1856, Nel sud Italia preunitario un contadino vive tra la fatica dei campi e la delusione per un figlio cagionevole di salute. Poi l’annuncio di una nuova nascita.
1930, in un sud Italia fascista, nonna Bea trasmette ai nipotini, con le sue storie, il fascino del folklore mentre il maestro LoSapio vorrebbe inculcare ai figli più raziocinio. La più piccola dei tre, Bea, non sembra aver ereditato però solo il nome dalla nonna materna.
2010, quando la notizia della morte della nonna materna raggiunge i Ferrato, l’unica realmente scossa dalla vicenda è la piccola Bea che, con i genitori, comincerà il suo viaggio verso sud facendosi accompagnare dai ricordi.
2030, Bea, dopo aver subito un’aggressione, cerca il supporto di uno specialista eccentrico ma il mondo attorno a lei appare bizzarro e le allucinazioni, sempre più frequenti, la gettano in una confusione crescente.
Le quattro vicende, unite da un filo invisibile, si concatenano per dare vita ad un racconto di folklore moderno
Perché ho scritto questo libro?
In Italia, come nel resto d’Europa, il patrimonio di fiabe, leggende, racconti e miti è ricco e pieno di spunti. Un po’ come per la riscoperta dei sapori della cucina tradizionale, mi sono voluto cimentare con la riscoperta di un tema, quello dello Scazzamuriello, soffermandomi su alcuni aspetti.
Ho dunque pensato di proporre la mia versione di questo affascinante personaggio, cercando di conservare al meglio la tradizione e dunque senza snaturarlo.
Mi auguro di esserci riuscito.
ANTEPRIMA NON EDITATA
Al loro arrivo il monachicchio si mise a fare sberleffi e risate
dal fondo della grotta, dove tutti lo vedevano benissimo, e saltava come un capretto.
Carlo Levi – Cristo si è fermato a Eboli
*
I
1856 – prologo
L’annuncio
Era un pomeriggio d’inverno, di quelli in cui il sole appare come un freddo disco color arancio e le giornate sembrano durare un battito di ciglia. La primavera ancora lontana attendeva impaziente di fare il suo ingresso ed i contadini preparavano i campi in vista del fiorire delle coltivazioni dopo il freddo rigido.
Filippo, in un impeccabilmente logoro calzone di velluto colore della terra, camicia pesante biancastra e un’altrettanto pesante giacca scura rattoppata in più punti, faceva ritorno dai campi con una zappetta sulle spalle ed un tascapane a tracolla con all’interno un piccolo cavolo appena raccolto le cui foglie tentavano di spuntare fuori la piccola borsa. Affianco a lui altri due uomini, anch’essi di rientro dal lavoro, conversavano sul tempo e sul raccolto mai abbastanza generoso.
Continua a leggere
Uno sbuffo di noia attirò l’attenzione dei due uomini verso il loro silenzioso compagno mentre passavano vicino i ruderi di una costruzione venuta giù cinque anni prima per via di un terribile terremoto.
«Filippo cos’è che non va? Sei silenzioso. Problemi a casa? La moglie ti trascura?» la frase era accompagnata da un ammiccamento seguito a sua volta dalla risata grassa e sguaiata dei due uomini.
Filippo non rispose. Continuò silenzioso il cammino senza curarsi dei motteggi dei due compagni che ben presto, annoiati, lo lasciarono perdere.
«Ah, il solito. Non so come faccia a resistere. Non ride mai una volta. Capisco la serietà ma questo è davvero troppo»
I due continuarono a parlottare del più e del meno tra di loro mentre il nostro protagonista scendeva tranquillamente, seguendo il tratturello polveroso, l’ultima collina che lo separava dal paesino dove la moglie l’attendeva come tutti i giorni in casa con un pasto pronto. Un tempo era il momento dell’intera giornata che l’uomo prediligeva in assoluto, quando rientrando trovava quella casa comprata con tanti sacrifici e duro lavoro. Pur non essendo quella che si potrebbe definire una residenza di lusso, per lui rimaneva quanto di meglio si potesse sperare. Il suo lavoro non permetteva certo una vita agiata, tuttavia non gli spiaceva affatto quell’esistenza che lo portava a trascorrere gran parte del tempo lontano da casa, nei campi ad accudire la terra, soprattutto negli ultimi anni.
Nel momento del suo rientro, assieme a sua moglie, trovava ad accoglierlo suo figlio Giuseppe di sei anni. La donna al suo ingresso gli andava incontro abbracciandolo, chiedendogli come fosse andata la giornata e se fosse stanco, quindi gli serviva il pasto. Anche il piccolo correva a salutarlo e lui, cercando di nascondere un certo disagio, lasciava che lo abbracciasse.
Alla sera, seduti attorno al braciere, l’uomo trascorreva il tempo assieme alla sua famiglia in un silenzio quasi totale. Lui fumava il suo tabacco con occhi socchiusi seduto ad una seggiola di legno con il fondo in paglia e tenendo le gambe distese in modo da tenere i piedi prossimi al calore dei tizzoni ardenti. Lei, una piccola donnina con il volto solcato dal tempo e dalla fatica, gli sedeva accanto avvolta in uno scialle di lana ed una pesante gonna di colore scuro mentre con le dita leggermente gonfie per via del freddo, con affascinante rapidità di movimenti muoveva i ferri per intrecciare fili di cotone e dar vita a piccole opere d’arte. Il piccolo Giuseppe, con l’incarnato quasi completamente privo di colore, se ne stava invece seduto vicino alla madre intento a giocherellare con un pezzo di spago raccattato chissà dove, gettando ogni tanto uno sguardo tranquillo ai suoi due genitori e sfoggiando sovente un sorriso diviso tra la soddisfazione e la stanchezza.
Ogni tanto Filippo apriva gli occhi per fissare lo sguardo in un vuoto carico di riflessioni, domande e qualche recriminazione.
Ripensava al giorno della nascita del suo erede.
Ogni padre, all’arrivo del primogenito sente in sé un misto di orgoglio e speranza. Un figlio maschio che porti avanti il nome della famiglia è un po’ come una promessa di immortalità. Si aprono nuovi orizzonti e prospettive ma soprattutto sentì di poter progettare un futuro molto più lontano ed ambizioso di quello fino ad allora considerato. Aveva sempre compatito tutti quegli uomini che si ritrovavano con due o tre figlie femmine. Bisognava mantenerle e preparare una dote sperando di poterle maritare con uomini degni, così da poterne essere orgogliosi: insomma una costante di preoccupazioni fino a quando non lasciavano la casa. Un figlio maschio invece bisognava solo avere la pazienza di aspettare che raggiungesse un’età sufficiente per poter lavorare, poi avrebbe cominciato a contribuire al sostentamento della famiglia finché, scelta una moglie, non se ne sarebbe fatta una propria.
Ripensava al giorno della nascita di Giuseppe.
Quando, dopo alcune ore di travaglio, nacque, gli amici e i parenti accorsero in casa per complimentarsi con lui. Era una calda sera d’estate. Filippo aveva fatto chiamare una vicina di casa che aveva già assistito le proprie figlie e quelle di alcune conoscenti. La donna, assistita da una giovinetta, si era chiusa in una stanza lasciando fuori il padre che ansioso camminava dentro e fuori la casa incapace di trovare pace. Quando si udirono i primi vagiti, dopo molta attesa, l’impazienza divenne quasi incontenibile e, quando la levatrice uscì per dare la notizia della nascita di un maschietto, si lanciò incurante di tutto e di tutti nella stanza per poter conoscere il sangue del proprio sangue. Fu una vicina di casa che, incuriosita dal chiasso proveniente dalla casa di Filippo, andò a far visita al neo papà e constata la situazione, senza indugiare, corse dal parroco della piccola chiesa arroccata sul punto più alto del paese. Era tradizione in quel paese infatti far rintoccare la campana di piccola chiesa in occasione di ogni nuova nascita.
Passarono alcuni mesi. Filippo era folle di gioia per quel primogenito maschio; tuttavia, nonostante il tempo passasse, qualcosa non sembrava andare come doveva. Il piccolo Giuseppe stentava a crescere e la cosa non lasciava certo fare sonni tranquilli ai due genitori che, chiamato il medico, sottoposero alla sua attenzione le loro perplessità nella speranza di poter essere rassicurati. Il responso tuttavia non fu affatto positivo. I due genitori non furono in grado di comprendere a pieno il discorso del dottore che, sciorinando alcuni paroloni con aria grave, non aveva fatto altro che disorientare i due poveretti. Quando l’uomo di medicina giunse finalmente al termine del suo monologo, mestamente Filippo, con occhi preoccupati e con aria quasi dimessa, in rispetto della posizione sociale molto più importante del dotto ospite, chiese con voce vibrante:
«Ma quindi dottore, cosa possiamo fare? Può guarire?»
Il medico sembrò quasi seccato dal fatto che il suo ragionamento così abilmente costruito fosse praticamente caduto nel vuoto quindi, senza alcun giro di parole e dopo un sospiro di rassegnazione, si limitò a dire:
«Vostro figlio sarà sempre cagionevole di salute, è inevitabile! Non sarà mai come un bambino normale, un semplice raffreddore potrebbe risultargli fatale. Inutile dirvi che sono pochi i casi in cui, visti i presupposti, gli individui colpiti possono ambire ad arrivare all’età adulta».
Le parole furono dure. Duro il modo in cui furono pronunciate e duro il loro significato e, quasi a volersi far beffa dei due poveri diavoli, duro fu anche l’onorario cui far fronte per poter ricevere quella notizia.
Filippo ripensava a tutti quegli avvenimenti alternando boccate di tabacco a sospiri di rassegnazione. Le parole del dottore, quella voce, gli risuonava in testa come una fanfara che annunciava la sua sconfitta come padre. Il figlio non gli sarebbe sopravvissuto probabilmente. Quel senso di onnipotenza che lo aveva pervaso al momento della nascita di Giuseppe aveva ormai lasciato il posto ad uomo mesto ed annoiato dalla vita che trovava la sua unica ragion d’essere nel lavoro nei campi. Da quel giorno furono fatti molti tentativi nella speranza di poter avere un nuovo erede ma la sorte matrigna pareva essersi accanita contro il pover’uomo che, a distanza di ormai sei anni, non aveva avuto la gioia di divenire nuovamente padre.
Quella sera Addolorata, guardando il marito così perso, come ogni sera, nei suoi pensieri, intuendo il bisogno di serenità che la sua mente sembrava implorare a gran voce, decise di confidargli un segreto che ormai portava con sè da alcune settimane. Dopo aver posato i ferri quindi si alzo dalla sua seggiola e, preso Giuseppe, lo accompagnò a letto, attendendo, dopo avergli rimboccato le coperte, che i suoi grandi occhi colore della notte, sempre aperti – come se, cosciente del poco tempo a sua disposizione, volesse imprimere nella sua mente più ricordi possibili – si chiudessero in un placido e tranquillo sonno ristoratore. A quel punto tornò sulla sua seggiola di fianco al consorte e, senza particolare enfasi ma con sguardo basso, quasi fosse una cosa di cui vergognarsi, annunciò:
«Sono incinta!»
Continua a leggere
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.