Rafael cammina sulla strada a forma di croce che ricorda il sacrificio di Nostro Signore e ha una gran voglia di uccidere.
Conosce già il suo nemico, è questione di ore.
Tira un calcio a un sasso e si guarda intorno.
solo dei suoi occhi.
Giaime senza saperlo,osservava l’assassino di suo padre.
sull’orbace del pantaloni ,che stava cercando la sua vittima.
Inutilmente Rafael gli chiese dove stesse andando a quell’ora.
avvertendo una minaccia.
terra,brillando al sole.
pezzettino si infilò nella suola consumata,trafisse la carne, e sanguinò.
pensò che quell’incidente fosse un buon segno.
paura.Ora doveva trovare Efis.E aspettare i suoi per accompagnarlo al mulino.
gente del paese quando lo vide sentì l’odore della vendetta .
chiedere pietà.
ricino mentre lui lo guardava ricordandogli che cosa aveva fatto.
porta del magazzino dove era sistemato il fieno.
Lo conoscevano ormai,Rafael era temuto.
Dora mentre lo portava in chiesa per la festa.
Lei non lo aveva visto ,e non lo salutò.
battere lo zoccolo della sua cattiveria.
aspettava,soffiandosi sulle mani per scaldarle.
gola.
nell’aria l’odore di anice e di tabacco del servo.
Giosuè stava in silenzio, per rispetto, aspettando che il padrone gli rivolgesse
la parola.
-Domani arrivano i neri e verranno da te- disse.
Efis sistemò la botte vuota che serviva da tavolo, quando i mugnai,in attesa
che il grano venisse macinato, restavano lì per pranzo, sotto la pergola, nel
piccolo giardino che, d’inverno regalava ancora rose.
Aveva già aperto la porta di legno con la chiave che portava nel taschino del
gilet e mentre scacciava il gatto che si era accoccolato sui sacchi di farina
,cominciò a riempire la tramoggia.
-Li aspetto, li aspetto, – disse Efis, non ho paura , anche se solo la paura in
fin dei conti è degli uomini.
Se devo avere timore, continuò,è per quello che non conosco ancora, la morte e
Dio.
-Quelli hanno dimenticato che la carne degli uomini se si potesse assaggiarla
ha un identico sapore.Buoni e cattivi sono fatti allo stesso modo,sotto la
pelle siamo tutti uguali.
E uccidere un uomo vuol dire uccidere tutti, abbassò la voce Efis sapendo che il
servo, pur non essendo sciocco, non poteva capire.
Giosuè gli suggerì di chiudere il mulino , e di nascondersi da qualche parte,
nel frutteto che chiudeva il paese o nelle grotte poco lontano che avevano
ospitato assassini e latitanti.
Il mugnaio lo guardò con il disprezzo che anche il padrone più giusto non
riesce a nascondere nei confronti del proprio servo.
-Efis non scappa, se oggi si deve morire , così sarà,- disse mettendo in moto
la mola ,per sentire il rumore ,sempre uguale e sempre diverso del suo
mulino,come se fosse un giorno come tanti.
Sul campanile della chiesa di Sant’Isidoro un’upupa tardò a sparire alla luce
del giorno.Il colombaccio lanciò il suo verso intermittente nella nebbia,
Intanto i camini venivano accesi e il fumo saliva disegnando strane forme
sospinte dal vento,ma quando il maestrale soffiava facendo volare qualche
tegola rotta dai tetti delle case ,quella nuvola odorosa di legna sembrava
allontanarsi.Poi quando il vento lasciava il posto alla calma, il tappeto di
fumo copriva uomini,case,animali e le vergogne del paese.
A Montinò il cielo si vedeva in primavera.
Convinto che nella vita tutto dovesse arrivargli senza tanti fastidi,Rafael
indossava la divisa nera solo perchè così si sentiva al sicuro.
Un abito era però solo un involucro che non teneva insieme le sue insicurezze.
Come mai si chiamava Rafael? Perchè proprio quel nome che aggiunto al primo
,Diodato ,faceva pensare a qualche discendenza ebraico spagnola?
E questo era il dubbio, fra i tanti , che lo amareggiava di più.
In realtà si chiamava così perchè la madre sposò un circense castigliano
mangiatore di vetri e lampadine.
Lei, Anita ,una sartina che non aveva mai preso neppure il postale, lo sposò
per la meraviglia dei lunghi baffi e delle sue stranezze, ma il matrimonio durò
il tempo di fare un figlio.
Appena nato il bambino ,il castigliano sparì dimenticando moglie e figlio per la
trapezista più bella che mai avesse visto.
Alma Vivanes vent’anni,i capelli che le sfioravano le caviglie arrivò col circo
che si era attendato in paese.
Tutti gli uomini andarono a vederla.
Si diceva che il suo corpo fosse perfettamente adattabile a tutte le posizioni
suggerite dall’amore, o almeno così sussurrava Peppino a quelli che in piazza
attendevano che cominciasse lo spettacolo .
Lui, in soffitta nascondeva quel libro indiano proibito ,con le figure degli
amanti che si intrecciavano uno sull’altro e qualcosa raccontò di quanto aveva
letto, suggerendo con malizia ai paesani che lo ascoltavano come si poteva
raggiungere la beatitudine anche sfiorando soltando i piedi di una donna.
Un fascista figlio di un circense con sangue ebreo , era la vergogna da
nascondere, pensava Rafael ,quando la madre gli disse di non pensare più al
passato perchè suo padre ,a furia di giocare con il pericolo, finì dissanguato
dal vetro di una lampada che si era spezzata in gola.
Fu la sua esibizione migliore.
In piazza quel giorno c’era tutto il paese.
Furono sistemate le lampade a gas intorno al tappeto dove il castigliano si
vestiva indossando un mantello luccicante sulle spalle , fermato da una spilla
di ottone a forma di serpente.
Una fascia di seta rossa gli stringeva la vita, facendolo sembrare ancora più
magro.
Aveva gli orecchini a cerchio ,i baffi allisciati sfioravano le tempie ,i
capelli ricci si contorcevano al movimento del suo respiro , soffiava e gonfiava
le guance educando i muscoli della gola ad allargarsi quando lo avesse voluto.
Gli applausi lo accolsero quando si presentò sul tappeto disegnato a draghi
saltellando e incitandosi con un op op op prima di fare il suo primo numero.
Un ragazzino senza scarpe,in prima fila mangiava una carruba sputando i semi
sui suoi piedi.
Dietro di lui una donna imponente pisciava in piedi,un contadino si puliva le
unghie col coltello,l’odore delle pecore appena munte che avevano lasciato una
traccia sulle scarpe di chi le aveva era forte ,e si mescolava col talco al
mentolo che il circense si sfregava sulle mani.
L’uomo con i riccioli prese le spade , le incrociò, le puntò contro il pubblico
, le strinse sul petto, le allungò, poi appoggiandone una sul viso ,la baciò e
senza esitare la conficcò in gola.
La lasciò lì per qualche secondo, al bambino in prima fila colò la saliva per lo
stupore, si sentì un sussurro di meraviglia , come il muggito di una mandria
che si incammina divenne piu’ forte e cominciarono gli applausi.
Il castigliano quella sera era stanco, quando tolse la spada la mano non era
così ferma , e non si accorse che la punta dell’arma era leggermente bagnata di
sangue.
Alma Vivanes, intanto, tenendo in mano le lampadine e facendole ruotare tra le
dita , girava intorno al pubblico.
Raccolse un cestino da terra ,lo allungò verso i contadini, contò poche monete,
ma quando lisciandosi i capelli e arrotolandoli sulla testa tirò fuori la lingua
facendola guizzare ,anche i piu’ avari del paese, nella speranza di incontrarla
dopo lo spettacolo, allungarono qualche banconota,risparmio da bruciare nella
speranza dell’amore, qualunque forma avesse.
Il campanile suonò mezzanotte, la luce delle lampade a gas che illuminavano il
palcoscenico del circense cominciava ad affievolirsi e gli occhi si chiudevano
cullati dalla musica tzigana che Alma suonava al violino prima di dare il via
all’ultima esibizione del castigliano.
L’uomo con i riccioli, sputò prima di cominciare il suo numero.
Dal cestino prese una lampadina ,passò davanti al pubblico tenendola in
mano,poi rovesciando la testa all’indietro
finse di masticare un boccone duro da digerire.
Alma intanto le ruotava intorno con due incensi accesi.
Il castigliano continuò il suo giro,davanti al pubblico sperando di sollecitare
gli applausi e mentre un refolo di vento soffiò via la goccia di sudore sulla
sua fronte,un geco caduto dal cornicione della casa vicina gli sfiorò un
orecchio.
Scosse la testa infasfidito ,dimenticò, distratto dall’animale , di controllare
i muscoli della gola .
All’improvviso si sentì soffocare , in bocca lo spezzarsi del vetro ,come un
boccone di sabbia tra i denti,fece zampillare il sangue .
-E’ tutto finto, anche il sangue -urlò il bambino in prima fila educato allo
scetticismo dal padre ,maestro di imbrogli, che allungava il vino con l’acqua ,
ma quella che restava nei recipienti degli animali.
Alma Vivanes lo spinse indietro con la mano,dandogli un pizzicotto sulla spalla
.
Il piccolo pianse, scappò cercando il padre, qualcuno protestò ma Alma sorrise
e lasciò cadere la spallina del vestito per far intravvedere il seno e tutti si
dimenticarono del bambino.
Il castigliano intanto annunciò che lo spettacolo era finito mentre col mantello
cercava di asciugare il sangue sulle labbra.
Alma raccolse in fretta le monete che avevano lasciato per terra e mentre tutti
tornavano a casa ,il circense si afflosciò sul tappeto a draghi.
Lei urlò, alcuni tornarono indietro ,guardarono l’uomo avvolto per terra nel
mantello bagnato di sangue .
Il vignaiuolo corse a prendere la carrozza e andò a chiamare il medico .
Quando arrivò ancora assonnato per il riveglio a quell’ora tarda , l’uomo non
fece altro che togliersi il cappello , mettere due dita sul collo dell’uomo e
dire che era morto eccome.
Lo seppellirono nell’angolo del cimitero dove le lapidi dei senza nome erano
ricoperte di muschio dalla consistenza di velluto.
Alma Vivanes non pianse quell’uomo , ma si preoccupò invece del suo destino .
La rosa di stoffa del vestito finì in quella sepoltura anonima , e fu l’unico
gesto pietoso per quell’uomo svuotato della vita.
Poi mentre tornava in piazza a raccogliere le cianfrusaglie dello spettacolo
civettò col vignaiuolo fingendosi spaurita e disperata per la sua sorte.
Ed era quello che voleva l’uomo dai mille imbrogli .
L’abbracciò, le chiese se poteva tagliarsi i capelli, e solo in quel caso
l’avrebbe portata a casa , cosi’ i suoi genitori ,non avrebbero avuto nulla da
dire.
Si’, era vedovo , ma non avrebbe potuto imporre al padre e alla madre un
moglie zingara.Lei disse , li taglio, se vuoi.
Ed andarono a casa,i vecchi si svegliarono e chiesero che cosa fosse successo
guardando con curiosità quella donna , che – raccolti i capelli- sembrava avesse
una torre sulla testa.
Il vignaiuolo raccontò, disse che Alma era un’orfana e che aveva bisogno di
aiuto.
-Se siete d’accordo posso anche sposarla – aggiunse andando a prendere una
bottiglia di vino.
I due anziani ,guardando le mani della donna ,dalla pelle di un guanto di
capretto,valutarono che non sarebbe mai riuscita neppure a sgusciare una
mandorla, ma la solitudine in quella casa era ormai una mano che prendeva alla
gola.
Ben venga allora – gli disse il padre .
Doveva andare fuori a orinare e aveva fretta .
Il vignaiuolo posò sul tavolo la bottiglia e questa volta si brindò con vino
buono,al morto, alla futura sposa e a i suoi capelli , che finirono in un federa
di seta, quando lui li tagliò con le forbici della vigna, strappando lacrime su
lacrime ad Alma sofferente per la vanità ferita.
Fu sua madre a raccontargli quella storia .
” Ora che sei grande devi sapere” gli disse quando gli comprò il primo paio di
calzoni lunghi.
Era un pomeriggio d’estate in paese.
Il sole ruggiva lanciando lame di caldo che stordivano.
E nessuno sfuggiva a quella tortura.
Una lucertola affannante entrò nella cucina e si fermò sotto una sedia cercando
riparo tra due fili di paglia.
Le pesche , nella fruttiera, avevano la buccia rugosa ,e il profumo sembrava
distillato da mani angeliche.
Anna ,lasciando da parte il pudore, entrò nella stanza in sottoveste , era un
momento di intimità,in cui i cuori si aprivano .
Dal cassetto della credenza , dove si inerpicavano tralci di vite sbalzati da un
falegname senza fantasia,Anna tolse un vasetto di brillantina.
-Ecco, e’ tutto quello che è rimasto di lui,tuo padre.
Poi aprì il barattolino, intinse il dito nella gelatina che sapeva di menta e
sfiorò i capelli del figlio.
Rafael da allora associò l’odore della brillantina al dolore.
I suoi capelli rimasero sempre spettinati, anche se -a soli trent’anni- era gia’
stempiato, e un ciuffo a siepe al centro della testa avrebbe avuto bisogno di
essere domato.
Mentre la madre chiudeva il cassetto mettendo la brillantina nella scatola dei
fili, si guardò allo specchio .
Vide una faccia in cui non si riconosceva.
Quando la rabbia gli arrossava le guance somigliava a uno di quei fauni
saltellanti che aveva visto nell’etichetta di una bottiglia di liquore,e quei
bozzi, i bozzi sulla fronte, ah quelli , gli aveva ereditati alla nascita.
Di Jesum, in paese , non si fidava nessuno.
Quel giovanotto con le sopracciglia a raggera,era l’abitante misterioso della
comunità.
Non aveva padre, nè madre.
Non aveva storia.
Era arrivato – così ricordava qualcuno -un giorno d’inverno ,a piedi da chissà
quale luogo,con le scarpe aperte nella suola come musi di coccodrillo,con una
immaginetta in mano di una Madonna nera con gli occhi chiusi.
Poteva avere trenta, quarant’anni,o forse di più, a giudicare dalle rughe che
attraversavano la sua faccia.
Ma se sorrideva e capitava soltanto quando gli animali, un cane, un gatto, un
porcospino gli si avvicinavano , sembrava un bambino ,o qualcosa che
assomigliava un essere umano innocente , che vibrava al richiamo della natura.
Jesum seguendo il suo istinto – arrivato in piazza dove si sedevano su una
panchina al lato della Chiesa i vecchi e chi aveva gia’ munto pecore e vacche e
annegava nel vino la disgrazia di un lavoro di cui non era padrone,chiese dove
potesse trovare una casa per lui.
Ad un uomo toccato da Dio ,lo sapevano bene, non si rifiuta nulla.
Estorino ,spense il sigaro per terra, da tempo gli sembrava che il sapore del
tabacco fosse lo stesso che gli legava la bocca quando mungeva e guardò
quall’uomo con la sacca sulla spalla ,la schiena piegata come un punto
interrogativo.
-Ti accompagno alla casa diroccata , c’è posto lì.
La lieve zoppia di Estorino , caduto, da piccolo dal muro del frutteto in cui
era andato a rubare,diede a Jesum il tempo di rallentare il passo e di guardare
voltandosi il paese in cui era arrivato sospinto come un seme soffiato dal
vento.
Tutti gli uccelli cercano il nido.
Jesum cercava il suo.
Lo trovò.
Estorino camminava davanti a lui.
Il suo passo era incerto ,trattenuto da qualcosa che andava oltre la sua
menomazione.
Jesum si portava dietro il lieve strascicare delle scarpe che non gli obbedivano
più e più che camminare sembrava battere la terra per ricavarne un suono.
Quando una tortorella lo sfiorò, ne ripetè il verso per chiamarla,una tortora
battè le ali sopra la sua testa e lui gorgogliò qualcosa riuscendo a tenerla
fermo sulla spalla .
Il cane tutt’ossa che in piazza prendeva più calci che pane lo seguiva, sicuro
che da lui avrebbe avuto qualche carezza che era meglio della fame.
Arrivarono nel vicolo dietro la chiesa , cosi’ stretto che bisognava
attraversarlo uno dietro l’altro,due persone vicine avrebbero strisciato sui
muri ,per un nemico che avesse voluto assalire qualcuno era il luogo ideale.
Per questo ,tutti quelli che passavano di lì, ogni tanto si voltavano per
controllare di non essere seguiti,o per vedere chi passava da quelle parti e
preparsi , eventualmente a difendersi.
Estorino gli indicò la casa.
Un cancelletto verde chiudeva due muri crollati a metà sui quali un’edera
stentava ad arrampicarsi.
Nel cortile la pianta di limone era piegata dal peso dei frutti, mentre il fico
sembrava un rifugio per uccelli, piuttosto che un esemplare della natura.
Jesum non era molto alto,il suo corpo aveva le giuste proporzioni ,ad eccezione
del labbro superiore che si era rivoltato verso l’alto dandogli un musetto a
coniglio, e vedendo quell’ingresso da casa di fate , si chiese come sarebbe
potuto entrare .
Spinse la porta e si chinò.
Un ragno , che abitava indisturbato in quella casa aveva tessuto ragnatele così
fitte che , alla finestre, come tende, toglievano la luce e filtravano i raggi
del sole.
Nel camino dormiva un gatto,al rumore ,aprì un occhio, si stirò ed usci’ dal
buco della porta rotta.A Jesum piaceva quella casa.Controllò che ci fosse un
letto , e gli strappò un sorriso quella brandina sistemata vicino al camino.
Dal labbro leporino uscì un grazie confuso.
Estorino lo avvertì che in quella casa non c’era la luce.
Si sarebbe dovuto arrangiare con le candele.
Li’ poteva stare quanto avrebbe voluto.
La proprietaria era morta.Si chiamava Peppina.
Peppina aveva sempre sete, ma non d’acqua.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.