“Uè! Che cazzo fai?” esclamò appoggiando il giornale mentre si stava già alzando per dirigersi verso la sua proprietà parcheggiata sulla proprietà di tutti.
Da dietro l’auto spuntò un cappottino, un cappello di lana, una sciarpa avvolta distrattamente sopra un décollettè magro e bianco e due occhi scuri come scuro lo può essere solo il cielo in certe notti invernali.
“Sta pisciando” dissero quegli occhi “non si vede?”. La voce era sicura ma pacata, di donna, ma un poco rauca e sommessa. Non il rauco donato dalle sigarette o dalle notti insonni, ma dalla tranquillità di chi sa che fra le parole quelle che pesano di più sono quelle non dette.
“Lo vedo che sta pisciando, ma sta pisciando sulla mia auto” sentenziò Adalberto.
“Non proprio” rispose lei con voce ancora più calma “sta facendo i suoi bisogni su una ruota che non ha bisogno di stare in mezzo all’erba. Anzi, a voler ben guardare non potrebbe nemmeno essere qui, cioè non dovrebbe esistere”.
Gli occhi di Adalberto scrutarono il resto di quegli occhi: corpo esile ma nervoso, seno piccolo ma aggrappato al cielo, gambe sottili e tornite ancorate come radici nella terra inquinata dell’aiuola. La mano destra salda sul guinzaglio e la sinistra afferrata a un sacchetto di plastica per raccogliere escrementi.
Non capiva cosa lo attraesse in lei: non era il genere di donna che era abituato a frequentare, anche a pagamento. Troppo bassa, troppo casual, troppo vera. Eppure non riusciva a staccare gli occhi da quegli occhi e a pensare a qualcosa di opportuno e definitivo per porre fine a quell’incontro indesiderato. Lui che era sempre riuscito a mischiare le carte distraendo il baro con la sua parlantina e a strappare voti immeritati all’università con la simpatia del suo cognome.Poi di colpo, quasi involontariamente e stupendosi di quello che sentì uscire dalla sua bocca contornata da barba di due giorni opportunamente coltivata, disse: “Ha ragione, mi scusi. Posso offrirle qualcosa da bere?”. Non aveva mai chiesto scusa, mai. Non aveva mai dato ragione a nessuno, nemmeno quando sapeva di non avere la ragione dalla sua parte. Non aveva mai chiesto scusa, nemmeno alla domestica che da adolescente aveva fatto licenziare, perché incolpata di un furto che non aveva commesso e di cui lui era l’artefice. Ma soprattutto non aveva mai pensato di offrire da bere a una normale, comune passante, con un cane al guinzaglio – Adalberto aveva cani dall’ineccepibile pedigree nella casa in campagna, ma se ne curava il custode – una subordinata insomma.
“No grazie. Magari un’altra volta” rispose lei allontanandosi trascinata senza sforzo dal cane.
Adalberto stette fermo, inebetito dallo svolazzare sempre più lontano del cappottino preso in saldo in un negozio vintage, di cose vecchie cioè, che non lo salutava mostrandogli il culo.
Tornò solo dopo qualche minuto al tavolo del bar, quando le due figure erano due puntini, uno più piccolo dell’altro, all’ultimo incrocio visibile a occhio nudo.
Si sedette, ordinò un altro negroni sbagliato e riprendendo il giornale pensò fra sé: “Magari un’altra volta”. Nessuno gli aveva mai detto magari. E non era nemmeno abituato ad aspettare un’altra volta.
Ma fu quello che fece: per i successivi quattro giorni si sedette allo stesso tavolo, bevendo gli stessi negroni sbagliati, scrutando di soppiatto da dietro il giornale ben piegato il marciapiede e l’aiuola odorosa di erba e merda di cane bagnata, senza più la Cayenne dentro.
Il primo giorno era eccitato, senza capire bene perché. Era sicuro che l’avrebbe incontrata di nuovo, che si sarebbe accorto del sobbalzare di quel lurido cane, bastardo nei geni e nell’educazione. Che avrebbe scorto in lontananza quegli occhi scuri come il profondo di un pozzo senza fondo, simile all’ingordigia anni ’80 di suo padre, che gli aveva lasciato tutto senza mai dargli niente. Avrebbe incontrato ancora quegli occhi sovrastati da un cappello di lana e appoggiati su una sciarpa profumata. Era sicuro avesse un buon odore, nonostante non provenisse da una boccetta da 25 ml a 300 euro.
Arrivò la sera passando fra i minuti che si trasformano in ore. E dovette suo malgrado constatare che digerire un’altra volta era più arduo che levarsi dalla bocca il sapore deciso del caviale e il retrogusto metallico dello champagne. Chiese il conto, tanto per temporeggiare ancora al tavolino, sicuro che la sua speranza sarebbe rimasta tale. Pagò, lasciando il resto come mancia: un lascito abbondante al cameriere di turno, sempre diverso, non per generosità – non sapeva nemmeno cosa significasse tale parola, figurarsi la qualità che la indicava – ma tanto per sottolineare che lui non era un subordinato. Che quello che per lui era il resto di un conto, per altri era il conto del resto di una giornata passata a servire il padrone.
Il secondo giorno era meno eccitato del giorno precedente, ma ansioso. L’ansia aveva recuperato terreno sull’eccitazione, perché un’altra volta era divenuta una volta in più e lui non aveva mai dovuto aspettare. Mai all’aeroporto, mai alla cassa di un ristorante esclusivo né di un negozio assicurato per milioni di euro, mai in posta. Non ricordava nemmeno di esserci mai entrato in quei luoghi a forma di francobollo estruso dall’aria densa di miseria pensionata. Non aveva mai dovuto aspettare un’altra volta perché per Adalberto, figlio illustre di famiglia illustrata su tutte le riviste che contano, la volta era sempre stata ora. Si sedette al solito tavolo, ordinò il solito negroni sbagliato, non aprì il giornale e fissò con lo sguardo di un pesce di tre giorni l’orizzonte del marciapiedi. Era disgustato dall’andirivieni impersonale delle persone: vuote maschere dal pallore malsano, fiato appesantito dalla digestione di cibi di seconda o terza scelta, mani insensibili per i calli e unghie tagliate in modo approssimativo e frettoloso dalle stesse mani a cui appartenevano. Il solo pensiero di doverle stringere gli dava un brivido e per scacciarlo pensava alla cena che lo avrebbe atteso quella sera: salone affrescato del Settecento che si specchiava in tovaglie candide, di lino puro, senza il segno della stiratura, bicchieri di cristallo trasparenti, così trasparenti che facevano sembrare il vino da ottocento euro la bottiglia un liquido capace di aggregarsi alle molecole d’aria, mani ricoperte di guanti bianchi che non avrebbero toccato il piatto su cui gli veniva servita, con ossequioso distacco, la porzione perfetta di cibo al prezzo di uno stipendio da impiegato, e denti sbiancati, sani anche nelle otturazioni, contornati da labbra che non si mordevano, a cui fingere di sorridere. Consolandosi in questi pensieri da privilegiato vide sfuggire anche quella volta, consapevole che avrebbe gustato il dessert nell’attesa di un’altra volta.
Il terzo giorno non era né eccitato né ansioso, solo sconsolato e scocciato. Salì senza rallentare sul cornicione del marciapiede con le ruote gigantesche del suo Cayenne. Scese senza chiuderlo – chi avrebbe mai osato rubare la sua auto? – e si diresse verso il bar. Gettò il giornale sulla sedia a fianco del solito tavolino, occupato da un ragazzo di circa vent’anni. Vita dei pantaloni sotto la media nazionale, capelli ricci da razza mista rasati su una tempia, orecchino da bancarella rionale al lobo, scarpe da ginnastica cucite in qualche interrato cinese, senza lacci, e un piede appoggiato sulla sedia di fronte. “Alzati e va fòra di bale, ma prima pulisci la sedia” disse al ragazzo offrendogli un fazzoletto di seta bianco siglato A.C. in corsivo. Quello lo guardò distrattamente e chiese perché. “Tu non hai il diritto di sapere perché. Anzi non lo capiresti nemmeno, altrimenti ti saresti già alzato. Fallo e basta” sentenziò Adalberto gettando un occhio all’interno del locale. Mentre il ventenne stava per reagire in un qualche modo di cui pure lui ignorava la natura, il cameriere vide la scena e si avvicinò: “Mi scusi tanto signore, provvedo subito”. Si chinò verso l’orecchio attaccato alla tempia rasata e sussurrò qualcosa. Il ragazzo si alzò mentre il cameriere gettava al vento una sorta di giustificazione: “È il figlio del proprietario e …”. Adalberto lo interruppe immediatamente: “Ognuno ha i suoi problemi, ma non devono certo diventare i miei”. Mentre i due stavano per allontanarsi Adalberto li richiamò indietro: “Manca una cosa. Ho detto pulisci” asserì allungando di nuovo il fazzoletto. Il figlio del proprietario, con gli occhi pieni di sgomento e rabbia, prese il fazzoletto. Adalberto prestò molta attenzione affinché le loro dita non si sfiorassero e quando il ragazzo ebbe finito fece per restituire il pezzo di stoffa siglato che avrebbe sfamato una famiglia magrebina per tre giorni. Adalberto lo fissò con non velata superiorità: “Lo dicevo io che tu non capisci un cazzo, figurarsi un perché” e si sedette su un’altra sedia e lasciando cadere a terra il fazzoletto. Fissò immediatamente il marciapiede, quasi sicuro che lei sarebbe stata alle sue spalle e avrebbe confermato l’opportunità del suo comportamento. Invece l’aria era piena di vuoto: i soliti passanti che passano senza lasciare traccia, le solite auto senza dignità per persone indegne, il solito disgustoso squittire di scarpe di gomma da due soldi che nascondono piedi brutti e sudati. Il quarto negroni sbagliato – in realtà era come se ne avesse bevuto solo uno: non finiva mai un bicchiere, esattamente come lasciava sempre qualcosa nel piatto – portò con sé la sera. “Di lei nemmeno l’ombra” pensò. Adalberto non aveva ancora capito che la sera cancella le ombre di chiunque, eccetto quelle dei ricordi.
Il quarto giorno tornò quasi per noia: nessuna angoscia, nessuna speranza. Solo la certezza che quella sarebbe stata un’altra volta come tutte le altre. Si sedette compostamente al solito tavolo, aprì il giornale e sovrappensiero ordinò al cameriere che lo aveva raggiunto: ”Un americano”. Quasi stupendosi di quel suono inusuale perse di vista la riga su cui era concentrato, ma non si preoccupò di ritrattare. Per una volta, per questa volta, poteva digerire un cambiamento nella sua vita ordinata. Il cameriere giunse con il drink appoggiato sul vassoio d’argento. Adalberto spostò il giornale dal tavolo e dagli occhi per fargli spazio e la vide, ferma sul marciapiede, guinzaglio nella mano destra e sigaretta nella sinistra. “Il negroni era sbagliato” pensò fra sé e sé con un moto di vittoria.
Si alzò trattenendo l’impeto che una strana allegria gli stava versando in corpo e, mentre si dirigeva verso il marciapiede pensando: “Chiaro che i negri sono sbagliati, gli americani invece …”, si sistemò il ciuffo con quel gesto che solo chi ha tanto tempo e tanti capelli ben curati può apprendere. E andò incontro al cane bastardo.
“Buongiorno” buttò lì simulando casualità “Senta, volevo solo chiederle scusa” continuò con non poca fatica. Adalberto non aveva mai dovuto chiedere scusa a nessuno e quando anche ne avesse avuto il dovere qualcuno l’avrebbe fatto al posto suo.
“Volevo farmi perdonare: posso offrirle qualcosa da bere?” continuò sempre più fiducioso, rinfrancato da quegli occhi che lo fissavano senza lasciar trapelare emozione.
“Mi chiamo Adalberto. Adalberto Cerruti” concluse allungando la mano destra e constatando che il suono del suo nome era quanto di più lontano ci fosse da quello di un agente segreto.
Da quei terribili e splendidi occhi sbucò una mano con le unghie rosse. “Viola” dissero la mano e gli occhi in un coro ben amalgamato.
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