bravo ragazzo e probabilmente in cuor suo, se avesse potuto desiderare un marito per Chiara quello sarebbe stato sicuramente Andrea. A volte capita che, le persone giuste, arrivino al posto giusto nel momento sbagliato e lui, agli occhi di quel ragazzo amante del surf, sarebbe sempre stato il padre di Chiara, l’amore della sua vita che non poteva amare. Ordinò un Cognac che gli scivolò come un sasso nella laringe e sparì definitivamente dalla vita di Andrea. Non voleva che nei suoi occhi rivedesse l’immagine di Chiara. Di far soffrire la gente non gli andava più.

  • Pronto, chi è?
  • Ciao Alessandro, sono Michele.
  • Michele?
  • Michele Sperduti.

Alessandro non sentiva Michele Sperduti da almeno un paio d’anni se non per quei stupidi auguri di Natale che inoltrava a tutta la rubrica la mattina del 24 dicembre.

  • Ciao, Michele scusami. Sai i pazienti, il lavoro, l Capita spesso di confondermi.
  • Non preoccuparti capisco, ti disturbo?
  • Ehm no, non sono a casa ma dimmi pure. In quel momento stava attraversando Piazza Trilussa percorrendo, in senso contrario il tragitto dell’
  • Possiamo vederci uno di questi giorni? Avrei bisogno di parlarti urgentemente.
  • Va bene, vediamoci a studio da me lunedì alle 18.00. Ricordi dove abito no?
  • Si, vicino alla fermata Cavour a Rione Monti. Grazie mille Alessandro sei un amico.

In realtà non sapeva se avesse acconsentito alla richiesta di Michele perchè lo riteneva un amico, gli ricordava semplicemente sua moglie Laura.  Forse per questo decise di incontrarlo.

Capitolo 3

Dal suo attico in Via Leonina, Alessandro Tedde, veniva svegliato ogni mattino dalla luce del sole che filtrava dal lucernario del soffitto e, dal rumore della città, che vibrava come le corde di un’arpa sulle pareti. I sessantasette metri quadrati della sua casa avevano l’aspetto di un Loft e in effetti, sin da ragazzo, aveva sempre sognato un appartamento in perfetto stile Urban. L’ appartamento fù progettato e ammobiliato, secondo precise indicazione e budget di spesa, da un architetto amico di Alessandro, che ora le star di mezza New York si contendevano per arredare il proprio Loft a Soho dove conviveva con Ashton, un ragazzo afroamericano conosciuto nel Greenwich Village. La sua casa dei sogni prevedeva principalmente: Pavimento in massello, lucernario con balcone, una gigantesca libreria con scala scorrevole usata come complemento divisore, cucina con isola di sequoia grezza, un mappamondo da sala, un frigorifero della Smeg nero, un divano vintage con seduta profonda, un soppalco con camera da letto e un ascensore-montacarichi che purtroppo non riuscì a trovare in nessuna palazzina di Roma.

Al mattino Alessandro Tedde si alzava presto, alle 7.00 circa. Beveva un’intera moca di caffè in una tazza di acciaio della Sky Vodka e mangiava della granola Quaker Oats Company al miele che, comprava a grandi dosi tutti i mesi da Castroni su Via Frattina. Non è mai stato un uomo attento al fisico e neanche un assiduo frequentatore di palestre, ma ha sempre seguito un rigido regime di alimentazione limitando al massimo l’assunzione di carboidrati, le bevande gassate e le bakery in centro. La doccia preferiva farla al mattino per via, di quelle fastidiose occhiaie che lo tormentavano fin da piccolo e, nel vestire, amava indossare completi scuri con immancabile cappotto che, nelle belle giornate, abbinava con degli occhiali da sole color ambra a lenti rotonde.

Zaritè, la donna delle pulizie, solitamente raggiungeva l’appartamento alle 08.00 per sistemargli le faccende di case basilari, prima dell’iniziale appuntamento lavorativo mattutino delle 10.00. Zaritè era una donna di 44 anni di origine Haitiane, arrivata a solo 20 anni in Italia con in grembo una bambina, sua figlia Kettly, che studiava giurisprudenza alla Luiss grazie ad una borsa di studio per studenti stranieri meritevoli. Alessandro, nel proseguo del rapporto di lavoro, scoprì che per larghi tratti della sua adolescenza Zarite fu una “Restavek”. Il nome Restavek ad Haiti, soprattutto in passato, era il simbolo della speranza. Una sorta di sogno americano con le catene d’oro. La povertà e la prospettiva di un futuro migliore per i propri figli, spingeva le famiglie povere a dividersi dalla propria prole mandando i figli a lavorare nelle case delle famiglie ricche di città. I bambini spesso venivano spediti nei batey, grandi accampamenti che ospitavano i braccianti delle grandi piantagioni

di barbabietola da zucchero dove molti morivano a causa di incidenti o malattie. Le bambine invece

venivano inserite nella servitù delle grandi famiglie per badare alla casa, alla lavorazione del riso e alla preparazione della papaya. A Zaritè, trasferitasi in una villetta color crema di Port-au-Prince, la fortuna le donò una bambina d’accudire. La piccola Leonor di casa Badal. Appena vide quel batuffolo rosa di sangue catalano, Zaritè di 8 anni, dimenticò l’odio per la sua famiglia e comprese che si cerca la speranza negli occhi di chi si ama. Zaritè raccontò ad Alessandro di come ad Haiti la spiaggia sia bianca come il sorriso dei bambini poveri, di come il riflesso del sole al tramonto sul mare abbia lo stesso colore dei diamanti che comprano i ricchi e ammala il respiro dei minatori e, di come i schiavi nei campi di barbabietola da zucchero che producevano rum artigianale, non esistono più. Gli disse questo ed anche che le catene della schiavitù e dell’ingiustizia sociale, ancora bruciano le caviglie della povera gente e graffiano le strade roventi di Haiti

Zaritè chiamava Alessandro Dottor Tedde, come aveva letto la prima volta sul suo campanello di casa: Dottor Tedde – Psicoterapeuta, nonostante lui più volte le avesse chiesto di chiamarlo solamente Alessandro. Possedeva un’educazione perduta per l’epoca odierna e una spiritualità che Alessandro invidiava. Quando lei era in casa, le permetteva di lavorare con tranquillità uscendo prima che arrivasse. Aveva la sensazione che la presenza di un uomo la imbarazzasse, soprattutto dopo quella volta in cui l’aiutò a piegare un lenzuolo e le sfiorò la mano. A Zaritè il Dottor Tedde piaceva, non in senso fisico, gli piaceva come persona. Ad ogni compleanno, il 13 aprile, le regalava un libro in francese. Madame Bovary di Faubert, Lolita di Nabokov, Le onde di Virginia Wolf, Guerra e pace di Tolstoj, Il canto di Natale di Dickens. Le regalava un libro senza incartarlo, glielo lasciava sul tavolo della cucina per non imbarazzarla con sopra un bigliettino con scritto bon anivèsè nesans”. Come già detto, a lei piaceva come persona e non capiva come un uomo così che, le regalava storie e notti di sogni, potesse scegliere di vivere in questo modo così egoistico, tanto da non aver mai sentito l’odore di una donna tra le sue lenzuola. Al ritorno a casa del Dottor Tedde, Zaritè è già andata via, mai una cosa fuori posto, mai qualcosa di sparito o perso. Non era più una “Restavek” da anni, eppure non riusciva a togliersi di dosso quel senso di rispetto e responsabilità della sua isola color caffè.

Come tutte le mattine prima di accogliere i pazienti in studio, verificò la lista degli appuntamenti e notò la presenza del nome appuntato di Michele Sperduti alle 18.00. Da quella chiamata del martedì precedente, dimenticò completamente dell’appuntamento e, se fosse potuto tornare indietro, sicuramente si sarebbe inventato la scusa di un convegno all’estero per non incontrarlo.

Alessandro e Michele si conobbero, come spesso accade, grazie le loro mogli: Laura e Simona.

Laura e Simona condividevano lo stesso appartamento a Via Antonio Gallonio, vicino Piazza Bologna a Roma e la stessa passione per l’infermieristica. Laura era una bellissima ragazza pugliese di Galatina, con un paio di occhi verde smeraldo e dei lunghi capelli castani e selvaggi che sembrava portassero con sé il vento del Salento. Simona era una ragazza robusta di Castignano in provincia di Ascoli Piceno, con un forte accento marchigiano e la riservatezza delle montagne. Non amava truccarsi ed abbondava di parmigiano nel risotto al radicchio. Al termine degli studi, le loro strade si divisero per via del lavoro. Simona fu presa come infermiera al Bambino Gesù mentre Laura vinse un concorso per il San Filippo Neri. Il giorno che lasciarono casa, concludendo il loro rapporto di coinquiline, si promisero di vedersi una volta a settimana e stipularono un breve regolamento da rispettare:

  • La casa veniva messa a disposizione a turni alterni;
  • La padrona di casa ospitante doveva provvedere all’acquisto di grandi quantità di patatine e cracker al cacao, mentre l’ospite doveva comprare una vaschetta porzione famiglia di gelato alla stracciatella di La Romana;
  • Vedere un episodio di E.R. Medici in prima linea;
  • Parlare dell’inesistenza di una vita sentimentale.

Nonostante il lavoro estenuante, le abitazione distanti, Ostiense e Monte Mario, quelle due donne incontratesi per caso, riuscirono a volersi bene ancora di più e di tutta questa storia, sono le uniche persone che non si sono mai perse.

  • Credevo che una volta lasciata casa con te sarebbe finita come tutte le altre mie amiche del Liceo a Galatina che incontro solo per le vacanze di Natale giù in Puglia. Sono diventate mamme, commesse, casalinghe, parrucchiere. Sono tutte qualcuno che non conosco, perché mi manca quella parte che le ha portate da essere la mia amica del liceo a quello che sono oggi. Invece con te è diverso. Siamo insieme tutte le settimane, nonostante le quattro fermate di metro ed i due bus che ci dividono. Siamo distanti, ma non smettiamo mai di venirci a prendere.
  • È la stessa cosa anche per me. Prima di venire qui a Roma, credevo di venir qui solo per trovare un lavoro
  • Perché sei marchigiana?!
  • Dai finiscilaaaaaa con questa storia. Da un lato è vero, lo credevo perché sono marchigiana e a casa mi hanno insegnato che tutto quello che si vuole lo si deve sudare. Quindi ho sempre pensato allamicizia come un lavoro e uno sforzo da compiere. Ricordo Ines, la mia migliore amica. Quanti compiti le ho fatto. Quante volte lho coperta quando andava da Roberto e diceva a sua madre che dormiva da me. Appena sono arrivata a Roma, lamicizia con Ines è durata due mesi. Al mio posto cera Marina che non le faceva i compiti ma laiutava con la ceretta e la copriva quando andava da Roberto. Quindi credevo di essere qui solo per studiare e quando ho smesso di cercare unamica sei arrivata te e ho capito che lamicizia non è un impegno quotidiano, ma la sensazione che si prova nel tragitto quando torno a casa dopo una giornata fuori e pensarti vicina anche se sei dall’altra parte della città.

 

La loro amicizia continuò nella scoperta di quel meccanismo che spesso le persone cercano inutilmente negli altri: La naturalezza dei rapporti. Laura che quando passeggiava in centro faceva girare tutti gli uomini, non era un tipo facile. È troppo superficiale. Troppo muscoloso. Troppo immaturo. Troppo legato al sesso. Troppo. Troppo. Troppo. Troppo. Troppo. Mai un uomo che le andasse bene.

  • Simo io non so cos’è l’amore, ma lo sogno. Lho sempre sognato vedendo i miei genitori baciarsi al mattino e rincontrarsi solo quando è sera. E vedendo loro due ti dico che lamore è abbastanza, non troppo. È la giusta misura che calza il cuore.

Simona invece, si innamorava spesso. Soprattutto di uomini bugiardi e sposati che in molti casi sono la stessa persona. Lei, della parola amore, ha sempre abusato.

  • Laura, io lo amo. Non puoi capire cosa provo quando sto con lui. È tutto per me. Lo aspetterò, non importa quanto ci vorrà.

Condividevano i stessi sogni, che a quell’età si chiamano illusioni. Poi arrivarono rispettivamente Alessandro e Michele.  Laura conobbe Alessandro mentre beveva un cappuccino ad un bar di Piazza Mazzini, era un ragazzo affascinante che beveva thè caldo in piena estate e leggeva “La Luna e i falò” di Cesare Pavese. Aveva un paio di Persol simili ad un modello visti in un film di James Dean, la barba incolta di cinque giorni e indossava un completo in stile principe di Galles. Il giovane Alessandro Tedde, non era bello o almeno, non era uno che piaceva molto alle ragazze. Ma a Laura, quel suo aspetto da intellettuale faceva impazzire. Tornò per due settimane di fila in quel bar, tutte le volte ordinò un cappuccino e continuò ad innamorarsi di lui.  Nel frattempo scoprì molte cose interessanti, nella sua borsa a tracolla aveva molti libri, tutti classici della letteratura, beveva solo the allo zenzero e amava accarezzare le orecchie delle pagine dei quotidiani tanto da impiastrare la tazza di nero di inchiostro della stampa. All’inizio della terza settimana, prima che potesse ordinare il suo solito cappuccino, Alessandro la salutò e le diede un libro uscendo dal locale. “L’Amore ai tempi del colera” Gabriel Garcia Marquez, aprì il libro e lesse la pagina bianca trascritta con la biro.

A poco a poco la idealizzò, attribuendole virtù improbabili, sentimenti immaginari, e dopo due settimane pensava solo a lei.

Il giorno seguente Laura si sedette al tavolo di Alessandro e ricambiò il gesto regalandogli un libro “Lettera di una Sconosciuta” di Stefan Zweig, all’interno del libro sottolineò una pagina con la matita.

A te che non mi hai mai conosciuta.

Ti svelerò tutta la mia vita che veramente è cominciata il giorno in cui ti ho conosciuto.

Prima non era altro che qualcosa di opaco e informe in cui il mio ricordo non si è mai immerso, una specie di cantina piena di cose e persone impolverate, nascoste sotto le ragnatele e sorde, delle quali il mio cuore non ha serbato alcuna memoria.

Alessandro e Laura si innamorarono dedicandosi frasi di libri a colazione. Michele e Simona si conobbero poco dopo, in un turno notturno al Bambino Gesù. Non si regalarono mai alcun libro, ma sin dal primo giorno promisero a sé stessi di non soffrire più e forse questa, è l’unica vera promessa da doversi fare.

Mesi dopo le amorose vicende personali delle due amiche, Michele e Alessandro si strinsero la mano al Cinema Adriano di Piazza Cavour, poco prima della proiezione di “Patch Adams”. Il film che Laura scelse sapendo di quanto Alessandro ammirasse Robin Williams. Tra i due non nacque una vera e propria amicizia, ma una semplice stima e solidarietà maschile instauratosi negli anni nella compagnia indotta da quelle odiose uscite di coppia domenicali. Nella stretta di mano attuale le pellicole colorano ancora lo schermo del Cinema Adriano, il talento di Robin Williams non esiste più e Laura e Alessandro non sono più sposati. La presa è salda e prudente, quasi distante. È passato tanto tempo e il tempo, a ricordarlo tutto assieme, è un male strano nel petto. L’ambiente Urban della casa di Alessandro non metteva a proprio agio Michele ma in mente sua, dovette ammettere che quel cazzo di uomo con le donne e con gli arredamenti ci sapeva proprio fare. Si accomodarono sui sgabelli dell’isola in cucina su cui Alessandro, apparecchiò un piccolo buffet, precedentemente preparato dalle laboriose mani di Zaritè.

Zaritè amava cucinare e il modo con cui, il Dottor Tedde puliva la ciotola di Guacomole con le Arepas la faceva sentire desiderata. Con la scelta delle bevande da accompagnare ad un pasto invece, aveva ancora delle grosse difficoltà. Nonostante vivesse in questo paese da molti anni e fosse a conoscenza del malsano gusto degli italiani per le bevande alcoliche fruttate, le sue labbra carnose ricordavano ancora con piacere la dolcezza dello zucchero raffinato del rum invecchiato con cui lei, avrebbe pasteggiato qualsiasi sapore e, in quel ballo erotico che era la cucina per Zaritè, l’immagine del Dottor Tedde che ondeggiava un bicchiere di rum con la mano, idealizzava in lei un effimero orgasmo privato.

  • Michele, spero non ti dispiaccia, ho fatto preparare qualcosa dalla mia collaboratrice domestica, Zaritè Non era tipo da usare queste etichette moderne delle mansioni lavorative, ma non voleva sembrare troppo classista.
  • Ti ringrazio, ma non dovevi disturbarti.
  • Nessun disturbo. Vuoi qualcosa da bere? Vino? Birra? Superalcolici?
  • Qualcosa di meno forte, non so un succo ad esempio.

Il vivere da solo gli fece dimenticare che l’alcol è uno sport egoistico e di come, il matrimonio, tenda a proibire questo tipo di personalismi.

  • Hai detto che si chiama Zaritè, quindi è straniera?
  • Si è Haitiana, è venuta qui molti anni fa.
  • Pensavo fosse Venezuelana per via delle Arepas. Quando vengo a Roma con Simona, andiamo spesso in un locale Venezuelano ad Ostiense. Ti invidio la cucina sudamericana è la mia preferita.
  • In realtà a lei piace cucinare tutto, però quando è di buono umore cucina sudamericano. Dice che quando lo fa le sembra di sentire la musica che ascoltava a casa. Simona come sta?
  • Bene, da quando è nata Carlotta è diversa, molto apprensiva ed è difficile ritagliarsi dei momenti per noi. Le sono iniziate ad uscire le prime rughe attorno gli occhi, legge libri di cucina e la sera si addormenta poco dopo cena. È felice, basta vedere i suoi occhi quando guarda Carlotta per capirlo.

In quell’attimo di silenzio sfregato dal rumore dei fazzoletti che asportavano scorie sottili di cibo sui leggeri baffi di Michele, Alessandro cominciò a sentire un fremito di curiosità sulla reale ragione di quella visita inaspettata. Questo tipo di emozioni erano a lui totalmente estranee, ma quel passato improvvisamente seduto al suo tavolo che affogava arepas nelle salse, risvegliò in lui primitivi ricordi felici che aveva deciso di assopire in un finto disinteresse. In cuor suo sperava che il motivo di quel incontro fosse Laura. Di quanto stesse bene di Laura, che fosse felice anche senza di lui e dei suoi occhi verdi su cui lui amava addormentarsi. Non aveva mai sperato che Laura tornasse o che vivesse un’esistenza infelice senza di lui, semplicemente sperava che la vita le fosse felice. Lo meritava. Questo non significa che non la desiderasse in ogni secondo della sua patetica esistenza, ma in quella sua strana concezione dell’amore renderla libera di essere felice, era il modo migliore di amarla. Alessandro e Laura non erano poi tanto diversi da altri, le persone che si amano non sempre stanno insieme, ma si tolgono il respiro per tutta la vita. Nelle notti in cui il pensiero di Laura era coltello piantato sulla pelle e martello nella mente, avvertiva la necessità di sentirla tanto vicina da vedere il suo stesso cielo. Allora Alessandro camminava fin la sua vecchia abitazione dove ora abitava Laura, vicino Piazza San Anselmo. Costeggiava la recinzione in muratura ricoperta dai fiori gialli e secchi della bouganville e raccoglieva i limoni caduti sul marciapiede. Quando viveva in quella casa, i fiori della bouganville erano di un viola papale e un buon olfatto, avrebbe potuto sentire il profumo d’estate degli alberi di limone. Alessandro in quella facciata di casa costruì l’intera l’immagine della sua famiglia, dimenticandosi completamente di come, al suo interno, sua moglie e sua figlia avessero bisogno di un marito e di un padre. I vicini si accorsero tardi della separazione. se ne accorsero quando a nessuno importava più dell’intonaco caduto e di nascondersi dietro una facciata di cemento. L’abitazione si sviluppava su un’unica palazzina color pesco, reso ancor più evidenti dal color verde delle persiane e dalle sottili piastrelle di marmo che dividevano i tre livelli, all’ultimo piano delle piante con delle fronde a cascate coloravano le pareti e risaltavano l’assolato terrazzo in cui Laura, l’estate, amava leggere e prendere il sole. Ad Alessandro, da quando se ne era andato, quella casa non gli mancava. Non gli mancavano le scale strette, le stanze vuote, le mattonelle porcellanate, il mobile di sua suocera con dentro il servizio d’argento, le bomboniere dei matrimoni dei suoi amici, il tappetto persiano, il materasso duro e il cuscino sottile, i pini che non permettevano al sole di entrare dalla finestra della cucina. Non gli mancava per niente, però in quelle notti cui le ore assomigliano a giorni e le stagioni ad anni, in cui Laura è un pensiero che gli passeggia nella mente. si siede sul marciapiede dall’altra parte della strada. Chiude gli occhi e gli sembra di vedere Laura che cammina in punta di piedi con un libro e una matita tra le mani. Non sottolineava mai alcun passaggio, la matita la usava come segnalibro e per raccogliersi i capelli in un disordinato cipollotto, prima di sedersi sul divano angolare sotto la finestra del salone. Nei pensieri onirici di Alessandro, Laura ha un maglione di lana a collo alto bianco con cui si accarezza il viso. Le è piaciuta la frase che ha appena letto. Alessandro la conosceva. Tutte le volte che una frase le piaceva, appoggiava la guancia sulla spalla. Per sentire quel calore di imbarazzo scaldarle l’anima. Alessandro non lo sapeva ma lui, come il primo giorno, le faceva ancora lo stesso effetto delle frasi che le piacevano dei libri.

  • Ti starai chiedendo perchè sono qui immagino?
  • Si, in realtà unidea me la sono fatta ma preferisco sentirlo dire da te.
  • Sono qui per chiederti di aiutarmi con mia nipote, Vienna. È un adolescente come tante altre, ha solo qualche difficoltà a ritrovare la leggerezza della sua età.
  • Michele ti fermo subito, non credo di essere la persona adatta per aiutare una giovane, soprattutto se poi, questa giovane è la parente di un mio amico. – Rispose stizzito Alessandro.
  • Sapevo che mi avresti detto così ed è proprio per questo che sono qui. Vienna non ha bisogno di una persona adatta al suo problema. Abbiamo incontrato molte persone adatte ed ogni volta finiva che erano talmente concentrati a risolvere il problema da amplificarlo. Lei ha bisogno di qualcuno adatto alla sua parte felice.
  • Non lo so non credo di poterle essere di aiuto.
  • Ricordi quella volta che con Simona non riuscivamo ad aver figli? Ci abbiamo provato in tutti i modi, facevamo sesso nei momenti di massima fertilità come ci diceva il ginecologo con posizioni assurde per aiutare la fecondazione, era diventato un incubo. Facevamo tanto sesso, una quantità di sesso talmente distaccato e strumentale che siamo arrivati ad odiarci. Nessuno dei due lammetteva, ma quella mancanza di risultati ci faceva sentire sbagliati e più facevamo sesso più odiavo il suo corpo in ogni sua forma. A te, nonostante la nostra amicizia, non è mai fregato nulla di me, del mio lavoro, della mia famiglia. Niente. Sei sempre stato molto cinico, eppure in quel periodo ogni santo giorno mi chiedevi come stessi. Non penso sia un caso. Mi parlavi sempre di Simona, qualcosa su di lei, del suo carattere gentile, del suo modo strano di ballare, della musica che le piaceva ascoltare, delle sue bizzarre calze colorate. Io non la vedevo più, era talmente preso dal fare un bambino, anzi dal problema di non riuscire a fare un bambino da non vedere più mia moglie. Di quanto fosse bella nel riflesso del frigo, di quanto mi mancasse baciarla senza motivo o di come tenerle la mano mentre guidavo mi facesse sentire bene. Tu mi hai salvato Alessandro e ora Vienna, ha bisogno di te.

Alessandro, non voleva. Sapeva che tutto questo non era etico e professionale e sicuramente se ne sarebbe pentito come, si era pentito di quello stesso appuntamento con Michele. Eppure l’immagine di Vienna cominciò ad aleggiare nella sua mente e provò una strana e a lui inusuale sensazione di responsabilità che gli corrugò la fronte.

 

  • Cosa le è successo?
  • Ti racconterò tutto di Vienna, ma prima dimmi che l
  • Ci proverò.
  • Vienna ha 22 anni

 

Il racconto di Michele durò circa un’ora, e fu condito da sprazzi di vita di Vienna e delle altre persone che facevano parte della sua storia. Alessandro prese molti appunti nella sua agendina marrone con la copertina morbida chiusa da un elastico, che amava estendere prima della chiusura per sentire la secca chiusura dell’elastico sulla pelle che, gli ricordava vagamente, le serate a far l’amore con Laura dopo aver bevuto un paio di bottiglie di vino rosso. Prese molti appunti e mentre ascoltava i problemi della sua futura paziente si domandava se anche Chiara, ovunque fosse, avesse bisogno di qualcuno adatto alla sua parte felice.

  • Era questa lidea che ti eri fatto su questo incontro?
  • No, pensavo ad unaltra cosa, ma ho capito che continuerò a pensarci tutta la vita.

 

Laura gli mancava. Gli mancava da tutta la vita.

 

Capitolo 4.

Mi devi spiegare per quale diamine di motivo passiamo di qui per andare allUniversità. Fa schifo questo posto. Non cè un bar, un posto dove sederci a bere una cosa senza che qualche zingaro venga a chiederci lelemosina o dove non si senta questo terribile tanfo di piscio.

Mattia non piaceva a Chiara. Non gli è mai piaciuto. Si sono conosciuti, in una di quelle rare sere in cui Chiara, si concedeva alle amiche per andare a ballare. Per l’esattezza quella sera andarono a Roma Nord al Lanificio. Uno di quei locali odiati da Chiara, dove le ragazze vanno in bagno in due per sistemarsi il trucco e la musica è troppo alta per parlare. Mattia lavorava lì, si occupava di pubbliche relazioni in cambio di una piccola percentuale sugli ingressi, di una ricarica telefonica e del braccialetto azzurro dell’open bar. Era il classico figlio di papà, con il capello pettinato a lato e il fisico maniacalmente curato grazie alla regolare assunzione di creatina e frutta secca. I lineamenti del suo viso, netti e profondi, venivano solcati dallo sguardo dell’altro sesso che, desiderava toccare il suo corpo e mordere le sue labbra carnose. Per Chiara, Mattia, era l’equivalente del poster di Nicolas Vaporidis che aveva attaccato nella sua cameretta ai tempi delle scuole medie, bello da vedere ma pur sempre un’immagine attaccata con lo scotch alla parete. Chiara si innamorò subito di lui. Del suo modo di muoversi spavaldo tra la folla, dei risvoltini agli orli delle sue immancabili magliette a maniche corte della Ralph Lauren, del suo cappello dell’Adidas snapback nero da cui fuoriusciva qualche riccio dei suoi capelli folti e crespi, della sua pelle olivastra e villosa ricoperta da tatuaggi, di quel suo ossessionante ostentamento nell’imitare lo stile di Corto Maltese e soprattutto a Chiara, anche se non lo ammetterà mai a se stessa, piaceva da morire quella palpabile sensazione di invidia negli occhi delle altre ragazze che la vedevano accanto a Mattia. Per la prima volta nella sua vita, era la ragazza che tutte volevano essere. La ragazza più bella del ballo della scuola. L’inizio della loro storia fu di quelli belli, che si leggono nei libri e si vedono nei film americani. Quello in cui Mattia era troppo bello per lei ma lui l’amava ugualmente. Quello in cui Chiara, pensava bastasse essere la ragazza di Mattia per stare bene. Con il tempo Chiara scoprì che, come accade nei libri e nei film, spesso la trama è solo una gran fregatura e che, quel ragazzo che ogni altra ragazza le invidiava, non era nient’altro che quello che lei credeva potesse darle un po’ di normalità. Che potesse farla sentire uguale a tutte le altre.

  • Ma lhai visto cosè Mattia, quando ti ricapita uno così?

Mattia aveva questa dote, riusciva a mascherare ogni sua mancanza con la bellezza, come se la quotidianità di un rapporto si basasse sulla qualità  della cornice e non dall’estasi del dipinto. Chiara imparò a riempire le sue mancanze con la bellezza di Mattia e a subire passivamente ogni suo desiderio dimenticandosi di sé stessa e più colmava vuoti più lo odiava. Parlava di argomenti di cui Chiara non capiva il senso o tantomeno l’importanza, non aveva particolari interessi e spesso le sue considerazioni sfociavano nella volgarità e becera ilarità dei suoi quattro amici sfigati. Ostentava la ricchezza della sua famiglia in ogni luogo potesse mostrarla e etichettava le persone secondo dei primitivi criteri territoriali. Quello spaccia è di Tor Bella.  Al Pigneto stanno tutti scannati La sera fa la figa a Ponte Milvio, poi si fa scopare da uno di Piazza Zama, ti rendi conto Piazza Zama. Il Liceo Scientifico l’aveva faticosamente finito con due anni di ritardo e con l’aiuto di un paio di generose offerte all’istituto scolastico da parte del padre, un imprenditore avvezzo al gioco d’azzardo e le prostitute. Ora era al secondo anno fuori corso di Giurisprudenza alla Lumsa e, l’unica lezione a cui prese parte attivamente, fu il corso di Diritto Romano perchè in seconda fila c’era una ragazza calabrese con un culo di marmo con cui, più volte, tradì Chiara in una dependance di un suo amico al mare, ad Ostia.

  • Guarda che passando di qui si fa prima, ad arrivare in facoltà. Poi questo non è così brutto, dipende solo da come vedi. Si ok, ci sono mendicanti ovunque e i bar non sono granchè, ma è uno dei pochi posti di questa città che mi fa sentire parte di qualcosa.

 

Ultimamente Chiara aveva ricominciato a frequentare con assidua frequenza i vicoli stretti e spigolosi di San Lorenzo, dove il vento soffiava sui tetti e curvava le antenne della tv, il sole filtrava dalle fessure di cielo tra i palazzi e si specchiava perfettamente tra aloni di umido della notte passata. Il quartiere aveva una gradazione cromatica tendente al grigio a causa della totale assenza di decoro dei spazi e beni pubblici, nonostante il colore rosa dell’intonaco di alcune facciate. I piedistalli dei banconi del mercato aperti sulla piazza di Largo degli Osci, rimbombavano tra gli edifici e le indicazioni della disposizione della merce di ambulanti indiani, disturbavano il sonno nei primi piani delle palazzine. Agli angoli della strada, un salubre odore acido di urina, era nascosto dal calore del sole fuso sulla superficie dei sampietrini, i bordi dei marciapiedi erano divelti e appiattiti dal peso dei camion dei fornitori e le bottiglie di vetro, nel retro di un furgone della Centrale del Latte di Roma, vibravano nella manovra di parcheggio su un rialzo pedonale.  Il lastricato di Piazza dell’Immacolata era tappezzato da mozziconi di sigaretta e chewingum, appiccicati immancabilmente alle suole delle scarpe dei studenti del Liceo Macchiavelli che, fragorosamente, raggiungevano le proprie aule e come elementi conclusivi di un’orchestra, completavano la sinfonia mattutina del quartiere.

L’udito di Chiara possedeva una sensibilità acuta e malinconica nel ricordo dei suoni di quei luoghi, che le stringevano il petto e annodavano la gola. Amplificava tutto, anche il secco vuoto dei pneumatici sui sampietrini e il tremolio di una campana nell’aria che, come un tagliacarte, le sezionavano e incidevano la carne

  • Boh io non capisco questa tua ostinazione nel trovare qualcosa di bello in tutto. Non sei obbligata, le cose possono fare anche solo schifo. Tipo questo posto vedi? Questo posto fa solo schifo.

In terza elementare la maestra Annamaria Esposito, indicando delle numerose e profonde buche nel cortile della scuola, insegnò alla piccola Chiara Tedde che le talpe seppur quasi totalmente cieche, riescono a sopravvivere scavando lunghi tunnel sotterranei grazie agli artigli potenti e uno sviluppato senso del tatto. Marta Brighi del terzo bianco, una bambina biondina con una benda rosa sull’ occhio sinistro per curare l’ambliopia, chiese: Se vivono sottoterra, perchè ci sono le buche sul prato? l’insegnate Esposito sorridendo rispose: Perchè sognano il cielo”.

Chiara odiava la metropolitana, ma fino al viaggio del terzo superiore a Londra pensò, che il suo odio, fosse circoscritto alla metropolitana di Roma, in cui sua madre le proibiva di poggiare le mani su qualsiasi oggetto potesse essere stato solamente sfiorato da qualsiasi altra persona a causa di una forma acuta di misofobia. Nel suo immaginario l’underground londinese, per via dei libri di Harry Potter e dei racconti dei suoi conoscenti, era un luogo in cui i passeggeri raccontavano solo belle storie e gli artisti suonavano in acustica le canzoni dei The Smith. Successivamente nei suoi numerosi viaggi scoprì che, indipendentemente dalla nazione, la metro suscitava in lei un senso di malinconia che nessuno slogan pubblicitario o piastrella bianca di King’s Cross St. Pancreas riusciva a toglierle.  Se oggi, alla maestra Esposito avessero chiesto per quale motivo a Chiara odiasse la metro, avrebbe risposto “perchè soffre della stessa malinconia delle talpe. Sogna il cielo. Avrebbe voluto spiegare a Mattia, di quello strana solitudine che provava ogni volta che calpestava la linea gialla di salita e discesa sulla banchina e di come la spaventasse la gente accalcata talmente vicino ai portelloni da risucchiare tutto l’ossigeno di un metro quadrato semplicemente per l’inutile soddisfazione di essere stato il primo a salire. Avrebbe voluto, ma Mattia non avrebbe capito. Per lui il cielo era un soffitto da cui bisognava coprirsi con un ombrello in caso di pioggia. Avrebbe voluto fargli vedere anche le fioriere dei balconi di San Lorenzo, con le petunie più belle di Roma e di come, l’acqua che traboccava dai vasi e cadeva al suolo, profumasse i vicoli e increspava l’olfatto. Glielo fece notare Andrea nelle loro passeggiate cittadine. Lo stesso Andrea che lasciò qualche mese prima per via di quel suo carattere gentile e premuroso che lei credeva di non meritare e che San Lorenzo le ricordava in ogni petalo di fiore. Andrea le mancava tanto, le mancava al punto da sembrarle di vederlo seduto al tavolino esterno di un bar dall’altra parte della strada e, per la paura di averlo a pochi metri da lei e ad un respiro dal cuore, strinse improvvisamente la mano di Mattia e in quel semplice contatto capì quale fosse il problema di Mattia. Non era Andrea.

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Stefano Polidoro
Stefano Polidoro è nato nel 1992 e vive a Sabaudia, una piccola città sul mare. Laureato in Psicologia della Comunicazione e del Marketing, inizia a scrivere con lo pseudonimo del Timido Ubriaco riuscendo a trovare libero sfogo alle parole. Il mio ricordo di te è il suo primo romanzo.
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