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Il salto di Adam

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Consegna prevista Luglio 2025
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È la storia di una amicizia tra un uomo primitivo ultimo discendente della sua tribù sopravvissuta negli anfratti inesplorati di una zona selvaggia dei monti Appalachi e due bambini rimasti improvvisamente senza genitori che si ritroveranno a condividere un analogo destino. Insieme daranno vita a una famiglia sui generis che comprende un pastore d’anime in crisi e una professoressa di scienze decisa a lasciarsi alle spalle una vita fatta solo di lavoro. Adam sarà il loro punto d’incontro ma anche l’inizio di un cambiamento traumatico e fantastico nelle loro esistenze e in quelle di coloro incontreranno.

Perché ho scritto questo libro?

Adam è una storia che ci riguarda tutti perché parla di evoluzione, sentimenti e contraddizioni. Non potevo lasciarla dentro di me.

 

Immagine banner: Giorgio Piccaia

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Alla notizia che di quella serena famigliola ne era rimasta all’improvviso la metà e che l’altra era andata in cielo, non tutti reagirono allo stesso modo. Quanto ai sopravvissuti alla disgrazia, fino alla sera dell’incidente, Jody e Jimmy per anni erano stati dei bambini straordinariamente felici pur senza rendersene conto. Un secondo dopo che seppero della tragedia, realizzarono subito quanto quella cosa impalpabile che in casa si respirava ma di cui nessuno di loro due s’era mai accorto avendola scambiata per la normalità, quel sipario di luce che si attraversa in una grotta, quella roba cui nessuno dei due aveva mai dato peso e la cui assenza ora li trascinava in basso con una forza inarrestabile, quel battito d’ali in grado di lasciare una polvere d’oro sulle loro mani, negli abbracci, nelle carezze, nelle parole che si scambiavano, anche per dirsi le cose più banali, fosse irrimediabilmente perduta. Come un palloncino che prende il volo, una caramella ingoiata per sbaglio. Di loro due, infatti, si diceva avessero avuto una famiglia molto serena alle spalle, almeno stando a quanto riferito dai vicini che l’assistente sociale si premurò subito di intervistare dopo il fattaccio per capire se qualcuno potesse occuparsi dei due figlioli, per il momento almeno, in attesa di un affido temporaneo, come d’altronde temporanei sono tutti i fatti della vita.  Saputo la notizia dell’incidente dalla bocca della solerte funzionaria, dalle labbra carnose e ritoccate sempre più spesso negli ultimi mesi, a guisa di un pesce che non riuscendo a cacciare la preda muta l’aspetto per questioni di sopravvivenza, qualche d’uno dei vicini non trattenne la commozione, altri più maligni la simularono per bene.
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Ma agli occhi di una certa signora che l’assistente sociale intervistò per ultima quel pomeriggio, la quale viveva a poche decine di metri dalla loro villetta, ‘quel che deve accadere accade e non serve disperarsi’. Al che la funzionaria strabuzzò gli occhi, cessò per un istante di ripensare a quanto le era costato l’ultimo ritocco a quelle labbra carnose ormai fuori misura. A lume di naso, un bel nasino di cui andava molto fiera anche perché non avrebbe mai dovuto spenderci un dollaro, l’assistente sociale capì subito che doveva andare a fondo alla questione. Accettò, quindi, l’invito a prendere un caffè nella casa di quella signora un po’ singolare e piuttosto avanti con gli anni, forse una settantina portati bene grazie a un fisico asciutto, che se ne era uscita con quel commento tanto sibillino quanto fuori luogo. Dal nome riportato sulla traghetta sulla porta si accorse che la stessa signora anni prima era stata a sua volta segnalata ai servizi sociali per certe sue stranezze, quando ancora le sue labbra erano intoccate dai proventi della chirurgia estetica, segnalazione che tuttavia non riusciva a spiegarsi dalla lucidità che trapelava dal suo modo di fare, garbato e risoluto. Entrando in casa, allietata da un vago profumo di incenso alla vaniglia e impuzzolita da un sentore felino, la funzionaria notò con acume un disordine da inconveniente igienico, non tanto per la pulizia dei locali o per la presenza dei gatti che a uno a uno sbucavano qua e là a darle il più diffidente benvenuto, ma poiché compiuto qualche passo oltre lo zerbino, non credette a ciò che le si parava dinnanzi. Non si poteva quasi camminare tra pile di libri più alti di una persona che le si ergevano davanti. Volumi sparsi e variopinti che occupavano tutto l’impiantito e che ergendosi alti come colonne fino al soffitto impedivano di capire la pianta della casa. L’assistente sociale, che di nome faceva miss Anderson, non resisteva alla curiosità e a ogni passo piegava senza farsi troppo accorgere il collo fino a sbirciare i titoli riportati sul dorso dei volumi impilati.

   “Che ha il torcicollo, signora?” le chiese la padrona di casa che la precedeva con passo sicuro tra quelle torri di carta.

   “No, no: è che amo i libri e sono anche curiosa di sapere cosa legge” si schermì l’assistente sociale.

   “E che li ha mai detto che li leggo? Mi fanno compagnia, tutto qui”.

Le pile sembravano essere accatastate alla rinfusa ed essere lì da tempo immemore, ma poteva anche esserci un ordine nascosto fu portata a pensare Miss Anderson che non a caso gestiva anche l’archivio del suo ufficio. C’erano certi tomi di metafisica che costituivano le pile più alte, una spanna in più della funzionaria che pur non era bassa e poi libri d’avventure dalle copertine ingiallite e altri ridotti male che parevano essere stati raccolti nei cassonetti. Nel circondario quella strana signora passava per una un po’ stramba, per via dei gatti e di certe sue abitudini non meglio specificate. Ma per altri ci vedeva lungo e veniva segretamente consultata sempre di nascosto sulle più svariate questioni. La signora di nome faceva Eusebia e fece accomodare l’inaspettata visitatrice in uno dei pochi angoli rimasti sgombri del salottino, su un divano color verde pisello. Al che, con tono ufficiale, Miss Anderson prese a raccontarle della disgrazia accaduta ai due fratellini, i quali da un paio d’ore avevano scalato d’un balzo le sue priorità operative. Eusebia la stette ad ascoltare paziente, gettandole occhiate comprensive da sopra gli occhiali d’oro che portava sulla punta del naso, poi le confidò con voce sottile ma dal tono stentoreo che non c’era bisogno di tante chiacchiere perché sapeva già tutto. Quei due lei li aveva visti crescere di là della strada e secondo la sua opinione erano due anime che riscendevano puntualmente sulla terra a fare un altro pezzetto di strada insieme. L’assistente sociale si beveva quel racconto con la massima attenzione, non escludendo di tornare più tardi, ovviamente una volta sistemato il collocamento dei due neo-orfanelli, con un provvedimento sanitario obbligatorio per la signora, ma che ne sarebbe stato dei gatti? Sarebbe toccato a lei trovargli una sistemazione?

Eusebia proseguì nel suo racconto. Non ne aveva mai fatto ovviamente parola ai due fratellini di questa cosa della reincarnazione le volte in cui li incrociava ciondolare per strada, sempre davanti a papà e mamma, o li aveva osservati di nascosto giocare a palla nel loro bel giardino a pelo raso.   Li stava a guardare con un moto di affetto, sapendo che quell’idillio non sarebbe purtroppo durato a lungo. Glielo avrebbe pure detto di godersi quei momenti, ma se l’avesse fatto certo l’avrebbero presa per una strega o magari rinchiusa, come era già successo una volta quando, molti anni prima, mise sull’avviso un uomo in fila alla cassa di supermercato di non mettersi in viaggio l’indomani. L’uomo l’aveva derisa davanti a tutti i clienti, ma il giorno seguente la sua auto venne travolta da un camion, confidò a una sempre più sbalordita Miss Anderson che tra un sorso di caffè e l’altro cercava di appuntarsi i fatti sul suo taccuino di simil pelle per poterli poi esaminare con calma nel suo ufficio di assistente sociale.

   “Lasci che le dica che è inutile che scrive cose sul mio conto, tra un po’ non ci sarò più. Gradisce ancora un altro goccio di caffè, piuttosto?”

    “Niente di personale, fa parte del mio lavoro” rispose tra il seccato e l’imbarazzato Miss Anderson.

    “E dove pensa di andare? Qualche bel viaggetto?proseguì per alleggerire l’atmosfera che si era fatta subito pesante.

Eusebia rimase in silenzio e vide sul volto della sua interlocutrice questa volta non il futuro, ma il passato della donna che trapelava ben chiaro sotto l’ampio trucco che le ricopriva l’ovale del viso paffutello a forma di ciliegia: la ricerca spasmodica e infruttuosa di un uomo giusto che non era mai arrivato e, se mai fosse arrivato, sarebbe durato il tempo di qualche giorno, e questo la inteneriva.

In effetti questa cosa dell’origine lontana della loro fratellanza, Jody e Jimmy la intuivano, ma non ne avevano mai parlato.  Non ce n’era mai stato bisogno di dirselo, che erano vecchie conoscenza l’uno per l’altra. Eppure, quando seppero che papà e mamma non sarebbero più tornati a casa né quella sera, né per il resto delle loro giovani vite, poiché erano partiti per un viaggio senza ritorno senza nemmeno un ultimo saluto, sentirono il bisogno di verbalizzarlo. ‘Ci sono qua io, tranquilla, come sempre’. E se lo dissero nello stesso momento, mentre un doppio pianto a dirotto non smetteva di bruciare la pelle delle loro guance che si sfregavano in un abbraccio che cercava di scalzare la morsa di quel dolore lancinante. Spuntò persino un sorriso, come un raggio di sole che buca nuvole cariche di lacrime. Jody riuscì anche a dire Flick o Flock? con il salato dei lacrimoni sulle labbra da principessa che sfuocava l’immagine dello psicologo, il quale convocato d’urgenza dalla polizia stradale, si era avvicinato a loro e aveva provato a stringergli a sé con malcelato imbarazzo tra il puzzo di fumo che emanava dalla sua giacca di tweed da nobile decaduto, mentre gli comunicava che da quel momento ‘papà e mamma erano in cielo’. Già loro non sarebbero stati più felici, mentre prima lo erano stati eccome. Tuttavia, non ci si erano mai soffermati più di tanto su quella cosa là. O solo qualche volta, di sfuggita, ma solo quando la mamma li invitava a rendere grazie al cielo per la loro famiglia e per tutti i doni ricevuti. Poi avvenne, e caspita se avvenne, che i due fratellini quella sera, da un momento all’altro, si ritrovassero infelici, come infradiciati da un secchio d’acqua gelida durante un bel sogno, ma questo lo seppero nitidamente dalla punta dei capelli alle dita dei piedi, non c’era bisogno che nessuno psicologo glielo chiarisse.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Gianluca Donvito
Gianluca Donvito è cresciuto a Milano che considera la sua città nonostante sia nato a Roma nel 1966. Si è laureato in tarda età all'università Statale di Milano prima in Comunicazione e quindi in Scienze Cognitive e lavora in una multinazionale neozelandese nel ruolo di impiegato commerciale. Ha una famiglia tribù dove nessuno ha la pelle di colore uguale all’altro. Con bookabook ha pubblicato “l’amico italiano”, storia di un volontario che decide di lasciare la sua comfort zone per andare a combattere a fianco del popolo curdo.
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