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Io sono il sogno

Io sono il sogno
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Consegna prevista Luglio 2024
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In un appartamento a Reggio Emilia, una donna incinta sta per partorire. In quegli attimi riaffiorano tutti i ricordi della sua vita, ma anche dell’ignoto che riguarda la sua nascita: lei, adottata molto piccola in India, non ha mai saputo nulla dei suoi primi giorni di vita. Durante il tragitto in ospedale riaffioreranno i ricordi, da una sera di febbraio del 1958, quando al festival di Sanremo, Domenico Modugno alza le braccia al cielo mentre canta “Nel blu dipinto di blu”. Giovanni, il bisnonno, è davanti alla TV insieme agli amici e il giorno dopo partirà dalla campagna di Reggio Emilia per la Svizzera, per dare un futuro migliore alla sua famiglia. Sessant’anni dopo, all’aeroporto di Milano Malpensa, un addetto di terra alza le braccia al cielo, per indicare al pilota del velivolo arrivo da Mumbai la manovra di parcheggio. Da quell’aereo scenderà Roberto, il nipote di Giovanni e sua moglie Rossella, con la piccola Maya, che una volta cresciuta ci racconterà questa storia.

Perché ho scritto questo libro?

Sono un genitore adottivo, credo che la scrittura e le storie siano il modo per riempire i vuoti che la vita non ci ha fatto vivere, il tempo sconosciuto a cui non abbiamo accesso e che possiamo sostituire solo con l’immaginazione. Ho scritto questo libro per raccontare una storia un pò autobiografica ma anche per inventare ciò che poteva essere ma non è accaduto. Nel corso della vita tutti facciamo scelte, spesso inconsapevoli. Sono queste che ci cambiano la vita.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Casa di Maya,

adesso.

È stato il mio primo ricordo del dolore. Ero nella stanza con tutti i bambini, era festa, c’era la torta e i regali erano tutti per me. Io ero con gli adulti che mi volevano bene. La luce entrava in diagonale dalle grandi finestre, filtrata dai grandi alberi che tracciavano il confine fra l’edificio dove trascorrevo la mia vita e il resto del mondo. Fuori dalla porta, una striscia d’asfalto dove giocare all’aperto e il grande cancello da non toccare. Io ero la più piccola. Lo sono stata almeno per quel periodo dove si inizia a ricordare la vita e i frammenti di tempo te li porti dietro, chiusi in un cassetto del tuo cuore. Rimangono chiusi fino a quando qualcosa li riapre e tu ritorni te stessa bambina e la paura ti esplode dentro come una bomba, ti scuote tutte le certezze e fa tremare le cose belle. Per fortuna, nella mia vita futura le cose belle erano state costruite con tanto cemento, tutto l’amore di mio padre e mia madre, che negli anni, dopo lo strappo, mi hanno cullata insieme a loro.

Quel giorno, il giorno del ricordo, lo avevo visto tante volte in fotografia, sapevo da quelle foto di avere un vestito bianco a fiori e una molletta viola fra i capelli. Mia madre mi mostrava sempre quegli scatti nell’album che teneva nella mia cameretta, mi raccontava che la torta era di panna e frutta fresca, che era un martedì pomeriggio e che io giocavo con le bolle di sapone. Per gli anni della mia infanzia quel giorno era stato importante ma privo di emozioni nei miei ricordi e ciò che avevo provato me lo immaginavo ma non lo ricordavo.

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Qualche anno dopo, partecipando a una festa di compleanno, sentii ad un tratto la disperazione, mi guardai intorno e iniziai a urlare, tanto che la padrona di casa, la mamma del bambino della festa a cui partecipai fece di tutto per calmarmi e chiamò subito mamma e papà. Ma ogni istante di attesa, quando ero sola con i bambini, era una fitta al cuore. Paura di essere abbandonata. Il vuoto intorno a me, tutti che correvano via e io volevo mamma e papà, volevo amore solo per me. Arrivai serena a quella festa, poi ad un tratto mi sentii a disagio e qualcosa scattò in me. Era il ricordo, in quel remoto angolo d’infanzia precedente, di un abbandono del luogo che mi aveva dato amore e sicurezza. Fu allora che rividi quei bambini dimenticati, di cui non ricordavo i volti, che mi salutavano e si giravano per non far vedere le lacrime, mentre i grandi mi dicevano sorridendo di andare, poi si giravano anche loro. Tutto attorno a me era vuoto, sentivo che non mi voleva più nessuno. Non volevo i regali, volevo stare in braccio, volevo l’amore anche condiviso, volevo l’amore che conoscevo e che per quei primi anni mi aveva fatto vivere come una bambina.

Nel ricordo che riaffiorò, iniziai a piangere e a urlare, percepii sebbene molto piccola che tutto intorno a me non era più come prima. Qualcosa era finito, non capivo cosa ma quel momento era diventato un punto nella mia vita, un punto che sanciva la fine di ciò che avevo vissuto, senza sapere nulla di cosa sarebbe stato dopo.

Poi mi presero in braccio. Sentivo le parole dei grandi ma non capivo. Ci fu lo strappo. Ricordo che mi attaccai a quelle braccia estranee, ricordo le scale, mentre io piangevo e scendevamo verso l’ignoto. Era troppo per me, ero troppo piccola per essere presa e portata via da chi era gentile ma sconosciuto. Io urlavo, mentre scendevamo quei gradini interminabili di paura, che terminavano nel cortile, illuminato dalla luce opaca di quel pomeriggio di primavera. Con la macchina uscimmo dal cancello e mentre percorrevamo strade sconosciute e affollate di gente, animali, traffico e rumore, mi abbandonai. Subito dopo arrivò il vuoto nei ricordi, solo poche foto fissavano quei giorni prima dell’arrivo a casa. Giorni faticosi anche per mamma e papà, che mi raccontarono di quei momenti, quando furono loro a piangere, stanchi per il viaggio e per le emozioni, vedendo in giardino i palloncini e uno striscione con scritto benvenuta a casa piccola, che i nonni avevano preparato. Fu allora che il loro cuore esplose e insieme cedettero in un pianto liberatorio.

Allora eravamo a casa.

Fu quella una giornata di pioggia e come mi raccontò mio padre anni dopo, era come se il cielo piangesse le lacrime di gioia di chi da lassù, voleva condividere con noi quel momento. Era il momento in cui l’amore e la paura si abbracciavano, mio padre aveva i nervi tesi di chi tutto ad un tratto si trova responsabile di un altro essere, di una parte di sé. Ma in quel momento tutte le ansie e le paure si sono abbandonate: arrivati a casa, mi dissero che io capii di essere arrivata a meta, tanto che mentre i miei genitori crollavano e piangevano, coi nervi che gli facevano scattare le gambe, io vagavo per casa con un pupazzo sotto il braccio. Intanto piangeva il cielo e bagnava la terra e i palloncini che i nonni avevano messo in giardino perché finalmente erano nonni, adesso erano loro la storia, i genitori dei genitori, il passato con cui ricordare da dove vengono mamma e papà.

Così sono nata la mia seconda volta, quando tutto intorno a me aveva forme nuove che dovevo scoprire, quando sembrava che chi mi aveva portato via fosse lì solo per me, in quegli spazi grandi, senza bambini, senza le gonne a cui attaccarsi, mentre il cielo piangeva e soffiava il vento sul mio arrivo a casa. La mia casa, ora era quella, ma sino al giorno prima era fatta dei miei amici e delle Didi che si prendevano cura di me. Negli anni ho guardato spesso le fotografie fatte prima dell’arrivo in Italia, ero piccolissima ma qualcosa dentro di me mi ha sempre legato a quelle immagini e ho sempre sentito il bisogno di riguardarle, con il cuore che mi chiamava a sprofondare gli occhi su ogni immagine che mi raffigurava. Erano perlopiù fotografie dove ero per terra e con lo sguardo perso, a volte con il viso rigato dalle lacrime, altre volte dove ridevo abbracciata a pupazzi o con i biscotti in mano. Poi guardavo le foto dell’arrivo dei miei genitori, dove mio padre aveva lo sguardo pesante di fatica di chi ce l'ha fatta. Loro avevano aspettato, cercato e voluto un figlio per anni. Anni di forza per reagire e lutti subito dimenticati, anni di amore per sopravvivere, anni di chi vuole solo una cosa e tutto il resto della vita è il cammino per arrivarci. In quelle prime foto insieme mio padre aveva il sorriso di chi è felice dentro. Mia madre aveva gli occhi radiosi di commozione e mi guardava mentre io continuavo a giocare con le bolle di sapone. Sono state sempre nella mia camera quelle foto, nell' album del Farewell party, la festa di addio.  C' erano le foto con la torta, le foto con i miei amici, in posa nella sala dei giochi e poi l’ultima immagine della casa dove sono cresciuta fino ai due anni: l’istituto. Una foto dove nei miei occhi, si legge la disperazione e la paura di qualcosa che ritorna.

La paura dell’abbandono.

Penso a tutto questo mentre le mie gambe si bagnano, in terra una pozza d'acqua mi bagna i piedi. Istintivamente urlo, tanto che la mia vicina suona al campanello, le apro, le dico di chiamare mio padre. Mi affanno a vestirmi mentre chiamo mio marito per dirgli che il momento è arrivato: è ad un congresso di due giorni in Germania, non voleva andare ma io ho insistito, mancano venti giorni alla scadenza, vuoi che proprio domani…

Ne abbiamo parlato proprio domenica scorsa, mentre eravamo a Milano, all’ Arengario, ad una mostra di un pittore indiano, Vikram Anand e mentre ci tenevamo per mano davanti a un quadro, sentii una strana scossa, poi una tranquillità interiore che mi fece dire: “puoi andare, so che puoi andare, tornerai in tempo”. Era un quadro con i colori dell’India: c'era il verde di una foresta, l'arancione di un’alba, un contorno bianco che lo faceva apparire come un sogno. C'era un uomo disperato al centro, il volto sfigurato dal dolore e una cesta da cui usciva un raggio di luce.

Mio padre sta arrivando per accompagnarmi in ospedale.

Mi fermo e mi accorgo che il mio respiro è in affanno. Voglio rivedere ancora la foto. La prima foto della mia vita. Dicono che quando vedi la morte in faccia tutta la tua vita ti scorre davanti. Forse nei momenti importanti ripensi al passato. Io ho bisogno di mettere ordine, per quello che mi sta accadendo e per come sarà la mia vita.

Suonano al campanello, sarà mio padre. Fammi dare un’occhiata, papà, solo un’occhiata alla mia prima fotografia: è in cornice nel corridoio a fianco di un’altra immagine, una foto degli anni Cinquanta del secolo scorso, raffigura un uomo dallo sguardo fiero, con un cappotto scuro e una valigia. 

La foto è stata scattata in una stazione dei treni, quell’uomo sta partendo per il viaggio che gli cambierà la vita.

Era Giovanni Fontanesi, il nonno di mio padre.

Campagna a nord di Reggio Emilia,

sabato 1° febbraio 1958.

Giovanni pedalava in quella sera umida e fredda, spingeva sulle pedivelle mentre respirava la nebbia che gli gelava persino i polmoni, cercava di mantenere l'equilibrio sulla strada di terra battuta e piena di pozzanghere che da casa sua portava al bar della cooperativa.

Era uscito di casa dopo aver messo via gli attrezzi che aveva usato per l'ultima volta: i seghetti, le pialle, gli scalpelli affilati sulla pietra, gli strumenti per misurare, i chiodi, martelli, aveva pulito tutto. Aveva avvolto ogni attrezzo in un pezzo di stoffa e con la cura di chi considerava quegli attrezzi come una parte di sé- una parte spirituale più che materiale- e li aveva riposti nell'ultimo cassettone del comò della camera da letto.  Chissà se li userò ancora, gli diceva in testa un pensiero brutto che gli fece venire gli occhi lucidi -meno male che mia moglie non mi vede-, pensò. Come ci si può commuovere per degli attrezzi da falegname? Perché lui era un falegname, e per lui il lavoro era motivo di orgoglio, nulla gli piaceva di più di veder nascere un oggetto fabbricato con le sue mani, un comodino, un armadio, persino le porte o le madie. E più ne faceva e più pensava: adesso la signora Gisella usa il mio mobile, adesso il signor Franco, nel suo ristorante, ha messo la mia credenza e la possono vedere tutti. Ditemi voi se questo, per un uomo che ha imparato da solo a fare il mestiere, non è sufficiente per essere motivo di orgoglio.

Adesso pedalava e pensava al giorno dopo, il giorno della partenza, e a tutto quello che lo spaventava, perché di dubbi e di incertezze ne aveva tanti sul suo futuro, in un tempo come quello, dove di lavoro non ce n'era ed erano quelli che gli passavano per la testa: i pensieri brutti. Lui e la moglie tiravano avanti facendo segnare la spesa al droghiere e al fruttivendolo. Ogni tanto, molto raramente, anche al macellaio. E questi pensieri di paura gli venivano spesso mentre pedalava, perché era solo, nella campagna senza rumori. Di sera poi, col buio, non era distratto nemmeno dai colori, allora i pensieri gli venivano meglio, più concreti, più forti, e riusciva a fare dei ragionamenti che durante la giornata con tutte le distrazioni non gli venivano.

Un mese prima, suo cugino Valdo, lo aveva chiamato dalla Svizzera perché nella fabbrica dove lavorava cercavano un saldatore. Era preoccupato ma anche curioso e in un certo senso fiero di lasciare il suo paese per andare a lavorare fuori.

Valdo era via ormai da otto anni ed era riuscito già a trovare una casa in affitto, a comprarsi una Lambretta e a mandare un bel po' di soldi a casa, per poi comprarsi un bar, diceva. Ma Valdo non aveva una moglie e una figlia da lasciare a casa come Giovanni. Questo era il motivo della paura di un marito e di un padre che ora stava per partire per lasciare, a trentacinque anni, la sua famiglia e il suo paese. Si sentiva di tradire chi non aveva quell'opportunità, i suoi compagni lasciati a casa dalle fabbriche e dalle campagne.

E adesso? Pensava fra sé: avrò il lavoro e potrò anche io mandare a casa i soldi, non per un bar come Valdo, certo, lui era scapolo e poteva decidere della sua vita senza rendere conto a nessuno, ma per pagare i debiti e usarli per trovare una casa in affitto migliore, vicino alla città magari, senza i topi che di notte corrono sulle travi, che una volta ho rotto la scopa, una brocca e un piatto correndogli dietro a uno lungo almeno venti centimetri, poi scappato fuori dalla porta. Neanche la soddisfazione di sfracellarlo, per avere l'illusione di aver catturato l'unico esemplare esistente e per rassicurare la mia bambina che così, morto stecchito il topo, non avrebbe più dovuto aver paura. Ricordava quando prendeva in braccio Sofia e la cullava, per proteggerla dal freddo che la stufa non riusciva a scacciare, dall'umido dei muri e dal rumore dei topi sul tetto. Adesso poteva finalmente cambiare le cose e migliorare la vita alla sua famiglia. Pensava a questo, mentre la strada sotto le ruote della bicicletta si faceva più liscia e poco distante si scorgevano le luci del centro abitato. Allora faceva più forza sui pedali, spingeva per arrivare in fretta dai suoi amici, per brindare insieme a loro al suo futuro. Giovanni non voleva avere paura, anche se la moglie e la figlia gli sarebbero mancate tanto, non voleva avere paura. Adesso le luci del circolo sono vicine e la televisione a volume altissimo trasmetteva la serata finale del festival di Sanremo.

All'interno della sala bar, un pubblico immobile seduto ai tavolini, beveva il Lambrusco della Cantina Sociale e fumava in religioso silenzio, tutti attenti alle parole di Gianni Agus.

«Vieni a vedere, Giovanni, vin dèinter, a ghè Modugno cal canta!»,

urlò un uomo coi capelli impomatati e i baffetti sottili (che sembrava Modugno appena più magro) appena vide il suo amico entrare,

«togliti il pastrano, vieni».

Seduti al tavolo vicino al bancone del bar c'erano Renato e Sergio, i suoi amici che lo attendevano, gli unici che sentendolo entrare hanno staccato per un attimo gli occhi dal televisore per salutarlo.

Renato guardava attentamente lo schermo toccandosi i baffetti: lui era il compagno di bevute, lo scapestrato del gruppo, ma anche colui al quale rivolgersi sempre quando c'era bisogno per un consiglio. Non era un tipo che ne sapesse, anzi a volte pareva proprio ignorante in tutto, ma si capiva sempre che tutto quello che diceva lo diceva col cuore, gli veniva da dentro, come una voce dalla sua coscienza che veniva amplificata a tutti coloro che ne avevano bisogno. Anche quando Giovanni gli comunicò che sarebbe partito, lo guardò serio e sentenziò:

«mi dispiace molto perché non ci vedremo presto, ma sai cosa ti dico, qui di lavoro non c'è né e non ce ne sarà per un bel po’, mentre tu, l’Elide e tua figlia mangiate tutti i giorni e di soldi ce n'è bisogno, per l'affitto e per il mangiare, quindi, buon viaggio, ti penserò ma tu quando torni portami della cioccolata che lassù la fanno buona».

Troverai qui tutte le novità su questo libro

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Rossano Crotti
Sono nato a Reggio Emilia e vivo a Quattro Castella (RE), con mia moglie Rossana e i miei figli Mansi e Chandra. A loro ho dedicato e pubblicato due diari scritti durante il periodo dell'attesa prima dell'adozione. Ho pubblicato anche una raccolta di racconti. Nella vita sono un agente di commercio e consulente aziendale per la sicurezza sul lavoro.
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