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15 settembre 1964
Quando ripresi conoscenza mi trovavo in un ospedale. Mi avevano trovato steso in terra, di notte, con la testa spaccata, in una di quelle strade di campagna che da Bologna portano verso l’appennino. Così dissero. Che cosa ci facessi lì, non lo sapevo. Da dove venissi, non lo sapevo. Un dottore chiese il mio nome. Io non seppi cosa rispondere.
Sentivo la testa vuota e una sensazione di malessere in tutto il corpo. Avevo l’impressione di trovarmi dentro una palla luminosa e intorno a me si muovevano ombre evanescenti. Era un po' come guardare controluce nel mirino di una macchina fotografica con l’obbiettivo fuori fuoco. Mi ci volle un po' per riuscire a mettere a fuoco.
Una donna vestita di bianco si avvicinò al mio letto e mi allungò uno specchietto che teneva dentro la borsetta. Vidi che avevo i capelli lunghi e gli occhi verdi. Qualcuno lì intorno mi disse che era il 15 settembre del 1964, poi una voce profonda attirò la mia attenzione.
«Non ricordi proprio niente?»
«No,» risposi.
«Amnesia retrograda causata da una lesione cerebrale traumatica» disse il primario, mentre mostrava la lastra del mio cranio in controluce sulla finestra. Era girato di spalle. Teneva con nonchalance la mano sinistra nella tasca del camice da dove fuoriusciva lo stetoscopio. Era alto e massiccio, con due spalle larghe e i capelli radi. Quando si voltò vidi che aveva la cravatta annodata malamente e un paio di occhiali da vista spessi come culi di bottiglia. Al suo fianco, sostava impettito un dottorino, molto giovane e minuto, che annuiva con un’espressione seria e attenta ad ogni parola del primario, ripetendone sottovoce le parole.
«Che vuol dire?» chiesi.
«Vuol dire che la tua memoria antecedente all’incidente è stata cancellata» rispose il primario sottolineando con un gesto delle mani la parola “cancellata”.»
Feci cenno di non capire.
«Non spaventarti. A volte è solo per poche ore. A volte per mesi. Solo in pochi casi il danno è permanente» disse accarezzando lo stetoscopio con la mano sinistra sprofondata nella tasca del camice.
«Solo in pochi casi» ripete’ il dottorino. Aveva una voce stridula e ansiosa. Il suo corpo era sospeso in una tensione eccessiva, affettata, come se desiderasse con tutto sé stesso fare bella figura con il primario.
«Da quanto mi trovo qui?» chiesi.
«Sei stato in rianimazione per una settimana» disse il primario mentre mi passava la mano grande e morbida sulla testa.
«Ho dolore dappertutto» mi lamentai.
«Purtroppo, hai anche una frattura al bacino. Non ti sei fatto mancare nulla eh? Dovrai stare immobilizzato per un po', diciamo trenta, quaranta giorni.»
«Posso avere un calmante?»
«Ce l’hai, è nella flebo. Te lo farò aumentare.»
Il primario si chinò su di me puntando negli occhi la luce di una piccola torcia a penna. La spense e mi dette un buffetto sulla guancia.
«Devi avere un po' di pazienza, ti passerà. Coraggio, sei un ragazzo robusto. Ti riprenderai in fretta.»
Il primario uscì dalla stanza, seguito dal dottorino. Io mi addormentai. Mi risvegliai quasi subito con un senso di nausea. Avvertii un odore schifoso, come quello di un posacenere pieno di cicche. Vidi il paziente del letto accanto, appoggiato allo stipite della porta, che tirava boccate dalla sigaretta, soffiando il fumo dentro la stanza. Era piccolo, magro e scavato. Ogni volta che faceva un tiro le sue guance venivano risucchiate rendendo il suo viso ancora più scheletrico.
«Può smettere per favore?» protestai. «Mi dà la nausea.»
Il paziente lasciò cadere la cicca per terra e la schiacciò con la ciabatta, poi si avviò verso il letto e si sedette in silenzio. Ci mise un tempo lunghissimo per farlo. Non aveva più forze. Una volta seduto mi guardò. La sua bocca senza denti si aprì in un leggero sorriso, poi si lasciò cadere sul materasso. L’infermiera entrò nella stanza, sistemò il corpo dell’uomo sotto le lenzuola, gli pose il cuscino dietro la nuca, sollevandogli leggermente e con delicatezza il capo. Finito con lui venne verso di me.
«Devo cambiare la fasciatura. Non ti farò male» mi disse.
L’infermiera si chiamava Patrizia. Aveva un buon odore e un modo di fare svelto e sicuro. Mi trovavo in buone mani, pensai.
«Dove mi trovo?» le chiesi. «In che ospedale siamo?»
«Al Sant’Orsola di Bologna.»
«Io abito qui?»
«Dall’accento ne dubito. Sembri piuttosto un toscanaccio.»
Tolse la fasciatura che avevo alla gamba destra. La pelle se n’era andata in diverse parti, lasciando dei lembi di carne viva. Smisi di guardare. L’infermiera iniziò la medicazione. Il dolore mi arrivò improvviso e senza preavviso al cervello. Fu quasi insopportabile.
«Su, fai l’uomo» disse Patrizia, quando vide che stavo per piangere. «Ho quasi finito.»
Terminò la medicazione e avvolse di nuovo la gamba con delle bende. L’omino del letto accanto aveva seguito tutta l’operazione, sorridendo. Sorrideva sempre. Sorrideva anche quando dormiva. L’infermiera prese il lenzuolo bianco e mi ricoprì, poi lo rimboccò da tutti i lati.
«A posto, adesso cerca di riposare, toscanaccio.»
Nella stanza c’erano sei letti, ma solo due erano occupati. Il mio e quello dell’omino scavato. Si chiamava Ernesto. Era tutto quello che sapevo di lui. Non lo sentii mai aprire bocca e dire una parola. Non credo che fosse muto, forse non aveva la forza sufficiente per affrontare una conversazione. Sembrava chiuso in un mondo tutto suo, fatto di ricordi. Durante il tempo che è rimasto lì, solo una volta è venuto a trovarlo qualcuno, un ragazzo che doveva essere il figlio, con i pantaloni macchiati di vernice e una camicia a quadri consumata dall’uso. Il ragazzo si mise seduto su una sedia tra il mio letto e quello del padre e i due rimasero in silenzio per quasi tutto il tempo. Poi mi guardò e disse:
«Non ne avrà per molto, vero?»
Io lo guardai senza girare la testa, che avevo bloccata da una ingessatura. Gli feci cenno che non lo sapevo.
Ernesto sorrideva. Non doveva aver capito niente di quello che diceva il figlio. Alla fine, il ragazzo si alzò dalla sedia e si chinò verso il volto scavato del padre.
«Ritornerò a trovarti, magari la prossima settimana» gli disse.
Ernesto sollevò la mano e gli fece gesto di lasciargli le sigarette. Il ragazzo poggiò il pacchetto sul comodino e uscì.
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