Oggi, molto tempo dopo, molto più a Nord.
La sedia a dondolo si muove lentamente, avanti e indietro, avanti e indietro, un moto perpetuo ipnotico, accompagnato da un cigolio scricchiolante che ne rivela l’età avanzata, scric…scriiic… scric… scriiic. Ma a parte quel piccolo acciacco sonoro, l’anziana sedia di vimini non dimostra affatto la sua età, porta benissimo i suoi cinquant’anni suonati. Proprio come una distinta signora agée, con qualche dolore sparso alle giunture, afflitta dai soliti malanni di stagione ma ancora in buona forma.
La cupola della chiesa appare e scompare ritmicamente, a ogni dondolio, ora si vede, ora non si vede, scric…scriiic, così come gli alberi che circondano la grande piazza e i palazzi sullo sfondo, come tutti i sacrosanti giorni.
Ma Andrea non ci fa caso, neanche se ne accorge, perché ha gli occhi chiusi, come sempre quando siede sulla sedia a dondolo, davanti alla finestra del soggiorno con le imposte aperte. Non gli interessa guardare quello che c’è fuori, ormai lo conosce a memoria, lo potrebbe descrivere nei minimi dettagli, gli importa solo rivivere i ricordi, vederli scorrere sotto le palpebre chiuse come le scene di un film. Un lungometraggio che ha vissuto in prima persona, in cui è stato per un momento protagonista. Un momento molto intenso e troppo breve. Perché la verità è che Andrea è stato sempre una spalla, non del protagonista assoluto di quella storia, ma dell’eroina, della prima attrice indiscussa della vicenda. Un spalla su cui piangere, a cui aggrapparsi nei momenti di dolore, spesso di disperazione, sulla quale poggiare il capo, gli occhi chiusi, un sorriso leggero che le increspava le belle labbra, una lacrima appesa all’angolo di un occhio. Una spalla che ha lasciato la scena ogni qualvolta l’attore principale ritornava prepotentemente sul set reclamando la sua coprotagonista. E tutte le volte se la riprendeva e gliela portava via.
Quando smette di ricordare e si sofferma a riflettere, Andrea sorride, una smorfia amara che gli distorce il viso ancora bello, nonostante l’età. Scuote la testa e pensa, per l’ennesima volta, che la trama del film che racconta quella parte della sua vita è scontata, la quintessenza della banalità, una storia squallida e vecchia come il mondo: lui, lei e l’altro.
Tre, come il lati del triangolo.
Tre, come il numero perfetto.
Peccato che in quel caso, nel suo caso, perfetto non lo sia mai stato.
Andrea è sempre stato l’altro, l’eterno secondo, il terzo incomodo che però, al bisogno, tornava molto comodo.
Tre, il numero imperfetto.
“Papà io vado, ti ho lasciato il tegame col sugo e la pentola con l’acqua sui fornelli… ricordati di spegnere il fuoco…”.
La voce è un po’ stanca, ma sempre gentile, è limpida come i suoi occhi, due smeraldi un po’ stanchi ma sempre amorevoli. Sua figlia. Giuliana.
La donna rimane sulla porta, a fissare il movimento costante del vecchio dondolo, scric… scriiic, e le spalle del padre che vanno avanti e indietro. Immagina la bella faccia un po’ smagrita, i meravigliosi occhi verdi, ormai un po’ acquosi, chiusi, l’espressione dolosamente sognante. Anche la frase rimane sulla porta, aleggia per qualche secondo nello spazio d’aria tra il corridoio e il soggiorno, in bilico, poi si decide a entrare e raggiunge le orecchie del vecchio. Andrea non risponde, cala la testa in un paio di volte in un muto assenso che Giuliana non vede, ma sa con certezza che lui lo ha fatto. Sorride quasi automaticamente, con la solita stanchezza, e scuote il capo, ormai c’è abituata.
“Allora, ciao… ti chiamo stasera, rispondi per favore sennò mi preoccupo”.
La stessa frase, identica a se stessa giorno dopo giorno, le stesse parole trite e ritrite, un copione triste di una rappresentazione triste con attori tristi. Marionette umane mosse da un demiurgo spietato.
Andrea annuisce di nuovo, alza una braccio e agita il palmo della mano, in un leggero saluto
Giuliana apre la porta d’ingresso ed esce sul pianerottolo, ma un attimo prima di richiuderla lo sente:
sussurrare:
Giuli”.
Rimane pietrificata come colpita da un incantesimo inaspettato e repentino, proprio come succede nelle favole, erano mesi che non sentiva la voce del padre. Apre la bocca che resta muta e le si riempiono gli occhi di lacrime, fa una smorfia che non si capisce se sia di gioia o di dolore e torna sui suoi passi, entra in soggiorno e gli si avvicina.
Scric… scriiic…
“Sono qui papà, dimmi” gli dice poggiandogli la mano leggera sulla spalla.
Lui schiude appena gli occhi e la guarda con un’espressione stupita, le sorride e riabbassa le palpebre.
“Mi hai chiamata?”
Andrea non risponde ma solleva il braccio e poggia il palmo della mano sul dorso di quello della figlia, il tocco è lieve e tiepido.
Scric… scriiic…
Lei fa lo stesso gesto e racchiude le dita del padre tra le sue a formare un panino: due fette di pane morbide che contengono una fetta di prosciutto molto stagionato e non più fresco, al limite dello stantio.
Scric… scriiic…
Lui sfila la mano dolcemente e se la ripone in grembo, Giuliana sospira, gli dà un bacio sui capelli candidi e se ne va. Sa che è inutile fargli altre domande, pero è contenta che abbia pronunciato il suo nome.
Sono passati sei mesi, 151 giorni da quando è tornato da Palermo, era un giovedì di aprile denso di pioggia. Aveva lasciato la Sicilia immersa nel sole, con la brezza marina che profumava di primavera, ed era stato accolto da un improvviso e infido colpo di coda dell’inverno veneto, freddo e lacrimoso. Esattamente come il suo stato d’animo.
Giuliana era andata a prenderlo all’aeroporto, quell’improvviso viaggio del padre, la sua decisione del tutto inaspettata di tornare nella sua città natale, l’aveva spiazzata anche perché la motivazione era stata tanto vaga quanto improbabile. Abbastanza surreale.
“Devo andare a fare le condoglianze a un’amica” le aveva detto al telefono una mattina di ottobre.
“Amica? Che amica? Ma chi è? E chi è morto?” gli aveva chiesto la figlia presa dalla botta, ma come risposta aveva ricevuto mugolii incomprensibili, frasi smozzicare senza senso e un definitivo e granitico:
“Devo andare e basta”.
Le aveva detto che sarebbe rimasto a Palermo un po’, se tutto va bene, aveva aggiunto sottovoce, con la speranza negli occhi di smeraldo, ma evidentemente quella frase appena sussurrata, piena di paura, era stata foriera di malaugurio.
Era tornato lo stesso giorno, in tarda serata.
“Non è andato tutto bene” gli aveva detto la figlia, e non era una domanda.
“No, neanche stavolta” le aveva risposto.
Solo quelle tre parole, nessuna spiegazione, nessun racconto, niente di niente. Punto e basta.
Da quella sera bagnata e grigia era cambiato tutto, ma così lentamente che Giuliana per i primi mesi non ci aveva fatto caso. Non aveva notato le sempre meno frequenti uscite, le sempre meno frequenti chiacchierate sia al telefono che quando si vedevano, fino a quando non si era accorta che ormai era lei ad andare a trovarlo, a volte col marito e i nipoti, a fargli la spesa e a parlare. Lui ascoltava seduto sul dondolo, le mani in grembo, con gli occhi smeraldini assenti, un po’ sperduti, e rispondeva con frasi sempre più brevi, a volte iniziate e lasciate lì, a galleggiare in aria. Oppure non rispondeva affatto, se non con qualche movimento del capo o delle mani. Lei aveva pensato che fosse l’età, visti gli ottant’anni suonati, e si era intristita, faceva fatica ad accettare che il suo meraviglioso papà fosse inevitabilmente invecchiato. Ma una sera, parlandone con suo marito, si era sentita dire:
“Me ne sono accorto, è da quando è tornato da Palermo che non è più lo stesso. Chi lo sa che cosa c’è andato a fare veramente e che cosa è successo”. Per Giuliana era stato come se un’incudine le fosse caduta in testa, come se il cielo nero della notte si fosse illuminato improvvisamente a giorno, aveva ricostruito tutto, fatto due più due, ed era giunta alla conclusione che suo marito aveva ragione.
Quel viaggio a Palermo, qualsiasi cosa fosse successa, o non successa, aveva trasformato il suo papà in una specie di tartaruga muta e paralitica, rintanata nel suo guscio, che non si portava appresso la casa ma un macigno di dolore.
Andare a trovarlo tutti i giorni, cucinare per lui e non sentire mai la sua voce, era stato l’atto successivo di quella che per Giuliana era una tragedia che non le dava pace, anche perché continuava a ignorare cosa l’avesse scatenata ed era certa che non lo avrebbe mai saputo.
Mille e mille volte gli aveva chiesto spiegazioni, lo aveva pregato, implorato, a volte anche maltrattato verbalmente, sperando che gli raccontasse chi era quell’amica, che cosa dovesse andare tutto bene a Palermo, e che cosa invece fosse successo. Quale fosse il motivo della sua alienazione e perché lo avesse reso l’ombra di se stesso. Ma Andrea non aveva mai risposto, solo una volta le aveva detto guardandola negli occhi:
“Lascia perdere, non ci pensare più, non ne vale la pena, forse non è mai valsa la pena… o forse sì. Ma ormai non ha più importanza”.
E da quella volta il capitolo si era chiuso definitivamente, e lei aveva smesso di fare domande.
E invece oggi ha parlato, ha pronunciato il suo nome, e non le importa se non le abbia detto perché. Mentre guida in mezzo al traffico padovano, comincia a sperare che dentro di lui si sia sbloccato qualcosa, implora il Cielo che quel macigno di dolore si stia sgretolando e che lui possa tornare a essere il suo papà. Perché quel vecchio che continua a dondolarsi instancabilmente davanti alla finestra, con gli occhi chiusi, senza dirle mai una parola, lei non sa chi sia.
Peccato che la Giuli che ha nominato Andrea non sia lei.
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