Io ero una di quelle persone che danno per scontato le cose.
La so anch’io tutta quella storia della gratitudine e dell’essere consapevoli di ciò che si ha, oltre che di ciò che si è. Sta di fatto che poi ci distraiamo e ce ne dimentichiamo. Capita che diamo per scontato quanto sia bello tornare a casa e trovare la cena in tavola e ce ne ricordiamo solo un mercoledì sera, quando nel frigo c’è l’eco e i supermercati sono chiusi. O che il mare sia lì, limpido e pacifico, finché passa una petroliera, scarica schifezze varie e diciamo “Uh, com’era bello però”.
Io fino a poco tempo fa davo per scontato il fatto di avere una vita perfetta. Me ne sono ricordata nel momento in cui mio marito mi ha detto:
«Voglio il divorzio»
Cos’è che vuoi tu?
Uscita dall’ufficio ho preso la metro con la testa ancora nella mia to do list, che nel frattempo si era allungata parecchio.
Schiacciata nella calca dell’ora di punta, in bilico sui tacchi per la pressa della gente, mi arriva un messaggio di Nicolò. Riesco a malapena a tirare fuori il telefono dalla borsa, ma vedo l’anteprima:
“A che ora torni stasera? Ho bisogno di parlarti.”
Il che, a pensarci bene, non prometteva niente di buono. Noi non avevamo quasi mai “bisogno di parlarci”.
Ci siamo conosciuti il primo anno di università, in coda in segreteria. Lui era in quella sbagliata, la facoltà di giurisprudenza era quella accanto, ma ha fatto due ore di fila lo stesso. Se n’era accorto dopo dieci minuti in realtà, ma ha fatto finta di niente. Abbiamo parlato degli esami, del suo professore di diritto costituzionale che si addormentava a metà lezione, dell’assistente di macroeconomia che di sicuro se la faceva con la professoressa, dei nostri posti preferiti in città, dei viaggi che avremmo voluto fare, dei rispettivi coinquilini.
Poi quei coinquilini sono scivolati via uno dopo l’altro e, non si sa come, siamo finiti a vivere insieme. Non è stata una vera e propria decisione, più una di quelle cose che succedono. Io avevo una casa troppo grande solo per me, lui doveva trovare qualcuno con cui vivere. È successo e basta. Senza troppe storie.
Quando si è laureato avrebbe voluto prendersi un anno sabbatico e vedere tutti quei posti di cui avevamo parlato.
«Risaliamo la Panamericana in macchina. Io e te. Sei mesi, un anno, tutta la vita… Non ci voglio andare a lavorare da mio padre»
Me l’aveva detto sottovoce in un orecchio la mattina in cui doveva andare a discutere la tesi. Si era svegliato e mi aveva abbracciato, da dietro.
«Cosa?» Mi mancava un esame più la tesi specialistica, poi il master. Di cosa stavamo parlando esattamente? E suo padre? Aspettava quel momento da quando il figlio aveva dodici anni più o meno.
Forse pensava stessi dormendo. Dire a voce alta qualcosa che a malapena riusciamo a dire a noi stessi è spiazzante a volte. Mi ha dato un bacio sulla guancia, si è alzato di scatto e si è vestito di tutto punto. Mentre aspettavamo che i suoi venissero a prenderci ho tentato di riprendere il discorso.
«Riguardo quello che mi hai detto prima…»
«Prima quando?» mi ha risposto guardando distrattamente fuori dalla finestra.
«Quando eravamo a…» il mondo fuori è provvidenziale in certi momenti. È suonato il citofono e quella frase non l’ho mai finita. Nessuno dei due sapeva come affrontare una di quelle discussioni che possono cambiare il corso di una vita. Quelle in cui riesci a chiedere “ma tu, che cosa vuoi davvero?”
Lui ha alzato le spalle, fingendo di non sapere di cosa stessi parlando. Io ho persino pensato di averlo sognato.
Non abbiamo più visto quei posti, non ci siamo più chiesti che cosa volevamo. Lui è andato a lavorare da suo padre, studio Legale Tumicelli & figli. Si chiamava così da quando lui e suo fratello erano ancora adolescenti. Un post-it bello grosso per ricordare loro che un destino ce l’avevano già, era inutile andare a cercarlo in giro.
Ha preso possesso della sua scrivania e in cambio ha ricevuto le chiavi di una casa di famiglia ristrutturata di fresco, niente a che vedere con quella per studenti che avevamo abitato quando ancora stavamo imparando ad abituarci l’uno all’altra.
Ci siamo entrati da marito e moglie. Stavamo insieme già da cinque anni, avevamo entrambi un lavoro stabile, ci volevamo bene. È successo e basta. Senza troppe storie.
Dopo il terzo anniversario di matrimonio ho smesso di prendere la pillola, avevamo quasi trent’anni, entrambi un lavoro sicuro, qualche soldo da parte, era arrivato il momento. Non ho mai messo in dubbio il fatto che sarei diventata madre. Era una delle certezze della mia vita, da quando con mia sorella Vittoria giocavamo a mamma e figlia, le preparavo il pranzo con il pongo e le raccontavo la favola della buona notte.
I mesi passavano, ma non succedeva niente.
E poi i segni sul calendario, i giorni di ovulazione cerchiati, «Abbiamo sbagliato i conti? Era ieri?». La prima volta che ho avuto un ritardo non ho dormito per tutta la notte. Alle 8.30 ero davanti alla farmacia per comprare il test di gravidanza. C’erano già due persone davanti a me, ed ero convinta che riuscissero a sentire il battito del mio cuore da quanto andava all’impazzata.
E poi rimanere più di un’ora a fissare un bastoncino su cui hai fatto pipì, gli abbracci, i «Mamma ti dico una cosa, ma non dirlo a nessuno ancora», il paio di scarpine assolutamente inutile e adorabile che mi ha regalato mia sorella, le prime nausee, la prima visita. Dopo qualche settimana le nausee erano finite. Che ragazza fortunata, Agata mia. Alcune perdite dopo qualche giorno. È normale, l’embrione sta attecchendo. I crampi, la notte, da svegliarmi dal dolore.
E poi prenotare il raschiamento, i «mi dispiace così tanto», le lacrime di Vittoria, gli abbracci dei miei, l’impotenza di Nicolò, io che sono tornata al lavoro il giorno dopo, lui che non sapeva cosa dirmi. Tutti che mi guardavano come se potessi rompermi da un momento all’altro, io che non sentivo niente. Ci abbiamo messo mesi prima di riprovarci di nuovo. Non riuscivamo più a toccarci, come se in fondo pensassimo tutti e due che non saremmo sopravvissuti a un altro dolore, che il mio corpo non avrebbe retto. Non sapevamo quanto avrebbe sopportato ancora. I mesi passavano, altri segni sul calendario, ancora niente.
E poi le visite, i centri specialistici, le stimolazioni ormonali, le inseminazioni intrauterine, gli aghi, i barattoli da riempire. È una carenza di ovuli, no un enzima, è lo stress, hai provato l’agopuntura? E il tantra? I mesi sono diventati anni, gli ormoni mi avevano regalato quindici chili, ma non ero disposta a mollare.
E poi le liti, lui che mi dava fastidio qualsiasi cosa dicesse, io che allo specchio non mi riconoscevo più, i piatti rotti, le porte sbattute, io che non parlavo d’altro, lui che avrebbe voluto scappare anche se non lo diceva, il mondo fuori che mi guardava con un misto di pietismo e sufficienza, perché accanirsi non serve a niente. Serve a me, serve a non impazzire. Vai avanti Agata, puoi farcela. Abbiamo cambiato medici, strutture, approcci, pareri, punti di vista, alla fine anche Paese. A Valencia siamo passati alla fecondazione di secondo livello, l’embrione viene formato in laboratorio e poi inserito nell’utero.
E poi i viaggi, gli alberghi, i permessi al lavoro, le attese, il tempo che passa. «Le sue probabilità sono del 25 per cento signora. Ma se fa quattro cicli non arriva al 100 per cento: ogni volta ricomincia dal 25, anzi la percentuale scende col crescere dell’età».
Signori si può puntare, fate il vostro gioco.
Tutto su un numero solo Agata? Sei sicura?
Sì.
La roulette continua a girare ma quella dannata pallina non si ferma mai.
E poi le altre donne, quelle che incontri nelle sale d’aspetto, nei forum su internet, in fila ai prelievi del sangue. Quelle con cui basta uno sguardo, perché loro sanno.
«Tu a quanto sei?» mi ha chiesto una donna paffuta dagli occhi buoni seduta di fronte a me nella pulitissima sala d’attesa di una clinica privata, con riviste nuove, distributore di bibite e aria condizionata.
«Questa è la quinta»
«Per me la nona» ha risposto lei «Ma è l’ultima, i soldi sono finiti».
E avrei avuto voglia di urlare, ribaltare le sedie, spaccare tutto, perché non è giusto, non era così che dovevano andare le cose e non dovrebbe essere una cosa per ricchi. O forse sono solo gli ormoni. Invece sono riuscita solo a sorridere e offrirle una caramella limone e zenzero.
«Lo zenzero fa miracoli» ha sorriso. Perché tu sai, lei sa, che un miracolo è proprio quello che state cercando.
Al quinto tentativo ero esausta, il mio corpo non reggeva più tutte quelle stimolazioni. Così abbiamo deciso di fermarci, prendermi del tempo per dimagrire e rilassarmi. Ritrovarci, se solo avessimo capito che ci stavamo perdendo. Nel frattempo avevamo contattato un altro centro di riproduzione assistita, stavamo aspettando da nove mesi un appuntamento, ci avrebbero chiamato a breve. Abbiamo ripreso la nostra quotidianità, cambiato le tende e stretto un tacito patto secondo cui non ne avremmo più parlato fino a che non sarebbe stato necessario.
Quando sono arrivata a casa Nicolò era seduto sul divano, fissava un punto sul soffitto con le mani in tasca. Non si è voltato nemmeno quando ha sentito la porta chiudersi.
«Ehi» poso le chiavi e vado spedita verso la camera da letto, sperando di poter rimandare qualsiasi cosa abbia in mente, non ho le forze.
«Ciao. Possiamo parlare?» chiede.
Come non detto.
«Dipende. Migliorerà la mia giornata? Perché mi hanno appena licenziata»
Lo vedo riprendersi come da una trance e si volta a guardarmi.
«Cosa? Perché? E come possono farlo scusa?»
«Non lo so se è un vero e proprio licenziamento o sono solo in panchina. Ma Romano è un bastardo vero». Mi avvicino per dargli un bacio sulla fronte prima di andare a farmi un lungo bagno caldo, sperando di essermi giocata il carico e aver rimandato la discussione, ma lui si scosta.
«Agata…» non mi chiama mai per nome.
Lo guardo cercando rapidamente un motivo valido a tutta quella formalità, scorro un lungo elenco mentale ma non mi viene in mente niente.
«Voglio il divorzio»
Ripeto, non mi viene in mente proprio niente.
«Non… non credo… non ho capito»
«Ho detto che voglio il divorzio»
«Ho sentito. Che cosa vuol dire?»
«Che non voglio più essere sposato. Con te»
Ho visto un documentario tempo fa, diceva che gli animali che non sono in grado di fuggire o di difendersi da un predatore hanno acquisito una serie variabile di comportamenti. Gli opossum, ad esempio, per sfuggire agli avversari si fingono morti.
«Senti, possiamo parlarne un’altra volta? Oggi è stata già una giornata tremenda».
«Mi dispiace, ma io ho bisogno di parlarne ora. Non posso più far finta di niente»
«Strano, perché di solito ti viene così bene» dico mentre inizio a perdere la calma.
Le rane pelose, invece, per difendersi rompono intenzionalmente le proprie ossa e formano degli artigli come quelli di un gatto.
«Scusa tanto se per una volta l’argomento non sei tu, i tuoi ovuli, o le tue cazzo di beta… come si chiamano» replica Nicolò a voce alta.
È l’evoluzione, baby. Lo diceva anche Darwin, no?
«Quindi ora la stronza sarei io?»
«Senti, il punto non è questo»
«Hai un’altra?»
«Ma quale altra»
«È così, ti scopi un’altra vero? Chi è? Non può essere la segretaria nuova, non sarai quel tipo di cliché. Ti prego non dirmelo»
«Smettila. Che poi… lasciamo stare»
«Non lasciamo stare proprio niente. Che poi cosa?»
Mi ha guardato per qualche istante. Forse aveva bisogno di prendere la rincorsa.
«Avrei il diritto di sentirmi desiderato no?»
«Oddio ma allora è questo? La crisi dei quaranta? Il tempo passa, non ti senti più lo stesso. Un po’ precoce forse ma lo capisco eh. Però non è una sbandata che risolve le cose»
«Non è nessuna sbandata…»
Attenzione, treno in transito al binario uno.
«Abbiamo passato momenti difficili, è vero» mi siedo accanto a lui e cerco di prendergli la mano «Ma siamo io e te, insieme. Se non va neanche la prossima volta possiamo pensare all’adozione. Non ne abbiamo mai parlato, ma può essere una soluzione. Io voglio una famiglia con te, è tutto quello che ho sempre…»
Allontanarsi dalla linea gialla.
«Io non lo voglio un figlio!» sbotta Nicolò alzandosi.
Troppo tardi, presa in pieno.
La verità è che una parte di me l’ha sempre saputo. Che io ero il motore, lui la ruota. Che a Valencia ci sarebbe voluto andare per mangiare paella e bere sangria sotto le stelle. Che non si sentiva pronto per fare il padre e ogni volta che il test era negativo una parte di lui si sentiva sollevato e un’altra terribilmente in colpa. E ai sensi di colpa non sfuggi, prima o poi ti trovano e ti chiedono il conto. Questo era il suo.
Ovviamente in quel momento non gli ho detto niente di tutto ciò, ho fatto quello che mi veniva meglio: prendere quella vocina e cacciarla giù, in un posto buio e freddo. Girare la chiave e non pensarci più.
«Che cazzo dici, certo che lo vuoi. Perché abbiamo fatto tutto ques… Mi guardi in faccia per favore?»
Non riusciva a tenere lo sguardo, continuava a guardare per terra.
«Allontaniamoci per un po’, vediamo che succede» dice non troppo convinto.
«Cosa vuoi che succeda?» chiedo perplessa.
«Vorrei non sentirmi più così. Per favore…»
Siamo rimasti seduti a lungo in quel salotto. Ci ho messo un po’ per riuscire a dire: «E quand’è che te ne vai?»
«Ecco, Agata…»
Se mi chiama ancora per nome gli tiro un pugno.
«Tecnicamente questa sarebbe casa dei miei. Dovresti andartene tu»
Ora qualcuno mi dirà che è uno scherzo. Ci sono le telecamere, vero?
«Vorrei prendermi del tempo per capire chi sono»
Io un’idea ce l’avrei. Se vuoi ti lascio un appunto.
«Vorrei farlo da solo, senza di te. Se potessi andare via il prima possibile…»
Quante possibilità c’erano che la giornata finisse peggio di come era iniziata?
Probabilità: improbabile
Impatto: catastrofico
Cataloghiamo in questo modo anche i disastri nucleari, i terremoti e gli tsunami, giusto per capirci.
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