Quella mattina d’inizio settembre, Isabella Giudice prese posto nella fila al centro dell’aula di teologia all’università Cristiana. Aveva deciso bene di non pettinarsi e i corti capelli rossi erano un confuso groviglio di ciuffi. Sopra la gonna blu indossava una camicia bianca. Gli altri studenti stavano rapidamente occupando i posti e non vedendo arrivare Jordi, Isi posò la sacca sul sedile accanto, occupandolo per l’amico. Poi si acquattò quanto più le riusciva, nel tentativo di nascondersi alla vista del docente che aveva appena fatto il suo ingresso.
Il diverbio avuto da Isabella qualche giorno prima con Romoncelli, sulla parabola dell’albero di fichi, era passato di bocca in bocca, diventando quasi una leggenda.
Isabella Giudice aveva ventidue anni e il cognome che portava era quasi un’istituzione all’università Cristiana. Il compianto Paolo Giudice, padre di Isabella, era stato studente modello, insegnante di letteratura e poi rettore dell’università.
Isi adorava studiare e frequentava l’università per coronare il sogno del padre che la voleva laureata. Ma la scomparsa del fratello maggiore prima e dei suoi genitori poi aveva reso quel frutto acerbo un bocciolo mai schiuso.
Aveva sedici anni quando il fratello, Davide Giudice, era scomparso durante la traversata in solitaria dell’oceano atlantico e da allora lei aveva smesso di sorridere. Due anni dopo Paolo Giudice e la moglie Anna erano morti in un incidente d’auto.
Si era ritrovata a fine liceo improvvisamente sola al mondo ed erede di una fortuna. Suo padre aveva dato disposizione che ad amministrare l’intero patrimonio fosse Adrian Bergh, amico di famiglia e proprietario di uno studio legale in Svizzera. E le disposizioni erano chiare: Isabella avrebbe ereditato il patrimonio di famiglia dopo essersi laureata all’università Cristiana di Milano. O, al compimento del trentesimo compleanno.
Il corso che preferiva era quello di lingue antiche, e trovava che tenere la mente occupata con gli studi la distraeva da pensieri e ricordi che le provocavano ancora fitte di dolore allo stomaco.
Immersa nel verde della periferia sud di Milano, l’università Cristiana è un imponente edificio di mattoni grigi, costruito sul finire del diciassettesimo secolo.
È tra le più antiche e rinomate facoltà. Da qui sono uscite menti brillanti. Presidenti del Consiglio e della Repubblica. Tre papi vi avevano studiato nel corso della sua rispettosa storia. Diversi avvocati ne erano usciti, e molti dottori. Ogni anno, i primi di settembre, il Papa teneva un discorso nell’antica aula porpora.
C’erano alloggi per gli studenti e il grande parco che circondava la facoltà era il luogo ideale per studiare nei mesi belli, all’ombra di una quercia.
Quella mattina gli studenti affollavano i viali d’accesso alla facoltà chiacchierando e passeggiando sotto il tepore del sole. C’era chi preferiva una salutare corsa mattutina nel parco, o chi studiava appollaiato su qualche panchina. L’intera comunità di studenti superava di poco i tremila iscritti. Tra i corsi della facoltà, il più ambito era quello di teologia. Frequentare il corso significava avere quaranta crediti in più ed era risaputo che le menti più illustri erano tutte passate da quel corso.
Jordi arrivò poco dopo di corsa, doveva essersi svegliato tardi. Quando s’infilò goffamente nella fila dov’era seduta Isabella, dei libri gli caddero dalle mani e finirono a terra.
Vedendo la scena Isabella scattò in piedi e andò ad aiutarlo.
Si chinò e raccolse qualche libro.
«Grazie Isi» disse Jordi a bassa voce e rosso in viso.
«Ciao. Svegliato tardi?»
«Non ho sentito la sveglia».
Isi annuì rialzandosi e tornò a sedersi accompagnata dall’amico. Tolse la sacca per liberare il posto a Jordi dopodiché volse lo sguardo verso la cattedra.
«Quando impererò a tenere la bocca chiusa sarà troppo tardi» gli confidò.
Jordi sorrise compiaciuto. «Io ti avevo avvertita di startene buona».
«Sì, lo so» rispose rammaricata per non avergli dato ascolto.
Il docente sistemò dei fogli in una cartelletta e si sedette osservando in silenzio gli studenti. Aveva cinquant’anni. Era un uomo basso e stempiato, con una pancia prominente e il doppio mento.
Isabella si acquattò quanto più le riusciva, cercando di nascondersi alla vista da falco di Romoncelli. L’ultima cosa che voleva era un nuovo scontro verbale e la conseguente attenzione di tutti. Per quanto le teste delle persone riuscissero a celarla alla vista di Romoncelli, il rosso dei suoi capelli doveva essere individuabile come un faro in cima alla scogliera.
In quel momento due uomini fecero il loro ingresso nell’aula. Uno rimase in piedi vicino all’entrata: indossava un elegante abito grigio chiaro. Poteva avere una quarantina d’anni. Isabella lo guardò per un istante, ma non lo conosceva; quindi spostò l’attenzione sull’altro uomo appena entrato. Questi vestiva di nero, o almeno così le sembrava perché la sua attenzione era tutta concentrata sul viso. L’uomo si era spostato verso la finestra che dava sul parco. Isabella riusciva a vederlo solo di profilo, ma c’era qualcosa di malinconico nello sguardo di quell’uomo che la rapiva.
Romoncelli guardò verso l’uomo in grigio, annuì e si alzò. Girò attorno alla cattedra e si mise davanti ai ragazzi, osservandoli.
Istintivamente Isabella presagì qualcosa; d’altronde non c’erano state ancora ripercussioni riguardo la discussione avuta solo qualche giorno prima. Era quindi logico presumere che fosse giunta l’ora della resa dei conti, anche se non riusciva a capire la presenza dei due uomini. Quello vestito di nero osservava il panorama a braccia conserte senza preoccuparsi dei presenti.
«Signorina Giudice…» attaccò Romoncelli.
Ecco ci siamo, pensò Isabella sistemandosi meglio sulla sedia. Il cuore accelerò i battiti. Ma quand’è che avrebbe imparato a starsene un po’ zitta? Si rimproverò nuovamente schiarendosi la voce. «Sì?»
Jordi la toccò con un ginocchio, in un chiaro segno di ammonimento ad andarci piano. Lei gli restituì il tocco con maggior forza, come a dire: “Sì, lo so”.
L’uomo in grigio la stava osservando serio, mentre quello vestito di nero preferiva il panorama oltre il vetro.
Romoncelli guardò verso l’uomo in grigio e questi annuì, quindi il professore tornò a rivolgersi verso Isabella. «Signorina Giudice, come da me richiesto qualche giorno fa, ha riletto la parabola dell’albero di fichi?»
«Non mi piace» sussurrò Jordi.
«Neanche a me» convenne lei, poi rispose. «Sì, professore, l’ho fatto». Con tono pacato provò a chiarire che secondo lei sull’albero non c’erano frutti e di conseguenza non poteva offrirli come doni, cercando di evitare l’ipotesi che la maledizione di Gesù fosse dovuta al fatto che non lo aveva sfamato.
«Non mi sembra che la rilettura della parabola sia servita molto. Vede, signorina Giudice, Gesù ha usato l’albero come un simbolo; lei non deve vedere l’albero di fichi in quanto tale, ma ciò che Gesù vuole indicare».
Tutto si stava ripetendo, esattamente come la settimana precedente, solo che questa volta c’erano i due misteriosi uomini come pubblico aggiunto e a Isabella la cosa proprio non piaceva. In quel momento avrebbe desiderato nascondere le proprie idee.
Non permettere mai a nessuno di zittire il tuo pensiero. Soleva ripeterle suo padre come mantra d’incoraggiamento.
Anche quando le mie idee mettono a rischio la laurea, padre? Pensò torturando un angolo della gonna.
«Forse non riesco a intravvedere la simbologia che lei mi fa notare. Però la mia considerazione potrebbe essere il frutto della visione parziale e sommaria della parabola» rispose sperando che questo mettesse fine a tutto.
Gli studenti ascoltavano in silenzio il dibattito.
Romoncelli annuì soddisfatto dalla risposta ma precisò comunque. «Gesù risponde a Pietro: “abbiate fede in Dio… qualsiasi cosa chiedete nella preghiera abbiate fede di ottenerlo”. Gesù voleva vedere la reazione dei discepoli per poi spiegar loro di non scoraggiarsi. Lui aveva fame e vedendo che l’albero non aveva fichi lo ha maledetto; tutto questo simboleggia il credente che fa una richiesta a Dio e non avendo immediata risposta lo maledice».
Isabella si morse il labbro per non ribadire che lei continuava a vederci un albero morto per mano di Gesù. Annuì. «Cercherò di leggere con più attenzione, professore».
«Diplomatica» si complimentò a bassa voce Jordi.
«Almeno ci provo».
Isabella notò che l’uomo in grigio seguitava a guardarla serio mentre quello vestito di nero continuava a guardare fuori dalla finestra.
Romoncelli annuì. «Le raccomando di essere di larghe vedute. Ora, se volete prestarmi la vostra attenzione, sono lieto di presentarvi il nuovo rettore, il signor Ignazio Deviti».
Ignazio Deviti, l’uomo in grigio, si avvicinò alla cattedra e strinse la mano al professor Romoncelli, poi si rivolse ai ragazzi. «Salve a tutti. Come saprete il precedente rettore è andato in pensione e ho avuto il privilegio di sostituirlo; lo so cosa state pensando, che sono troppo giovane… difatti ho solo trentasei anni, e sembro più un insegnante che un rettore, ma se i membri del consiglio hanno scelto me è perché confidano che possa svolgere al meglio questo mestiere».
Tutti ascoltavano in silenzio.
«Ci saranno diverse novità a partire da quest’anno: a breve sarà distribuita una circolare in ogni aula e affisso un messaggio in bacheca nella sala centrale. Posso anticiparvi che da quest’anno la mensa è cambiata, il menù avrà un’ampia scelta e a mio parere sarà più buono».
Vi furono cenni d’assenso a questa notizia e Deviti sorrise compiaciuto. «È mia intenzione favorire l’attività sportiva perché credo nell’efficacia dell’esercizio fisico. Proporrò al consiglio di attribuire dei crediti a chi lo pratica».
Applausi sinceri seguirono questa novità.
«Però devo anche avvisarvi che non sarà più tollerato alcun ritardo ingiustificato: vi ricordo che questa è un’università con regole proprie e vi richiamo quindi al rispetto delle stesse, come un abbigliamento più conforme agli standard dell’università».
Il rettore Deviti pescò un foglietto dal taschino e lo aprì. «E ora, se permettete, ho qui i nomi dei cinque studenti che quest’anno avranno l’onore di scambiare qualche parola con il Papa, durante la sua visita. Sono: Patrizia Giordano». Una vocina acuta manifestò la sua felicità da una delle prime file: apparteneva a una ragazza dai voluminosi capelli biondi. Il rettore proseguì la lettura. «Federico Mastronna». Lui sedeva nella parte destra dell’aula; molti suoi amici gli strinsero la mano felici per lui e, molto probabilmente, anche un po’ invidiosi.
«Enzo Bubini». Il designato si alzò e ringraziò il rettore con un leggero inchino.
«Sonia Belvedere». Nessuna voce espresse il ringraziamento, perché non era presente.
«E Isabella Giudice».
L’aula si ammutolì. Tutti rimasero sorpresi nel sentire il nome di Isabella; lei stessa inarcò le sopracciglia stupita e subito preciso: «Mi scusi, rettore, credo ci sia uno sbaglio».
Deviti piegò con cura il foglietto e se lo infilò nella tasca interna della giacca. «Nessun errore, signorina Giudice, lei è stata scelta per parlare col Pontefice».
Isabella si rabbuiò. «Perché proprio io?»
«Perché così è stato deciso».
«Con tutto il rispetto, rettore, vorrei rifiutare».
«Lei non può rifiutare, perché il consiglio ha approvato il suo nome. Dunque sosterrà nell’aula porpora la discussione col Papa, sperando che non vada oltre le righe. In questo caso sarò costretto a prendere provvedimenti.».
«Lo sapevo che c’era qualcosa che non andava» asserì preoccupato Jordi.
Isabella non sapeva cosa dire, e qualcosa, forse un movimento dell’uomo vestito di nero, attirò la sua attenzione. Il rettore seguì la direzione del suo sguardo verso la finestra, poi tornò a guardarla confuso. «C’è forse qualche problema, signorina Giudice?»
«Non rispondere!» l’avvertì sottovoce Jordi.
Ma Isabella invece rispose. «Nessuno, rettore, solo mi chiedevo chi fosse l’uomo entrato insieme a lei».
Tra gli studenti si diffuse immediatamente un vociare concitato. Il rettore corrugò la fronte e tornò a guardare verso la finestra, dove l’uomo vestito di nero continuava imperterrito a fissare il panorama. Ma era vestito di nero? Isabella non riusciva più a capirlo, non era in grado di mettere a fuoco i suoi vestiti: ogni volta che guardava in quella direzione, il suo sguardo era catturato dal volto dello sconosciuto.
«Ma che cosa diavolo stai dicendo?» le domandò di fretta e con evidente preoccupazione Jordi. Isabella non capì le parole dell’amico, o meglio le comprese, ma le parvero strane. Il vociare tra gli alunni si propagò rapidamente.
«Può ripetere?» le domandò il rettore, anch’egli confuso.
Isabella si sentì a disagio; guardò l’uomo vestito di nero e vide che continuava imperterrito a scrutare fuori dalla finestra. Però aveva qualcosa di strano: ora che ci faceva caso, anche se non capiva cosa ci fosse che non andava in lui.
Isabella si voltò verso Jordi. «Dimmi che lo vedi anche tu!»
L’amico la guardò sempre più confuso. «Ma chi?»
Il cuore di Isabella impazzì. «L’uomo vestito di nero, lo vedi?»
«Io non vedo nessuno, Isi».
«Signorina Giudice, stiamo aspettando» la informò il rettore. Romoncelli era confuso come tutti.
Quando si voltò, con sorpresa Isabella notò che l’uomo vestito di nero era scomparso… non era uscito dall’aula, se ne sarebbe accorta, era semplicemente svanito nel nulla.
Un groviglio nodoso si formò nello stomaco e il cuore accelerò i battiti. Isabella deglutì e disse al rettore che avrebbe parlato al Pontefice, chiudendo lì la conversazione.
«Questa poi me la spieghi» bisbigliò Jordi.
Una volta usciti dall’aula, terminata la lezione, Isabella e Jordi si avviarono lungo il corridoio est che portava all’entrata della facoltà. «Ti dico che sono sicurissima di aver visto un tizio vestito di nero entrare in aula assieme al rettore» ripeté per la seconda volta Isabella: proprio non le riusciva a far capire il concetto al suo amico. «E io ti ridico che non ho visto nessuno».
La massa di studenti si muoveva con loro verso l’uscita.
Una donna si parò davanti a Isabella, bloccandole la strada. «Isabella Giudice?» le domandò. Indossava un tailleur grigio chiaro e aveva i capelli castani raccolti in una coda. Sul naso portava un paio di occhiali dalle lenti rettangolari e dalla montatura in oro.
«Sì, sono io».
«Oh, bene. Salve, sono Federica Larovere, la segretaria del rettore Deviti: il rettore gradirebbe vederla nel suo ufficio».
Ma che giornata fantastica! «Quando?»
«Diciamo dieci minuti fa?» rispose secca la segretaria, poi fece un rapido cenno e si dileguò tra la folla.
Jordi guardò l’amica e con indice e medio della mano destra disegnò una croce in aria, profetizzando sventure in arrivo.
Isabella lo ringraziò sarcasticamente per l’incoraggiamento mostrandogli la lingua e si avviò controvoglia verso l’ufficio del rettore.
erikablu (proprietario verificato)
Il primo capitolo fa nascere la curiosità, il secondo crea suspense, dal terzo non riesci più a smettere di leggere per scoprire come andrà a finire!! Un libro che ti coinvolge fin dalle prime righe e ti porta al centro della storia assieme ai suoi personaggi ! Da acquistare subito e leggere tutto d’un fiato!
Sonny Richichi
L’inizio del libro è molto promettente e la narrazione avvincente. Copia prenotata: fatelo anche voi!
GIOVANNI (proprietario verificato)
Sin dalla prima pagina ci sono personaggi, ambientazione e mistero: manca solo la continuazione.
Karla Kiky
L’anteprima ha stuzzicato la mia curiosità. In poche righe ho avuto modo di immaginare la protagonista e l’ambientazione nella quale è inserita, ma mentre immaginavo i possibili sviluppi sono stata spiazzata dalla conclusione della breve anteprima. Anteprima e sinossi offrono quel tanto che basta a stuzzicare il desiderio di conoscere la storia per intero permettendo di prevedere chissà quante avventure che, unicamente per i riferimenti all’ambiente accademico e alla religione, mi hanno ricordato le avventure del professor Langdon. Si prospetta sicuramente un’avventura… intrigante.
marziabuzzi (proprietario verificato)
Ho iniziato a leggere il libro ed è veramente difficile smettere di farlo….leggendo non si vedono le parole ma davanti agli occhi si vedono nitide le situazioni che sta descrivendo…Si, un libro avvincente e scritto molto bene
Stefania Moscatelli (proprietario verificato)
Per il momento letto l’anteprima, che dire? Un libro che sicuramente più lo leggi e più lo leggeresti; uno di quei libri che quando arrivi alla fine ti senti persa perché ti mancano i tuoi compagni di avventura.
Loredana Bonizzi (proprietario verificato)
Come resistere?! E’ un racconto avvincente, non mancano le pagine a fiato sospeso. Un libro da mangiare a colazione, pranzo e cena (e per gli insaziabili come me, anche lo spuntino notturno).
Non fatevi ingannare dal titolo, scollegate ogni pensiero e fatevi coinvolgere dalle emozioni che la protagonista riuscirà a farvi vivere.