-Veramente, non sono mai stato libero come adesso- borbotta Moris.
Con una mano si accarezza distrattamente i brufoli sul mento, con l’altra stringe il microfono stetoscopico che si è costruito con un bicchiere per ascoltare attraverso il pavimento quello che dice lo strizzacervelli al piano di sotto.
Il tizio è partito anche peggio del previsto, parlando di lui come di uno che si è autoimprigionato. Banalità.
-Non vi nascondo che , in questa fase del suo disturbo, uscire da quella camera potrebbe spingere Moris a contemplare il suicidio.
-Contemplare?- sbotta suo padre.
Moris se lo immagina che si protende verso il medico per prendere più peso nella conversazione.
-Altro che contemplare. Pensavo che quelli del distretto sanitario glielo avessero detto: quando abbiamo staccato la corrente per costringerlo a spegnere il computer lui si è fatto trovare in piedi su una sedia, la cintura dell’accappatoio intorno al collo, bell’e pronto a saltare giù se avessimo insistito.
Lo psicologo tace, poi starnutisce, poi si scusa, poi si soffiail naso, poi dice qualcosa, sicuramente di grave (abbassa il tono di voce e lo stetoscopio restituisce a Moris un suono indistinto, con qualche O e parecchie E).
-Per il momento sì- risponde prontamente sua madre, qualunque fosse la domanda. Starà accarezzando il gatto per darsi un tono. Gli incontri con i medici sono molto duri per lei: si convince ogni volta che la clausura di Moris, “chiedo scusa, il genere di vita da lui scelto da quasi un anno a questa parte”, sia tutta colpa sua.
Trovano sempre il modo di dire che dipende dalla madre, si lamenta col marito alla fine di ogni seduta; e lui risponde: Veramente non l’hanno detto, e comunque non proprio tutto. E si capisce che in verità lo pensa anche lui, una convinzione confortevole a cui non rinuncerebbe per niente al mondo.
Come al solito gli adulti non si sono detti nulla di significativo nell’ora buona di conversazione.
-Le dà fastidio il cane in giardino? Vuole che lo teniamo fermo?
.
-Nessun fastidio, è solo che come vi dicevo sono un po’ allergico, se per voi fosse possibile dal prossimo incontro venire nel mio studio…
-Impensabile lasciare Moris da solo- si precipita a dire sua madre prima che la proposta attecchisca nella testa del marito, che invece, come il dottore e persino suo figliopensa: a ben vedere Moris è sempre solo.
-Allora mi porterò qualche fazzoletto in più- dice il dottore con una gentilezza melliflua, All’istante Morisse lo immagina grasso e rubicondo, con una fede troppo stretta all’anulare e una minuscola ferita da rasatura sulla guancia (lui ha un foruncolo pronto a scoppiare nello stesso identico punto).
A noi che possiamo vederlo, lo psicologo sembra piuttosto giovane, non fosse per i capelli completamente persi per strada già da diversi anni, gli stessi che lo hanno portato a interpellare gli oracoli dei giovani che soffrono il mondo così tanto da trasformarsi in moderni eremiti, come li definisce, quasi con invidia, uno psicologo suo concorrente di cui Moris è fan sui social, naturalmente sotto falso nome.
Il ragazzo aspetta di sentire il motore dell’auto che si allontana prima di buttarsi sul letto sollevando sbuffi di polvere e puzza di sudore. Quell’odore a lui non dispiace: è la prova che il suo corpo esiste ancora. Nonostante tutto. e lo aiuta a dormire: da quando vive in camera da letto ha preso la strana abitudine di addormentarsi all’improvviso, nelle posizioni più strane e sempre per poco tempo. Perlopiù di giorno.
A tenerlo sveglio di notte ci pensano i messaggi dei complici delle sue imprese online, che a tutte le ore illuminano la schermata o gli fanno vibrare il tablet con richieste urgenti di password e proposte indecenti di hackeraggi irresistibili. Ma anche le partite a scacchi nel deep-web con cui finanzia parte delle sue attività illecite (è di notte che vince, quando gli avversari insonni si lasciano fare una forchetta dopo l’altra e poi si convincono che non gli succederà più e implorano la rivincita e la rivincita della rivincita). Per non parlare degli insopportabili acuti del nuovo cane, Dobby, che da quando lui si è spontaneamente sequestrato in cima alla torre si è trasformato in un vero cane da guardia e abbaia a tutto ciò che si muove, lancette comprese.
Di giorno invece lo tengono sveglio le lettere, quelle che il postino consegnava puntualmente, e che lui ha letto e riletto, e adesso quelle che non arrivano più.
-Moris?
-Che c’è?
-Posso entrare?
-Per?
-Dirti una cosa.
-Puoi dirmela da lì.
Sua madre si schiarisce la voce.
-È tornata indietro anche l’ultima lettera che hai spedito laggiù.
Lo sapeva. Maledizione. Lo ha vistonelle foto dal satellite . La zona della foresta dove lei viveva cambiare senza rimedio nel giro di un paio di giorni. L’acqua impetuosa affogare terreni e case. Ogni due minuti i satelliti scattavano una nuova foto, e un altro pezzo era sparito sotto la marea fangosa.
Al pensiero che nessun altro al mondo assistesse in apnea come lui a quello spettacolo osceno, che nessun altro dedicasse tutto il suo cuore a testimoniare quell’immensa cancellazione, Moris aveva pianto silenziosamente, le lacrime che gli invadevano le occhiaie e gli rigavano le guance, senza nessuna diga che le rendesse in qualche modo efficienti.
Perciò, lo sapeva che anche questa lettera sarebbe tornato indietro. Lo sapeva. Ma fa male lo stesso. A un tratto, però, una curiosità: come mai i suoi non hanno parlato allo psicologo rubicondo delle lettere alla giovane india dall’altra parte del mondo? Non volevano esagerare con le stranezze?
Si alza controvoglia, apre uno spiraglio attraverso cui viene infilata la sua lettera rimbalzata contro il cemento armato di una diga nella foresta. Chiude la porta, stavolta a chiave, per affermare la sua opposizione al flusso degli eventi, che travolge le cose migliori, le case più fragili, e le storie ancora da vivere. Ispeziona la busta per controllare che non sia stata aperta, lasciando cadere alcune gocce di solvente sul risvolto per verificare che la colla sia ancora quella che aveva usato lui per chiuderla prima di spedirla.
Poi la ripone nella scatola dove conserva tutte le lettere.
Le lascia lì chiuse, a invecchiare un giorno alla volta insieme a lui.
Anche il sole invecchia un giorno alla volta, diceva sempre la nonna di Ester, “credimi, bambina, io il sole l’ho conosciuto prima che facesse male”.
-Tu ancora eri avvolta dalla polvere di stelle e io già sentivo che un giorno saresti arrivata e che ti avrei amata più di ogni cosa al mondo, più della figlia mia. Sarà che da vecchi non importa che i conti tornino, e non ci resta che contemplare i bambini, onorare i morti… e salvare la foresta.
E quando poi ad avvolgerti è stata la pancia di tua madre, con quei vestiti di colpo stretti e sempre sbiaditi dall’acqua ruvida del fiume, c’erano già cinque nipoti, e già si era cominciato a parlare di questo grande diabolico progetto, con “nove stazioni di pompaggio, ventisette acquedotti, otto tunnel e trentacinque dighe di contenimento”. Ho dimenticato qualcosa?
-Non saprei, nonna.
-Be’, mi pare sia tutto. Sembrava un piano così pazzo che all’inizio noi abitanti della grande ansa non ce ne siamo preoccupati. Beata ingenuità, che se in una persona è una bella cosa – lo imparerai –, in un popolo intero è una vera tragedia. Dovevamo capirlo che l’improvvisa assenza di nidi di bata sugli alberi era un segno. Ma forse ci saremmo solo giocati un anno o due di spensieratezza. Ad ogni modo, quando in siamo resi conto che il governo aveva intenzioni serie era già troppo tardi per fermare le ruspe, e gli scavatori, e le colate di cemento. E questo è quanto.
Ester ci pensa su. Una domanda le preme da dentro, pronta a spuntare, e poi a esplodere, come i fastidisi brufoli che da qualche settimana riesce a occultare con la nuvola di capelli per non mostrare troppo presto la deflagrazione del viso. Da dietro quel crespo sipario – che le permette di sbirciare il mondo senza essere scrutata di rimando – ora guarda il cielo gravido di pioggia che oscilla sugli alberi all’ora della siesta, che fa cigolare il legno a cui sono appese le amache e suscita anelanti sospiri alle rane. Si morde il labbro di sotto e sente l’alito caldo che le si infila fuori dalla fessura tra i denti come lo sfiato della pentola a pressione, divinità tangibile adorata da tutte le donne della comunità.
Se non la porrà immediatamente, la domanda le gonfierà la pancia fino a farla esplodere, e lei stessa andrà in mille pezzi come, come…
-Che aspetto ha la terra quando affoga?- prorompe infine.
La vecchia sussulta e punto il suo sguardo ceruleo nel mezzo del nulla. Si è fatta venire la cataratta pur di non vedere se stessa che dice addio alla casa della sua vita. Al cortile dove fin da bambina ha letto il futuro nell’occhio bianco dei fagioli e sistemato il caucciù in ceste di vimini imbottite di iuta, e poi seppellito fratellini morti di malaria e figli adulti chiamati dal cobra o dalla febbre gialla. Adesso per colpa della diga rimarranno soli per sempre, non solo sotto terra, ma pure sott’acqua.
Sporge dall’amaca la guancia rugosa e sputa sulla terra battuta. Guarda verso Ester anche se non la vede.
-La terra quando affoga si intristisce molto, però non muore, ricorda. Rimane per molto tempo muta, come i pesci che le nuotano sopra e intorno e che lei scambia per uccelli, perché le mangiucchiano addosso le cose che continua a partorire, nonostante tutto. Anche la nostra casa affogherà, ma nemmeno lei morirà. E magari, forse, i tuoi zii morti, ora che non ci saremo più noi a importunarli con le nostre pene da poco, potranno almeno tornare a viverci, e si sdraieranno a fumare le loro pipe di caoba sulle stesse amache su cui dormivano da bambini. Le loro bolle piene di fumo affioreranno, ma non ci sarà nessuno a scoppiarle: per chilometri e chilometri non ci sarà nessuno a godersi il nostro fiume, nessuno a perdersi nel luccichio del tramonto, o a lavarsi coi vestiti addosso per confondere le anaconde con le nuvole di sapone e tornare a riva con l’anima inamidata.
Né sott’acqua moriranno gli alberi, ma avranno un’aria triste, perché noi, soprattutto noi vecchi e voi bambini, be’, gli mancheremo assai con le nostre preghiere a testa alta e i vostri giochi a testa in giù. Troveranno un modo di vivere ancora, nell’acqua, e si trasformeranno così tanto che se potessimo vederli non li riconosceremmo; loroperò conserveranno memoria di noi.
E per finire ti dirò: c’è persino qualcosa di buono, in tutto questo.
– Di buono? Che cosa?
-Che ci risparmiamo la fatica di sperare – sbuffa la vecchia, e si addormenta di schianto come fa sempre lei: la testa di traverso, una ciocca argentata che penzola fuori dall’amaca come un delfino d’acqua dolce ormai esangu sul bordo di una canoa.
Nello stesso modo la nonna si addormenta il giorno della partenza per la città, nonostante i sussulti dell’autobus che, caracollando tra le buche e schiacciando serpenti già mille volte schiacciati, a mucchi di cinquanta li porta via tutti. A ogni buca la testa ciondoloni della vecchia sbatte contro il finestrino, ma nessuno ci fa caso, perché decine di teste fanno lo stesso e tutte insieme formano un’eco di tamburi che ricorda le loro notti di festa. È l’alba di chi, smarrito il futuro, non dorme di notte e di giorno va a barattare il poco che ha con il niente che lo aspetta.
Ester è sveglia, e ascolta i tamburi intorno a lei. E noi? Anche noi annegheremo senza morire? E cambieremo tanto che a guardarci non ci riconosceremo? Ma di sicuro ci ricorderemo da dove veniamo.
Peccato, questo sì, per le lettere che arriveranno all’indirizzo della casa sommersa. Peccatoi per l’inchiostro che si sbiadirà mentre i fogli ondeggiano sul pelo dell’acqua secondo il flusso impassibile della corrente.
Se la corrente saltasse in questo momento, Moris perderebbe la partita su cui ha scommesso mezzo (falso) conto in banca, e anche il Qr code appena ottenuto da un tecnico informatico che lavora per il governo e che gli deve un favore (il tecnico, il governo no, non gli deve favori, anzi sarebbe di certo piuttosto indispettito se sapesse tutto quello che… lasciamo perdere).
Se la corrente saltasse in questo momento, svanirebbero tutte le finestre aperte, e quindi anche la strana mappa che non riesce a decifrare e di cui, tra una mossa e l’altra, traccia qualche frammento su carta, perché ancora gli piace tenere le cose tra le mani (più che altro per guardarle da sdraiato).
Pigro com’è non ha scaricato il file, ma poiché sa di essere pigro già da tempo ha fatto comprare ai suoi un generatore di emergenza.
Quindi la corrente non salterà.
Oggi è particolarmente di malumore: sta per scattare l’ora del bagno, che per nobiltà d’animo ha concesso alla madre in numero di uno al mese. In acqua fredda, possibilmente gelida.
Lei gli lascia la vasca piena -– chissenefrega della siccità – e schifosamente profumata –chissenefrega di lui – poi si chiude la porta alle spalle e lo lascia lì da solo, piantonato dall’enorme specchio alle sue spalle (che paura di girarsi e vedersi una peluria da pagliaccio sul labbro superiore!). Sua madre in realtà dubita che lui ci entri davvero nella vasca, e ogni volta rimane stupita dalla sporcizia sul fondo, non osa pensare quanto sarebbe lercio se quel suo figlio matto, che prima matto non era, si lavasse con l’acqua calda come dio comanda.
A dire il vero era stato proprio Dio a comandare che lui si lavasse in acqua fredda. Una volta per tutte. Con uno spesso strato di ghiaccio che gli si richiudeva sopra mentre lui annegava nelle acque nere del lago su cui aveva rincorso Nip, il suo cane, il suo primo e ultimo amico.
Crack.
Il freddo così intenso e improvviso da non sentirlo neanche. Le braccia che annaspano per guadagnare qualcosa a cui aggrapparsi, un cielo duro che prima non c’era, così vicino da andarci a sbattere con la testa mentre i piedi pigiano l’acqua. Dov’è l’uscita? Un silenzio imperturbabile, le palpebre che si chiudono per tenere fuori spilli ghiacciati. Ma l’uscita, dov’è l’uscita? C’era un buco, proprio qui, c’era, altrimenti non sarei finito in acqua… C’era un buco. C’era!
Muoio?
Il panico si è preso tutta l’aria di dentro in un baleno. Nip che abbaia.
Ma dov’è? Perché non l’ho trovato? Perché non mi trova? Adesso basta Nip. Sta’ zitto. Sto cercando di sentire la pace.
Per la prima e unica volta nella sua vita, e proprio mentre la vita lo lasciava, Moris aveva sentito la pace. Un formicolio buono gli era entrato dalle orecchie e si era diffuso in tutto il corpo, aveva riempito ogni spazio vuoto con fermezza gentile, portato via con sé tutti i grumi e i nodi e le cisti e le aderenze e le piaghe.
Oooohhhh. Perché mai dovrei voler vivere?
Nessuno capì come si fosse salvato. Suo padre uscì dal bosco dov’era andato a pisciare, e vide suo figlio galleggiare su una lastra di ghiaccio alla deriva nell’improvviso oceano nero che s’era aperto al centro del lago.
Dio aveva comandato per lui la morte in quell’acqua gelata. Quella pace unica. Moris lo sapeva al di là di ogni dubbio e non tollerò mai che gli adulti gridassero al miracolo: al contrario, qualcosa era andato storto.
-Devi essere riuscito a trovare l’uscita – mormorava sua madre.
–No, No, no! Mi ha tirato fuori Nip con una forza che non aveva. E per la stanchezza è andato giù.
(E non avrebbe dovuto farlo. Quella pace per me era bellissima, mentre a lui mi sa che non è piaciuta.)
Cominciò a dirlo un paio di anni dopo, in una primavera che si abbatté come una scure sulla sua ultima speranza di vedere una nevicata.
-Perché mai dovrei voler vivere, se neanche nevica più?
Più tardi aveva sentito sua madre sussurrare al telefono: – Dice cose strane, mi fa paura.
Giovanni Eruzzi (proprietario verificato)
Un lavoro affascinante e coinvolgente. Ho divorato l’anteprima, lasciandomi trasportare nel mondo di Moris ed Ester. Ora non mi resta altro che attendere con trepidazione la pubblicazione per scoprire cosa intreccerà i destini dei due ragazzi. Complimenti, Serena!