Per un istante gli sembrò di scorgere una figura, una sagoma umana. Forse una donna. Gli stava parlando? Lo stava chiamando? “Che cosa c’è dietro alle nebbie del tempo?”, pensò tra sé.
Il senso di lontananza tornò forte e, come da dentro di esso, nel grigio, prese forma un’altra immagine. Il grigio lasciò posto ad una visione chiara e distinta, questa volta: davanti a sé un pozzo scuro e, in mezzo, un’altrettanto scuro sgabello di roccia, circolare, con un disegno sopra. Un cerchio rosso evidenziava il suo bordo e l’interno del cerchio era tutto colorato di bianco. Nel mezzo del bianco vi era un viso di donna, delineato con bordi di colore nero. Un viso bellissimo, che lui non aveva mai visto. Chi era quella donna?
Guardandola, parve che gli parlasse e che lo facesse da qualche luogo, lontano anche quello, come tutto quello che stava vedendo e percependo. Che cosa stava dicendo? “Vieni”? “Ti aspetto”? La sua voce sembrava ovattata e andava spegnendosi in un eco tra le pieghe di spazi remoti. Mentre l’ascoltava, sovvennero anche sinfonie melodiose, a lui sconosciute, o forse no, e visioni di luoghi misteriosi e affascinanti. Vide una notte piena di stelle, con la luna piena nell’altra porzione di cielo. La luna splendeva e, come in una magia, illuminava le palme su una spiaggia chiara e la spuma delle onde del mare. Mentre la sinfonia sembrava avvolgerlo, sentì profumi d’oriente e altri mai conosciuti, estasianti. Vide allora una figura di donna avvicinarsi a lui, che usciva da una specie di tempio con delle colonne. Il suo volto pareva quello all’interno del cerchio. Era ancora lei dunque? Poi tutto ciò che vedeva davanti a lui iniziò ad essere sfocato, come un’immagine traballante. La donna svanì nelle profondità della notte, la luna si confuse col cielo e tutto il quadro sembrò collassare…
Jimmy si svegliò di soprassalto, mettendosi seduto sul letto. Era madido di sudore. “Ma che sogno strano è?”, disse a sé stesso. Dormiva sempre in mutande e maglietta e la maglietta era fradicia. Guardò la sveglia e vide che erano quasi le sei e trenta. “E’ l’ora, tanto vale che mi alzo”, pensò. Si alzò dal letto e si mise in piedi e si diresse verso il bagno per poter urinare. Come entrò si vide subito allo specchio. Un giovane uomo di 18 anni appena compiuti. Altezza media, un metro e settantacinque, capelli scuri e occhi chiari. Prometteva bene, visto che stava completando lo sviluppo biologico. Le spalle erano già abbastanza larghe e robuste e l’intera figura corporea era già abbastanza armoniosa. L’ingegneria genetica aveva funzionato bene. Espletata la funzione, uscì dal bagno e si accorse che il primo sole entrava già dall’unica grande finestra. Eh già, perché la sua era una casa standard. Era un Nido Base, così come veniva chiamato. Aveva un solo grande finestrone su un lato dell’appartamento, il quale era di forma quadrata. Il finestrone occupava quasi tutto quel lato della casa, mentre dalla sua parte opposta, a circa cinque metri, vi era il letto. Questo era tutto a sinistra della parete, guardandola dal finestrone. Sulla sua destra vi era il grande e unico armadio. Nell’ultimo spicchio di parete, l’accesso al bagno. Alla parete a destra dello stesso finestrone, spiccava il grigio scuro e opaco della piccola cucina. Rigorosamente hitech. Scuri erano anche la struttura del letto, il divano e il mobile della televisione, e la stessa tv. Tutti i mobili erano scuri, in mezzo a quattro pareti perfettamente perpendicolari tra di loro, appunto un quadrato, tutte rigorosamente bianche.
Il Nido era solo uno delle centinaia di nidi del palazzo. Ogni palazzo veniva chiamato Alveare. Ogni Alveare andava a comporre un quartiere, chiamato Raggruppamento, e più raggruppamenti costituivano un Centro Umano, cioè una città.
Jimmy si diresse verso la finestra del suo nido. “Che gran giornata”, pensò. “E ho un nido, finalmente.”, aggiunse. Verso nord il cielo era terso e profondo, senza una nuvola. Sotto di esso, luccicava il verde delle grandi e nuove praterie. A circa un chilometro, da un’appena accennata collina, affiorava dal terreno uno dei tratti rimasti in piedi del Colosseo. Era giusto qualche pietra che interrompeva il verde, che in realtà costituiva tutto il paesaggio a trecentosessanta gradi. Ovunque ci si girasse al di fuori della città, vi erano prati verdi. A nord, a sud, a est e a ovest, dolci colli sormontati da un cielo azzurro erano l’unico, affascinante, ma possibile orizzonte. Effetto della terza guerra mondiale, si diceva, quel conflitto chiamato Guerra dei Blocchi, e dei suoi bombardamenti su ogni dove e fino in capo al mondo. Ogni zolla di terra era stata rivoltata, prima dalle bombe, poi dai missili e infine dalle testate nucleari. Testate cosiddette “tattiche”, che permettevano di non distruggere l’intero globo, ma solo quelle aree in cui vi erano contingenti militari o città da far scomparire. Praticamente ogni città della terra era stata inghiottita dal terreno, poi rifiorito e inverdito. Alcune metropoli erano prima state letteralmente rase al suolo: Los Angeles negli Stati Uniti, Mosca, Shangai, mezza Londra, Berlino, Varsavia, Bruxelles. Ma, più di tutto, era ancora impresso nella mente dei sopravvissuti il clamore della più grande devastazione: Roma era stata letteralmente distrutta. Non vi erano scheletri di palazzi o calcinacci crollati, no, era tutto rigorosamente a terra. Non c’era nulla che fosse in piedi. Come a futura memoria era rimasto miracolosamente intatto solo un tratto del Colosseo. La città plurimillenaria, culla e simbolo della Civiltà Occidentale, era letteralmente scomparsa dal tempo e dalla Storia. Quelle sole pietre rimaste, erano come la vaga carezza di un ricordo lontano, carico di nostalgia e di echi di voci inghiottite dal vortice del passato. La cosiddetta Città Eterna, era prima stata colpita da una dozzina di missili all’interno della Città del Vaticano e poi, dopo pochi giorni, una vera e propria pioggia di missili, interminabile, si abbatté su ogni angolo della città. Infine, il colpo di grazia: una testata tattica nucleare. Giusta su misura per Roma. Coloro che si salvarono, ci riuscirono solo perché dopo l primo attacco sul Vaticano decisero di non fidarsi delle menzogne delle autorità e fuggirono verso Firenze o verso Napoli. Ma quasi nessun abitante del globo terrestre, in realtà, ebbe scampo. La guerra tra Occidente da una parte e Russia e Cina dall’altra, pose fine a millenni di storia. No, pose fine alla Storia.
Assorto in questi pensieri, imparati a scuola, Jimmy aveva lo sguardo perso e continuava a fissare il cielo. Se ne accorse e, con un sospiro, disse a sé stesso che era una fortuna poter disporre ancora di un cielo. Ma che cielo: era il “Cielo Perenne”, il cielo che i Fratelli Maggiori avevano donato alla superstite umanità. Un cielo che era sempre e comunque azzurro, terso, profondo. Senza mai una nuvola, tranne quando era necessario produrre un po’ di pioggia. Accompagnava il giorno senza interruzione fino alla fine di esso, fino a quando calava l’oscurità. Dava gioia, ottimismo e ricordava la misericordia dei Fratelli Maggiori. E sovrastava con maestosità gli eterni campi verdi che ormai definivano l’identità del Pianeta Terra.
Ma chi erano i Fratelli Maggiori? “Meno male che ci sono loro”, pensò. Erano gli alieni benedetti, coloro che salvarono l’umanità dall’annientamento totale della Guerra dei Blocchi. Quando ormai piccoli gruppi di persone in ogni angolo della terra si assieparono in assembramenti qua e là per le campagne, in attesa di essere investiti dalle radiazioni, i Fratelli intervennero e li salvarono. Le loro navi volanti si posarono sopra di loro e, aperti i boccaporti, fecero scendere delle gabbie che, come delle cabine, tolsero dall’inferno quelle persone. Sollevate da terra, vennero portate all’interno
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