Ho sempre creduto, fin da bambina, nel potere delle storie.
Nei lunghi pomeriggi invernali della mia infanzia mio padre mi raccontava sempre di un luogo remoto e ignoto alla maggior parte delle persone; un luogo quasi inaccessibile in cui il cielo e il mare si sfioravano, creando increspature sulla superficie dell’anima.
Durante quel periodo noi due trascorrevamo le nostre giornate immersi in storie fantastiche, lui che creava e io che divenivo al tempo stesso ascoltatrice e protagonista.
A volte pensavo che tutte le costruzioni visive edificate dalla sua voce non fossero altro che rappresentazioni del luogo di cui tanto amava parlare. Crescendo, invece, mi resi conto che quel luogo, il posto meraviglioso e unico del quale mi raccontava mio padre, era proprio il salotto di casa nostra.
E poi accadde.
In un giorno qualsiasi di primavera, senza anticipazioni particolari, tornai a casa e non trovai nessuno ad attendermi.
Le finestre erano spalancate e una brezza lieve attraversava le stanze portando con sé un odore nuovo.
Quell’odore, compresi più avanti, era l’irrazionale percezione di un’improvvisa, immediata e irrefrenabile nostalgia.
1
Come un tuono nella notte
Le montagne distanti erano incorniciate da un cielo blu e rosa. Il tramonto era prossimo a manifestarsi e la natura dipingeva sulla sua tela preferita.
Alzai lo sguardo dal pc e venni travolta da quello spettacolo. Trasognata, posai la matita sulla scrivania e rimasi imbambola per alcuni istanti.
Era quasi ora di cena e avevo appena concluso i compiti per l’indomani.
Per un attimo osservai la mia calligrafia graziosa sul quaderno a quadretti e accennai un sorriso.
Dopo tutti quegli sforzi…
Avevo sempre avuto un’indole ribelle, da bambina, ma da dopo papà si era spento anche tutto il resto. Il mondo era diventato improvvisamente un posto grigio e asettico, e anche le mie mani avevano perso il proprio ritmo.
La settimana successiva a quel terribile giorno, ricordo che mia madre era entrata nella mia camera e mi aveva parlato. L’avevo ascoltata in silenzio, senza interromperla, e alla fine avevo annuito. Non ero in grado di darle di più, all’epoca, ma sapevamo entrambe che saremmo riuscite in qualche modo ad andare avanti.
Tuttavia, da quel giorno smisi di suonare il pianoforte e di fare i compiti.
Le mie mani “da principessa”, come le chiamava l’uomo che adoravo, quelle mani che non erano mai ferme, quelle mani che si impiastricciavano continuamente cucinando con mamma, improvvisamente avevano cessato ogni attività.
E quando finalmente ripresero, soltanto alcune settimane più tardi, non erano più le stesse.
Ero cambiata.
Ero rimasta imprigionata in schemi mentali che non avevo mai avuto prima.
E lentamente…
Piano piano…
Ero diventata un’altra persona.
Scostai la sedia, stiracchiandomi.
La mia attenzione venne catturata dallo schermo del cellulare, improvvisamente illuminato.
Il mio ultimo post su Instagram aveva ricevuto molti likes. Il giorno prima infatti, facendo una passeggiata pomeridiana, io e Luke avevamo incontrato un gattino randagio. L’animaletto si era curiosamente inerpicato su un albero ed era rimasto appeso a un ramo, con la coda che dondolava nell’aria.
Dopo essermi scambiata uno sguardo d’intesa con il mio amico, il mio migliore amico, avevo tirato fuori la macchinetta fotografica e avevo colto la palla al balzo per effettuare quello scatto. Successivamente avevo postato l’immagine sui social, la quale aveva riscontrato un successo inatteso.
«Guarda, ha la tua stessa espressione!» mi disse Luke, indicando il gattino e sorridendo.
Eppure non mi voltai, rimasi a osservare lui che rideva spensierato e felice.
Quello sguardo era lo stesso che aveva fin da quando lo conoscevo.
Io e lui ci incontrammo per la prima volta alle medie. All’epoca erano trascorsi appena sei mesi da quando mi si era aperto un varco obliante dentro, e fu anche grazie a Luke che riuscii ad andare avanti.
Non a superare quella mancanza.
Non a vincerla, ma imparando tuttavia a conviverci.
Improvvisamente il cellulare emise un nuovo segnale luminoso.
«Ehilà» recitava il messaggio.
Era Luke.
«Salve» gli risposi, allegando uno smile.
«Ti volevo solo ricordare di riportarmi il libro di inglese, domattina» scrisse.
«Non ti preoccupare, me ne ricordavo. Tra poco farò lo zaino e lo metterò dentro!».
Trascorse qualche secondo, poi sullo schermo del mio cellulare comparve un pollicione lampeggiante.
Ridacchiai tra me e me e allontanai il telefono.
Mi alzai dalla sedia e feci qualche passo, percorrendo la stanza avanti e indietro.
A quel punto mi persi per qualche istante sui pochi oggetti che ne adornavano le mensole e sui peluche di fianco alla scrivania.
Dopo papà, avevo cancellato ogni traccia di me stessa; come se la mia personalità fosse stata una colpa. Quasi come se diventare quella principessa di cui mi parlava lui lo rendesse nuovamente reale, che era poi la cosa che desideravo maggiormente al mondo ma anche quella che mi avrebbe straziato di più.
Ero in grado di sopportare tutto, di gestire tutto, tranne il ricordo dei suoi occhi. Quello sguardo me lo sarei portato dentro per sempre.
Osservai per un attimo il cassettone sotto il letto, nel quale sapevo esserci una gran confusione. Lì sotto erano sepolte le tracce di me stessa.
Abbozzando un sorriso amaro, pensai che quella stanza rispecchiava la mia personalità: era apparentemente ordinata, mentre al suo interno, nell’armadio e nei cassetti, era l’opposto.
Fin troppo spesso mi capitava infatti di perdermi tra i recessi complicati e intricati di me, di smarrire la via e di non ritrovarla.
C’era sempre un gran buio.
Ma non era del buio che avevo paura.
Avevo paura di ciò che vi stava dentro.
Dei miei demoni.
Perciò quando tre anni prima, in uno dei compiti di presentazione del mio liceo, mi chiesero di parlare di me, non riuscii a scrivere una parola. Allora avevo osservato il foglio e non avevo saputo cosa scrivere su me stessa.
Per gli altri, il professore e i miei compagni di classe, quella consegna in bianco non trasmetteva nulla se non uno scarso impegno, mentre a me quel foglio parlava e ricordava quanto fossi incompleta e incompiuta.
Spezzata.
«Eli?» mi chiamò improvvisamente mia madre, strappandomi a quei pensieri.
«Sì, ma’?» le risposi.
«Va’ a lavarti le mani. La cena è pronta!».
«Arrivo» dissi.
«Alexa?» chiamai con tono più basso. «Spegni computer!» ordinai, soddisfatta di avere il controllo su almeno una cosa nella mia vita.
L’indomani mattina mi svegliai presto.
Una lama di luce, filtrando attraverso le serrande alzate, mi aveva carezzato il viso e restituito a questa realtà, privandomi dell’altra.
Bevvi una tazza di latte osservando il cielo fuori della finestra. Presi dunque le chiavi di casa dal mobiletto all’ingresso e poco dopo ero già in strada.
Seduto su un muretto alla fine della via, mi attendeva Luke.
Lui era voltato dall’altra parte e, per qualche istante, mi persi a osservarlo.
Luke era un ragazzo alto, con lunghi ricci mori che gli ricadevano impertinenti sul viso e dei profondi occhi azzurri che gli conferivano uno sguardo glaciale.
Quel giorno indossava dei jeans neri, strappati, e una felpa verde scuro. Lo zaino giaceva a terra come un corpo senza vita.
«Eli!» mi urlò lui a distanza di una quindicina di metri, ora rivolto finalmente nella mia direzione.
Feci qualche passo in avanti, raggiungendolo.
Gli schioccai un bacio su una guancia, guardandolo dal basso verso l’alto.
«Ciao, Lu’» gli dissi.
«Ciao, piccola nerd» rispose lui con una linguaccia.
Gli diedi un pugnetto sulla spalla, quasi insaccandomi una mano.
«Ahi!» esclamai, e l’unica risposta che ricevetti fu un’espressione divertita.
«Dai, andiamo, che se continui a colpirmi in modo così maldestro ti romperai qualcosa!».
Lo osservai in tralice.
Mi ero sempre sentita diversa, in qualche modo fuori posto, ed era proprio in momenti come quello in cui tale sensazione s’acuiva.
Osservandomi attorno, le mie compagne di classe chiacchieravano animatamente dello spettacolo televisivo della sera precedente, mentre io non riuscivo a entrare nel vivo della conversazione.
Io che, con tutti i miei difetti, preferivo rintanarmi nella mia dimensione.
Io che, ancora una volta, non trovavo poesia nel mondo esterno.
Soltanto i libri, i gatti e Luke erano in grado di strapparmi un sorriso. I cieli, invece, mi entravano dentro.
«E tu, Elizabeth? Cosa hai fatto ieri?» mi chiese improvvisamente Amalia, la quale era appoggiata alla parete a fianco.
Amalia era una ragazza bionda, poco più bassa di me, con un bel sorriso contagioso.
Mi voltai nella sua direzione. «Niente di che, mi sono interrogata sul mistero dell’esistenza!» le dissi con tono scherzoso.
Lei parve accettare la mia risposta.
«No, dico sul serio! Non tenermi fuori» aggiunse invece.
O forse non l’aveva poi accettata granché!
Mi voltai verso la finestra. Per un attimo mi persi nell’osservare i ragazzi che camminavano nel cortile. Alzai lo sguardo sul cielo di fronte a me e sospirai.
«No, dico sul serio. E’ proprio ciò che ho fatto» le risposi.
«Ah».
Il trillo della campanella mi riscosse dal torpore riflessivo in cui ero caduta una volta essermi allontanata da Amalia.
Il professore entrò in aula.
Non li notai subito, ma al suo seguito c’erano due ragazzi.
Ogni mio nervo venne come calamitato da un sirenico richiamo e non potei sfuggire allo sguardo del ragazzo più in fondo.
Una felpa larga tentava senza successo di nascondere le spalle ampie e il fisico allenato. La prima cosa che notai fu la sua altezza. Nella sua posa fiera spiccava di fianco al compagno che lo precedeva ed era anche più alto del professore.
Il ragazzo sconosciuto si voltò verso l’aula, indagando i volti con un’espressione accigliata.
Alcune ragazze di fronte a me si lasciarono sfuggire un risolino, confabulando tra sé.
Improvvisamente due iridi d’un marrone chiaro, screziato d’ambra, mi incatenarono alla sedia sulla quale ero seduta, entrandomi dentro.
Volsi lo sguardo dall’altra parte, fissando un punto imprecisato nel muro e interrogando me stessa sulle sensazioni ora lievi, ora intense, che come un’onda impetuosa stavano attraversando i miei oceani interiori.
«Loro sono i ragazzi che si sono offerti di cambiare sezione» disse il professore indicandoli.
Mio malgrado riportai lo sguardo sulla coppia male assortita che avevamo di fronte.
Il primo ragazzo aveva un bel sorriso cordiale, mentre alle sue spalle vi era una nuvola nera che prometteva splendidi lampi.
Come evocata dal nulla, arrivò una pioggia scrosciante. I vetri si riempirono di lunghe scie, increspando la realtà esterna.
Mentre osservavo rapita il mondo vestirsi di lacrime violente, quasi come se io avessi una fascinazione per gli sfoghi emozionali, avvertii una sensazione inspiegabile sfiorarmi la pelle con un tocco vellutato, distante eppure vicino.
Un paio d’occhi mi fissava intensamente.
Non un paio d’occhi qualsiasi, gli occhi di quel ragazzo!
Il cuore perse un colpo, in balìa di un’emozione assurda e inspiegabile.
Ma chi sei? Pensai.
Chi diavolo sei?
- Uragani
Seguii con totale perdizione la bolla di sapone librarsi nell’aria. A un certo punto, improvvisamente, esplose.
Sbattei due volte le ciglia, come se mi fossi appena svegliata da un sogno a occhi aperti.
Ero nella vasca, intenta a fare un bagno caldo. Il vapore inumidiva le pareti bianche e il vetro dello specchio era completamente appannato.
Mossi le gambe nell’acqua, passandomi una mano su un ginocchio.
Il ricordo di quella mattina tornò nuovamente a farmi visita.
I due ragazzi dell’altra sezione si erano seduti in prima fila, occupando dei bachi vuoti.
Il ragazzo più alto era voltato di spalle e per qualche istante mi ero persa a osservarne i contorni ben marcati. I capelli biondi erano molto corti ai lati della testa e più lunghi al centro.
Dopo un paio di minuti circa, mentre il professore aveva iniziato a scrivere qualcosa alla lavagna, vidi il ragazzo senza nome voltarsi in direzione della ragazza alla sua sinistra.
Seguii con lo sguardo i movimenti lenti di lui, calamitata dal viso che scorgevo in minima parte per via delle teste frapposte tra noi.
La ragazza che gli stava di fronte rise e qualcosa s’incrinò dentro di me.
Mi tormentai una ciocca di capelli con la matita e mi morsi le labbra. Era la prima volta che mi sentivo in quel modo, totalmente frastornata.
Improvvisamente si aprì uno squarcio tra la folla ed eccolo lì.
Nel suo profilo ben delineato, il ragazzo senza nome osservava con un’espressione seria la nostra oramai comune compagna di classe.
E io osservavo lui.
Quella mascella virile e quell’ostentata indifferenza…
Mi resi conto soltanto in quel momento di essermi completamente immersa nella vasca.
Aprii gli occhi e percepii la superficie dell’acqua alcuni centimetri sopra il mio viso.
Le luci del soffitto apparivano sfocate e i suoni ovattati.
Riemersi.
Avevo il volto in fiamme.
Doveva essere colpa dell’acqua calda.
Lo era di certo.
«Oggi non sei venuta a trovarmi a ricreazione» recitava il messaggio di Luke.
«Perdonami, sono stata impegnata. Oggi sono arrivati i ragazzi nuovi» gli risposi.
«Ah, sì? Come sono?».
«Uno è simpatico. L’altro… meno!» scrissi con una certa esitazione nelle mani.
Una voce urlò qualcosa dall’altra stanza.
«Sì, ma’?» chiesi di rimando.
«Elizabeth, sono tre volte che ti chiamo! Fa’ la tavola, per favore. E’ quasi pronto» disse mia madre.
«Arrivo!» le risposi.
Posai il telefono sul bordo della scrivania e andai in sala.
Il cellulare, nel buio della mia cameretta improvvisamente abbandonata, continuò a illuminarsi alcune volte.
Lampeggiò.
Lampeggiò.
Infine si arrese, come se lo avessi messo da parte e ignorato.
Come se li avessi dimenticati entrambi: lo smartphone e, con esso, l’interlocutore dall’altra parte.
La mattina successiva Luke era nuovamente sul muretto alla fine della via.
«Ehi» gli dissi sorridendogli.
«Ciao, pulce!» mi rispose con affetto, ma anche con una lieve ombra nello sguardo.
«Tutto ok?» gli chiesi subito.
«Io sì. Tu piuttosto, che ti è successo ieri?»
«Che intendi, Lu’?».
«La mattina sei stata un fantasma, poi ieri sera mi hai lasciato a parlare da solo» mi disse girando il telefono verso di me.
Osservai una lunga fila di messaggi senza risposta e mi sorpresi di me stessa.
Alzai lo sguardo, incastrandolo nel suo, e sgranai gli occhi con aria colpevole.
«Oggi offro io!» gli feci, annuendo con vigore.
«E’ il minimo!» rispose sciogliendosi finalmente in un sorriso complice.
Un istante più tardi, tuttavia, quando credeva che non lo stessi più osservando, si lasciò sfuggire un’espressione per lui insolita.
Sembrava vagamente malinconico.
Non riuscii a comprendere il motivo di una tale reazione, ma misi un piede dietro l’altro per raggiungerlo, dal momento che mi aveva già distanziato di alcuni passi.
L’ingresso di scuola era ancora deserto, così decisi di dirigermi verso la mia aula e di fare un ripasso prima dell’inizio delle lezioni.
Di recente, infatti, la mia mente si era spesso persa in fantasticherie inconcludenti e il mio rendimento scolastico aveva iniziato a risentirne. Considerai dunque che riuscire a dedicare qualche minuto in più allo studio non mi avrebbe fatto di certo male.
Quel giorno avrei dovuto iniziare un nuovo corso. Il mese precedente infatti la professoressa di matematica, che seguiva tutti i percorsi didattici facoltativi, o pseudo tali, ci aveva messo al corrente del progetto di quest’anno: si trattava dell’apprendimento di una lingua o di un approfondimento su una materia specifica.
Dopo vari tentennamenti, avevo deciso di iniziare a studiare giapponese.
Mi sembrava una cosa un po’ assurda e repentina, tuttavia era una lingua che mi aveva sempre affascinato e d’improvviso si presentava la possibilità, ma anche l’onere, di intraprendere un percorso di questo tipo.
Così quel giorno avrei dato la mia risposta alla professoressa. Ero curiosa di sapere cosa avrebbero scelto i miei compagni di classe, anch’essi vittima della medesima assegnazione.
Salii i gradini delle scale due alla volta, attraversata da un’energia che solitamente non mi apparteneva.
Salutai la collaboratrice scolastica, già seduta alla propria scrivania in mezzo a uno dei corridoi, e proseguii oltre.
Sulla parete alla mia sinistra erano appese delle fotografie di una mostra passata. Le osservai distrattamente, quando un’immagine riflessa sul vetro che proteggeva le foto rapì la mia attenzione.
Degli occhi chiari, tendenti al grigio, mi osservavano intensamente.
Spostai l’attenzione sui lunghi capelli rossi che ricadevano morbidi sulle spalle minute e alzai la mano in un gesto sciocco.
Sorrisi al mio riflesso, annuendo soddisfatta. Mi capitava così di rado di essere di buon umore al mattino che tanto valeva godersi il momento.
Distolsi lo sguardo e raggiunsi finalmente l’aula vuota, la quale tuttavia poi così vuota non era.
Il mio cuore perse un colpo e l’entusiasmo col quale avevo raggiunto l’uscio della porta evaporò improvvisamente.
Il mio corpo rallentò fino quasi a fermarsi.
Lui era lì, seduto a uno dei banchi in prima fila.
Era intento a scarabocchiare qualcosa sul foglio, così non si accorse subito di me.
Lo osservai per alcuni istanti, cogliendo sul suo viso un’espressione concentrata e più rilassata del solito.
Mi sporsi leggermente in avanti per guardarlo meglio, quando urtai l’anta della porta, che cigolò sibillina.
Il ragazzo senza nome alzò la testa e il suo sguardo si accigliò improvvisamente.
«Ciao!» dissi un po’ impacciata, sorridendogli.
Lui annuì appena e tornò a rivolgere la propria attenzione al foglio che aveva di fronte.
Rimasi per un attimo spiazzata e subito dopo un po’ delusa.
Tentando di scacciare i pensieri negativi che mi avevano ora avviluppato come abiti aderenti, percorsi l’intera aula e andai a sedermi al mio banco.
Posai le mie cose e tirai fuori i quaderni.
Eppure i miei occhi non guardarono i fogli per un singolo istante, venendo invece calamitati dalla figura che era al centro della stanza.
Osservai il contorno delle sue spalle ben definite e la testa piegata verso il basso.
Istintivamente presi a giocare con una ciocca di capelli, arrotolandola distrattamente.
Quando, circa un minuto più tardi, il cellulare emise una breve vibrazione, mi riscossi.
Era un messaggio di mia madre. Vidi di sfuggita il nome e rovesciai il telefono a faccia in giù sul banco senza leggerne il testo.
Avrei dedicato attenzione a quelle poche righe in un altro momento.
A quel punto, invece, volevo soltanto capire perché mi fossi completamente persa all’interno di quei sessanta, interminabili secondi.
Che diavolo mi sta accadendo!
Poco dopo l’aula si affollò. Alcune ragazze entrarono, lanciando occhiate furtive al misterioso ragazzo che sedeva in disparte.
Amalia mi raggiunse, vestita d’un bellissimo sorriso.
«Ciao, Eli!» mi disse, agitando alacremente una mano.
«Ehi!» le risposi sovrappensiero.
«Hai scelto la materia per il compito della Tam?».
La osservai per un istante, riavvolgendo la mia mente come se fino al quel momento essa fosse stata un nastro sfilacciato.
«Sì, certo!» dissi d’un fiato, come per recuperare il ritardo con cui si erano fatte attendere le mie parole.
«E quindi? Quindi?» chiese lei con un’energia esplosiva.
«Ho scelto di studiare giapponese» le risposi, abbozzando un sorriso.
«Fantastico!» considerò lei.
«E tu, invece?» soffiai.
Amalia parve contenta del mio interessamento, dunque prese una boccata d’aria e disse: «un lungo e complesso approfondimento sulla pittura medioevale».
«Figo» le risposi.
La osservai. Indossava un maglione giallo, largo, e delle bretelle di jeans. Sembrava un’artista, e per la prima volta notai anche dei segni di colore acrilico sulle sue dita.
Mi chiesi se fosse una cosa che le accadeva di frequente, alla quale non avevo mai fatto caso, o se quel residuo di pittura non fosse invece una novità.
Come intuendo i miei pensieri, Amalia, la ragazza che non si era mai mostrata timida o in soggezione prima di allora, nascose le mani dietro la schiena.
Mi fissò con uno sguardo dolce, investendomi con i suoi grandi occhi verdi, e mi fece un occhiolino.
«Vado, a dopo!».
«O-okay» le risposi biascicando un po’ le parole, sorpresa.
Nel frattempo il professore era appena entrato in aula. Mi volsi nella sua direzione assieme a tutte le altre teste lì presenti.
Tutte, eccetto una.
Uno sguardo penetrante mi fissava di sottecchi.
Il mio cuore accelerò nuovamente.
Dannazione, è proprio il caso che vada a parlargli!
Quando suonò la campanella, tutti si affrettarono a uscire.
Tentai di recuperare le mie cose nel tempo più breve possibile, ma persi comunque di vista il ragazzo-senza-nome.
Uscii dall’aula quasi correndo, guardandomi appena attorno, quando urtai improvvisamente qualcuno.
Lo zaino si aprì e i libri si rovesciarono a terra.
«Tutto bene?» mi chiese una voce gentile.
Alzai lo sguardo e scorsi un sorriso cordiale.
«S-sì» bofonchiai imbarazzata.
«Aspetta, ti aiuto» mi disse il ragazzo. «A proposito, io sono David!».
«Elizabeth» risposi allungando una mano verso la sua.
«E’ strano che ieri il professore non ci abbia presentati alla classe. Intendo me e Lucian!» disse lui mentre mi aiutava a raccogliere i libri.
«Già, infatti!» risposi io, con mille voci nella testa.
Lucian, dunque. E’ così che si chiamava.
«Bene, tieni. Questo era l’ultimo».
«Grazie!» dissi io chinando leggermente il capo nella sua direzione.
«Ci si vede!» affermò infine lui, facendomi un occhiolino.
Rimasi di stucco per un istante, senza sapere bene come reagire.
Dopodiché emisi un verso che avrebbe voluto essere una risposta d’assenso ma che risultò semplicemente un mugolio incomprensibile.
Calma, Elizabeth! Stai calma!
Con un fitto dialogo nella mente attraversai i lunghi corridoi asettici della scuola e uscii.
Il giardino esterno era quasi vuoto ormai.
Rassegnata all’idea di aver perso il mio obiettivo, mi diressi verso casa.
Una volta uscita dal cancello e svoltato l’angolo, tuttavia, lui era lì.
Appoggiato con le spalle contro un muro, osservava il cielo con sguardo indecifrabile.
Rimasi lì imbambolata come una scema per diversi istanti, tentando di decriptare quel ragazzo e, con lui, me stessa.
Per la prima volta nella mia vita sentivo di provare qualcosa che non conoscevo. E questo mi terrorizzava.
Eppure, in quella paura, mi scoprivo improvvisamente viva come non mi sentivo da tempo.
Mi avvicinai a lui.
Il ragazzo alzò lo sguardo su di me, per un attimo sorpreso.
«Mi hai aspettata?» gli chiesi ingenuamente.
Lui sgranò gli occhi.
«Voglio dire…» feci, arrestandomi subito.
Cosa diavolo stavo dicendo!
Avvampai per l’imbarazzo.
Stavo per voltarmi e andarmene quando la sua voce mi trattenne.
«Perché mai avrei dovuto attenderti?» mi chiese semplicemente.
Era una domanda naturale, comprensibile, eppure il tono duro che aveva utilizzato mi fece salire una rabbia improvvisa.
«Va bene, ho capito. Non c’è bisogno di rispondere così però!» gli feci, indietreggiando di un passo.
«Non mi seguire più!» aggiunse lui.
«Cosa?» chiesi stupita.
Avevo compreso perfettamente ma non riuscivo a credere alle sue parole.
«Smettila di seguirmi, ho detto. E non rivolgermi più la parola!».
Qualcosa dentro di me si ruppe.
Stava per salirmi su un rigetto di parole, ma tacqui.
Lo osservai incredula per un istante, dopodiché mi voltai e andai via.
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