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Il privilegio del disastro

IL PRIVILEGIO DEL DISASTRO
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Consegna prevista Marzo 2024
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C’è un narratore inesperto, schiacciato da un curioso senso del dovere: deve raccontare una storia non sua, una storia che, chissà come, gli è stata consegnata.
E siccome è inesperto, cerca un lettore, uno solo, un compagno di viaggio, o forse qualcuno a cui consegnarla perché la passi ad un altro e così via.
La storia è una storia d’amore come ce ne sono tante ma i protagonisti si credono eccezionali e così vengono puniti per la loro superbia. O forse è solo la vita che distribuisce alla cieca felicità e dolori inaspettati.
E chi si aspetta il dolore? Non a vent’anni di sicuro. E come si sopravvive al dolore, anzi al disastro, alla malattia, al lutto?
Si sopravvive riavvolgendo il filo e sdipanandolo ancora e facendone la tela ben tessuta che il racconto, l’arte, il miscuglio tra verità e finzione, ci consentono.
Racconta il tuo disastro e questo diventerà una bellissima storia di momenti felici ed esemplari.
E così il dolore scompare e il disastro diventa privilegio.

Perché ho scritto questo libro?

Questo libro l’ho scritto per i miei figli.
Perché quello che sanno e quello che ancora non sanno, nella realtà stanno in frammenti sparsi e incongrui e insensati.
Nella forma artefatta sta la bellezza e quella compiutezza che, anche se effimera, è la sola a restituirci senso e pace.
Perché sappiano che c’è stato il disastro ma che c’è anche il privilegio.

ANTEPRIMA NON EDITATA

C’è da dire innanzitutto che io non sono un narratore esperto. Anzi, non sono affatto un narratore e se mi sono messo su questa strada è solo perché non ne ho potuto fare a meno, perché ho la certezza che, se non sarò io a raccontare questa storia, nessuno lo farà e questo, a mio parere, non è assolutamente giusto.

 Sento che non potrò liberarmi da questi pensieri, che non riuscirò più ad averne di diversi addirittura, che non dormirò, non mangerò, non mi innamorerò, se prima non mi libero di questa storia. Devo solo trovare il modo per mettere in ordine le idee, per costruire trama e ordito, per non biascicare banalità in forma di sentenza, per non annoiare i lettori. E devo capire come cominciare nel più adatto dei modi, anche se non so se il modo più adatto è quello in cui si dispiega con cura il groviglio dei fatti oppure quello in cui si confonde e si attrae, in una ragnatela ben tessuta, il lettore mosca riluttante.

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Ma devo pur cominciare e allora comincerò e siccome non sono un narratore e non conosco le regole e gli obblighi, ma neanche i trucchi e gli espedienti che hanno i narratori esperti, comincerò come ritengo meglio. Comincerò da un punto a caso perché, se non sarà l’esperienza a guidarmi, che almeno sia quella forza superiore alla quale io riconosco grandissima importanza e sempre ne ho riconosciuta per come sono andate le cose della mia vita, quella forza irresistibile che è appunto il caso.

Cominciamo dunque dal punto in cui lei, che chiamerò Anita, pensa alla Città. Il posto in cui vi siete incontrati.

Non so esattamente dove si trova Anita in questo momento e quindi proverò a metterla dove a me sembra giusto che lei stia, nel modo in cui mi sembra più opportuno. La metterò alle spalle di lui, che chiamerò Simon, ferma e invisibile ai suoi occhi dal momento che lui, adesso, non vede e non sente perché è troppo concentrato su quello che ha davanti (una pagina bianca), o perché quasi nulla di ciò che gli sta intorno lo interessa ancora veramente. E quindi lei, che non è quasi più capace di pensare ad altro, lei che si sente ormai così prigioniera di ciò che sta accadendo, lei guarda le sue spalle magre e pensa a quando erano forti e diritte, come una diga invincibile contro tutto quello che si teme.

Anita pensa agli anni della Città, e allora le viene in mente un famoso, bellissimo enigma. La parte migliore è che ogni volta che lo vuole proporre a qualcuno, deve rifare da capo tutto il percorso logico che ne dà la soluzione, come se non la conoscesse già, e questo forse perché la sua mente è tutt’altro che logica (infatti non può dire “a destra” o “a sinistra” senza indicarle con la mano). Però quello che le piace è proprio la difficoltà del percorso, come un’escursione in alta montagna, dove la soddisfazione sta nello sforzo di attenzione per non mettere il piede in fallo e insieme nella bellezza della meta.

Si chiama “Enigma delle due porte” o “Enigma delle due guardie”. Sei arrivato davanti a due porte, non puoi fermarti e non vuoi tornare indietro ma sai che dietro a una porta c’è la salvezza e dietro quell’altra la disperazione. Ovviamente nessun cartello indicatore. Davanti alle porte ci stanno due guardie. Puoi chiedere indicazioni ma una di loro ti dirà la verità mentre l’altra ti mentirà sicuramente e tu puoi fare una sola domanda ad una sola guardia. Tutto sta quindi nel formulare la domanda corretta, nel dire la cosa giusta. Una sola possibilità.  La soluzione è perfetta è quindi semplice e ti darà la soddisfazione di aver risolto un problema logico senza eccessivo sforzo e neppure competenza in materia. Chiederai a una guardia cosa ti risponderebbe il suo compagno se gli domandassi di indicarti la porta per la salvezza e, qualunque sia la risposta, sceglierai l’altra porta.

Quindi attraverserai la porta scelta e ti troverai nel luogo cosiddetto “Salvezza”, come desideravi.

Lì sarete in molti, tutti felici, tutti soddisfatti; vi scambierete congratulazioni, mostrerete interesse uno per le vicende dell’altro, forse stabilirete addirittura alleanze, e sicuramente il vostro progetto ne uscirà rafforzato.

Passerà del tempo, non molto perché nella Città il tempo ha un suo ritmo specifico, assai diverso da quello di altri posti, scaduto il quale scoprirete che il luogo così detto “Salvezza” è solo una tappa e che il percorso continua, obbligatoriamente. E così verrai a sapere che, a chi risolve l’”Enigma delle due porte”, si proporrà, dopo un certo tempo, il cosiddetto “Enigma delle tre porte” o “Dilemma di Monty Hall”.

L’”Enigma delle due porte” è roba da bambini (infatti lo si trova anche in alcuni film di animazione) e addirittura viene spesso definito col termine riduttivo di “Indovinello”; ma il “Dilemma di Monty Hall”, quello è roba seria, logica pura. Non ti tirerai mica indietro? È così che funziona: tutte le porte ti si spalancheranno se ne capirai il meccanismo. Devi solo scacciare quella improvvisa, fastidiosa sensazione di trovarti in una ruota da criceti. Che c’entra! Qui è tutta gente brillante e ambiziosa, nessuno stupido roditore, affamato e spaventato. Adesso ti si chiede vera intelligenza e capacità di rischiare. E non importa se il dilemma di Monty Hall assomiglia incredibilmente al gioco delle tre carte o a quello delle tre campanelle: “Questo lo metto qua e questo lo metto qua, adesso lo sposto qua…e la pallina dov’è ? Ecco, alza…e… hai perso! Adesso guarda…adesso faccio… uno due e tre…adesso la pallina dov’è? …E no… invece è qua!…”. E non importa neanche se mentre sale il livello di difficoltà scende quello morale, e Monty Hall non è un filosofo o un matematico ma il conduttore di un gioco a premi televisivo, e invece della Salvezza in palio questa volta c’è un’automobile. Se perderai avrai l’umiliazione di una capra come premio di consolazione e l’esplicita indicazione a tornartene ad attività più adeguate alle tue reali capacità, in un ambiente più consono.

La Città non fa per te, questo ti diranno alla fine gli enigmi, i dilemmi, gli indovinelli, i giochi di prestigio di piccoli truffatori che incontrerai all’angolo di ogni strada, nei passaggi della metropolitana, pronti in ogni momento a ripiegare il tavolino e sparire quando si mette male. Le porte si apriranno e si chiuderanno dietro di te o davanti a te, a seconda dei casi, e tu ti troverai a non poter andare avanti ma neppure tornare indietro e non avrai mai la certezza di aver capito cosa è davvero successo. Perché, se tutto stava andando bene, se correvi instancabilmente giorno e notte sulla tua ruota in mezzo ad applausi e sorrisi, perché tutto è diventato senza gioia e senza speranza?

Perché gli applausi erano registrati e i sorrisi erano smorfie senza sentimento e tu non lo hai capito.

Ma se invece lo capisci e se non hai ancora preso quegli impegni così detti non rescindibili, se non ti hanno ancora legato per la caviglia con una catena abbastanza lunga da poter anche accelerare il ritmo senza provare troppo dolore, anzi facendone l’abitudine, allora puoi decidere di andartene, sei ancora in tempo. Se lo hai capito dovrai solo avere la forza di convincere chi ami a partire con te.

E Anita, dopo i primi anni, era certa di averlo capito. Doveva solo essere molto convincente, perché invece Simon, anche di questo era certa, non lo avrebbe capito mai.

Lui non vedeva l’inganno come inganno. Amava la Città come si ama la riva di approdo, non per niente aveva attraversato il mare per raggiungerla. Ed era proprio lei a ricordarglielo con quei ritagli di giornale che aveva appeso in cucina. La foto di un velista noto per le sue imprese estreme e il resoconto della sua traversata in solitario dell’Oceano Atlantico.

Nella foto, Anita aveva sostituito la testa del velista con quella di Simon: l’affettuosa caricatura di un macrocefalo, tutto occhi, denti e riccioli bruni, stoicamente sorridente in mezzo ai flutti. Intorno aveva disegnato pesci altrettanto sorridenti, con denti, occhi e riccioli uguali ai suoi.

Ma il viaggio è affascinante solo per chi lo ha affrontato per sfida o per chi non lo ha affrontato affatto. Per chi è fuggito, il viaggio è solo un’azione intermedia, che si scorda o si vuole scordare.

Lei adesso sa che migranti di diversa specie hanno questo in comune e quella citazione letteraria che aveva aggiunto al collage della cucina dei 27 metri quadri, ora le suona come una vera e propria stronzata. “Perché navigare è necessario, vivere non è necessario”. Una vera e propria stronzata, scritta da chi non si era mai mosso dal tavolino di un bar che sta davanti all’Oceano (dalla parte giusta, ovviamente), in una città dalla quale, per secoli, tutti sono partiti per sopraffare, rapinare, espropriare.

E Simon che era nato dalla parte opposta di quel viaggio di conquista, lui che era discendente di antichi conquistatori, di ancora più antichi conquistati e di semplici cafoni del secolo scorso, lui che tutto questo aveva dentro di sé, era partito con i suoi 24 anni, la sua bellezza e la sua ambizione e quella paura dell’approdo che non si conosce se non per meravigliosi racconti altrui.

Amava la Città come si ama l’approdo ed era giusto così. Adesso l’approdo era diventato familiare e non perché lo aveva accolto ma perché lui se ne era appropriato, in un movimento di conquista e colonizzazione inverso, al quale sarebbe stato difficile opporsi.

Lui non doveva risolvere enigmi per aprire le porte: a lui bastava sorridere, guardare dritto negli occhi, parlare con quel tono pacato e resoluto, per niente compromesso dall’incertezza della lingua. La cantilena dell’accento che ricordava l’inflessione dialettale di un’altra città del nord, dalla quale erano partiti altri antichi conquistatori e che a sua volta assomigliava all’inflessione del poeta che stava seduto immobile al tavolino del bar davanti all’Oceano sognando il Viaggio, ma anche a quella della cantante che mentre scrivo sta piangendo in sottofondo la  nostalgia per la sua isola africana, in un affascinante gioco di rimandi e disequilibrio, dove l’identità perde definitivamente senso.

Ma allora, possiamo dire, stabilire un senso non era certo una priorità. Allora, per voi, tutto era ancora sospeso, fluttuante, gravido di possibilità; allora, possiamo dire, per voi tutto era ancora da venire, e quando tutto è ancora da venire, non ci si volta mai a guardare indietro, sarebbe comunque un movimento privo di senso.  E comunque, allora, non ce n’era il tempo.

Il tempo, cosa dirò del tempo, che in così poche pagine ho già cominciato a stendere e comprimere come se fosse in mio potere farlo, come se gli avvenimenti potessero avvicinarsi o allontanarsi tra loro a seconda delle mie necessità, come se potessero accavallarsi tra loro, sormontarsi eludendo un ordine che pure c’è stato? Come si fa a parlare del tempo, cosa se ne può scrivere? E se il mio lettore sarà vecchio, sarà ancora capace di ricordarsi di quella percezione del tempo che solo la giovinezza possiede e non ne conosce altra, tempo che è così tanto da sollevarci dal suo pensiero, che non porta con sé né nostalgia né fretta, né avidità né sperpero? Eppure io non posso fermarmi così alle prime difficoltà appellandomi ancora alla mia scarsa esperienza e quindi proseguirò e troverò quelle parole che possono farmi continuare a dire quello che devo dire.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Annalisa Bianco
Sono nata a Torino, ho studiato a Milano ma anche a Mosca. Ho vissuto e lavorato in Francia, in Portogallo e in Brasile e ora vivo in provincia di Siena. Lavoro in teatro da quando avevo diciannove anni e faccio la regista, l'autrice, la docente e la formatrice. Attualmente mi occupo soprattutto di progetti di teatro universitario e di teatro sociale e di impegno civile, intrecciando rapporti, esigenze ed aspirazioni. Ho due figli, tre gatti e mi piace il mare. Viaggio molto meno di quanto vorrei e quindi leggo e scrivo quanto più mi è possibile, per non restare mai ferma.
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