Fuori stava piovendo e il tempo lasciava a desiderare, rendeva l’atmosfera più cupa di quanto già fosse.
Questo clima glaciale mi fece rabbrividire, appena varcai l’uscita di casa, istintivamente strinsi forte i lati
della mia giacca di pelle, in modo da coprirmi il più possibile.
I semafori lampeggiavano e le strade erano già ingombre di automobili.
Una folata di vento gelido mi colpì nel mentre attraversavo per entrare alla Wyld High School, la scuola che
frequentavo. Goccioline limpide come rugiada si impigliarono tra i miei capelli mossi, scendendo, rapide, e imperlandomi la fronte. Appena varcai la soglia d’ingresso vidi Madison venirmi incontro.
«Buongiorno Arm!», esclamò, con fare entusiasta, come di suo solito.
Madison era sempre allegra. Era una delle cose che adoravo di lei.
«Buongiorno, Mad.» risposi, sbadigliando e le feci scappare una risatina.
«Hai dormito, sì?», chiese, ironicamente, ridacchiando fievole.
«Certo, certo!», la presi in giro rispondendole ironica.
Il mio sguardo vagò altrove, venendo catalizzato da una figura slanciata e muscolosa, che stava camminando in corridoio, sprizzando sicurezza da ogni poro, e un’aura di mistero avvolgente che lo ammantava da capo a piedi. Era uno dei ragazzi più belli della Wyld High School.
Orias Wyld, il figlio del preside.
Lui era il classico bel ragazzo, così affascinante da sbaragliarti, tuttavia, così freddo e distaccato che la sua presenza era letteralmente glaciale. Nonostante la sua bellezza, erano poche le ragazze che avevano il coraggio di avvicinarsi a lui. Orias era molto riservato e misterioso, sembrava che avesse un’aura di mistero avvolta attorno a sé come fosse un manto fatto di fitte tenebre.
Erano poche le cose che si sapevano sul suo conto, oltre a essere il figlio del preside della scuola, tutti sapevano ben poco.
Capelli corvini che ricadevano sul suo viso simmetricamente perfetto, con un colorito diafano che lo facevano risplendere come la luna, che brillava solitaria, piantata in mezzo a un campo di pece.
Occhi neri come il carbone e una imponente figura che ti scrutava dall’alto con ostentata sicurezza.
I miei occhi vennero catturati da Madison e le mie orecchie da altre moltitudini di rumori.
Orias era sparito; vidi arrivare Noah, il mio ragazzo.
Mi venne incontro e mi tirò a sé per baciarmi.
«Buongiorno, Arm», esordì, sbadigliando.
«Giorno».
«Che sonno!». Mi stropicciai gli occhi e lui rise al mio gesto.
«Ehi, che ti ridi?!», domandai, fingendo di essermi alterata, prendendolo in giro come facevo sempre.
«Niente, niente!», disse divertito, zittendosi e alzando le spalle in segno di giocosa resa. Mi prese per mano e mi trascinò in classe, Madison era sparita, chissà dov’era andata a finire.
Seguimmo tutte le lezioni e uscimmo dall’aula di matematica.
«Diamine, matematica all’ultima ora è d’abolire!», constatò Noah e io scoppiai a ridere fragorosamente.
«Già, hai ragione!», confermai e poi appena giungemmo fuori dalla scuola, mi accorsi di non avere il telefono con me. Guardai nella cartella ma non c’era.
«Cavolo, vai avanti senza di me, devo fare una cosa!»..
Rientrai all’interno della scuola in tutta fretta.
Lo spazio mastodontico era desolato, il piano calpestio dalle tinte seppia, era leggermente cosparso di sporcizia. I corridoi lunghi erano deserti, tutti erano già usciti. Non si udiva un minimo rumore.. Era tutto fin troppo silenzioso, uno di quei silenzi assordanti che ti rimbombano nelle orecchie fino a fartele scoppiare.
Cercai nell’aula di matematica, in quella di inglese, di fisica, di letteratura. Nulla..
Infine, decisi di provare anche in laboratorio. Camminai lesta, in direzione della porta. Appena fui abbastanza vicina, protesi il braccio, afferrai la maniglia e aprii la porta e quello che vidi non era senz’altro quello che cercavo né qualcosa che avrei voluto vedere.
Era uno spettacolo aberrante dalla quale i miei occhi vennero catturati inesorabilmente. Senza lasciarmi via di scampo. I miei occhi che finora vagavano alla ricerca di qualcosa si impalarono su un unico soggetto, che non sapevo di star cercando, eppure, una volta che i miei occhi videro la sua figura, senza via di fuga, tutte le altre motivazioni si azzerarono. Non sapevo cosa pensare, quello che mi ritrovai davanti… mi sconvolse.
Una persona, se così fosse possibile definirla, era abbrancata al corpo di una giovane ragazza che presumibilmente frequentava la mia stessa scuola, esattamente come il suo carnefice dalle fattezze del demonio. Guardai attentamente, misi a fuoco la scena, era un uomo a me già noto.
La giovane ragazza aveva perso i sensi o forse era già morta dissanguata a esaminare la dose di sangue che aveva perso, e dal colore della sua pelle esanime. L’uomo si accorse di non essere solo, percepì la mia presenza e vedendo il suo volto pallido riflesso tramite il vetro della vetrata del laboratorio, riconobbi subito chi fosse. Ali nere piumate, occhi rossi come il sangue che aveva appena bevuto e un corpo esanime di una donna oramai morta. Sul viso, ai lati delle labbra carnose, c’era sparso a goccioline purpuree il sangue di quella donna. Un volto indemoniato che ti mandava dritto agli inferi solamente se ti permettevi di bearti di quella simmetria facciale perfetta. Un connubio di ostentata sicurezza e tratti superbamente demoniaci. I miei occhi vennero rapiti da quell’intricato conglomerato di sensazioni controverse e fuori dall’ordinario.
Quello che mi si prostrava dinanzi era nientemeno che Orias Wyld, il figlio del preside di questa scuola. Orias si voltò verso di me, con fare sorpreso, squadrandomi attentamente con quelle pietre focaie che aveva al posto degli occhi. Mi sentii messa a nudo, di ogni barriera che forse avrei dovuto rafforzare davanti un essere come lui. Sussultai dallo spavento e dallo stupore oltre che dalla confusione quando vidi le sue labbra carnose gremite di residui di vermiglio.
«Oh, chi abbiamo qui, una ficcanaso?», domandò, un lieve accenno di sarcasmo nella sua voce che riverberava nello spazio ristretto di questa stanza che pareva stringersi attorno a noi, pronta a schiacciarci, e nel mentre la mia mente tentava di fuggire e il mio sguardo me lo impediva, lui non distolse lo sguardo da me, guardandomi con quel suo sguardo impetuoso. Mi sembrò di affogare nel suo sguardo.
«Io… io…», esitai, la voce tremolante. La mia mente offuscata dall’odore raccapricciante che mi strisciava nelle narici come una serpe. Sarei dovuta scappare via a gambe levate, tuttavia, le mie gambe erano diventate di pietra. Orias scoppiò in una sonora risata. Impietrita, guardai torvamente Orias.
«Sono così raccapricciante in questo momento?», mi sbeffeggiò tagliente. Orias si sollevò, distogliendo completamente la sua attenzione da quel corpo privo di vita per dedicarla a me. E io volevo solo fuggire via mentre quel concentrato di demonio e tratti superbamente ammalianti si avvicinavano alla mia figura minuta che mi faceva sentire nettamente in svantaggio in un confronto fisico anche solo con un normale essere umano, figuriamoci un essere come lui. Qualsiasi cosa fosse aveva l’aria di possedere enorme potere e capacità distruttive. Si avvicinò fulmineo, costringendomi a indietreggiare il più rapidamente possibile per tentare di sfuggirgli, ma fu così che cascai nella sua trappola e venni spinta al muro, intrappolata dalla sua possente statura e dallo sguardo colmo di morte e bagliori infernali. Tentai di liberarmi dalla sua stretta, scalpitando, tirando pugni al suo petto marmoreo che quasi mi accese un moto di dolore, e tentai ancora di allontanarlo da me, spingendolo via. Mi afferrò un polso, poi l’altro, con le sue mani grandi e velate di scarlatto. Mi braccò e tremai nella sua stretta poderosa.
«Sta’ ferma», mi ammonì, perentorio. Tentai ancora di liberarmi, lui strinse la sua salda presa ulteriormente e mi scatenò una fitta lieve di dolore.
«Sta’ buona. E ferma. Non mi piace ripetermi», puntualizzò gelido. La sua voce glaciale mi chetò perché mi cosparse di terrore, impedendomi di osare e di vedere cosa sarebbe accaduto.
«Così, brava, ora ci intendiamo», commentò notando che mi ero immobilizzata come una statuina.
«Rispondimi», ordinò, spazientito, riprendendo il discorso interrotto dalla mia lotta; a questa distanza riuscivo a sentire il suo respiro battere sul mio viso. Sapeva di morte rovinosa, di dolci peccati che si mescolavano a sogni infranti e tortuoso dolore.
«Sì», ammisi, flebile. Speravo che non avesse sentito.
Speravo fosse solo un brutto sogno, un incubo dalla quale presto mi sarei svegliata.
«Se ora sono raccapricciante aspetta di vedere quello che sto per farti».
Iniziò ad accarezzare i miei capelli, rivolgendomi un sorrisetto sbieco. Il colore castano tra le sue dita pallide creava un contrasto che saltò al mio sguardo.
«Cosa?», cercai di parlare, tuttavia, Orias portò il suo indice leggermente cosparso di sangue alle mie labbra, zittendomi. Notai che aveva un tatuaggio sulla mano sinistra: due serpenti, uno dalle tinte pece e l’altro dalla luminescenza bianca argentea, si intrecciavano e quello scuro si snodava fino al dito medio e quello chiaro fino al pollice. Sembrava il bene che si fondeva al male, che coesisteva senza mai interferire, come due rette parallele che non si incontrano mai.
«Silenzio», ordinò e io lo ascoltai timorosa.
«Adesso hai due scelte…», iniziò a parlare, nel mentre giocherellava con i miei capelli, sporcandoli leggermente di rosso scarlatto, simbolo di morte rovinosa, della morte di quella ragazza.
«Morire o baciarmi». Un sorriso diabolico si propagò sul suo viso.
Mi sembrava tutto così folle, bizzarro e malsano. Levò il suo indice dalle mie labbra per consentirmi di proferire parola, per sentire cosa avrei risposto.
«Tu… che cosa sei?!», domandai, agghiacciata e con confusione palpabile. Ero sotto choc.
Il suo sguardo era fisso sul mio viso, quegli stupendi occhi rossi mi stavano guardando.
Mi stavano analizzando guardinghi e al tempo stesso con una mansueta sicurezza e un lieve velame di divertimento e acredine.
«Sono un demone», rivelò. Lo guardai accigliata e con la paura che mi incupiva i lineamenti.
Il cuore palpitava, sembrava volesse uscire fuori dal petto e fuggire al posto mio.
«Che c’è? Hai paura?» chiese d’un tratto, acredine e divertimento trasudavano dalla sua voce.
«Secondo te? Arrivaci da solo, non serve che ammetta di avere paura, mi si legge in faccia» risposi, irritata, confusa e priva di autocontrollo. Quando avevo paura non ragionavo. Probabilmente se avesse voluto uccidermi lo avrebbe già fatto, se temeva le conseguenze di quello che avevo appena visto. Ma forse essere il figlio del preside di questa scuola era un privilegio.
Lui mi guardò sghembo e poi scoppiò a ridere.
«Certo che sei strana, prima balbetti tutta tremolante di paura, e ora osi essere sarcastica con me?», domandò, sbigottito e io ero ancora più stupefatta di lui.
«Ehm… ecco io…», cercai di giustificarmi, fallendo miseramente e per fortuna, o quasi, lui mi interruppe, scocciato.
«Be’, non mi importa, adesso scegli», ingiunse, con tono autoritario.
«Devo per forza?» chiesi, confusa e flebile.
«Se non vuoi essere uccisa subito, sì», precisò, austero, trucidandomi con quelle gemme scarlatte.
Un breve attimo di silenzio che fece tutto l’opposto di chetarmi l’agitazione prese piede, finché lui, spazientito, aprì bocca.
«Allora dimmi: vuoi morire o baciarmi?» chiese, sfoggiando un sorrisetto maliardo e sfamandosi del mio evidente disagio e terrore.
Appariva superbamente sicuro di sé, sembrava quasi essere dilettato da questo spettacolo raccapricciante e aberrante. Sembrava quasi che si stesse nutrendo delle mie emozioni, facendomi da amplificatore.
«Non voglio morire…», sussurrai, flebile, intimidita. Ma non volevo neanche baciarlo.
«Allora… cos’è che vuoi?», mi provocò, il tono di voce profondo, rauco. Io mi morsi il labbro inferiore, infastidita dai suoi modi, tentando di sopprimere le emozioni che mi stavano assalendo.
«Non osare provocarmi…», mormorò, puntando lo sguardo sulla mia bocca. Mi fissò il labbro inferiore e io imbarazzata distolsi lo sguardo, tentando di fuggire come potevo.
Fuggire da uno sguardo tutto fiamme che costringeva al rogo e ti bruciava l’anima.
«Guardami», ordinò e con le sue fredde dita mi fece voltare il capo verso di sé.
«Non uccidermi», sibilai..
«Cerca di essere più convincente e forse potrei tenerla in considerazione come opzione», si prese gioco di me, con il suo sorrisetto provocatorio e la voce canzonante.
Questa situazione mi spaventava e mi agitava come mai prima d’ora.
Eppure c’era qualcosa che mi intrigava al contempo.
«Come dovrei esserlo?», domandai ingenuamente, pentendomene subito dopo.
«Supplicami di baciarti», rispose, con voce sensuale.
Era tutto un brutto sogno.
Mi sarei svegliata presto.
«No. Sono fidanzata».
«Non mi importa se sei fidanzata, tanto meno se sei morta, quindi scegli tu se continuare a vivere e baciarmi, oppure morire restando fedele a un ragazzo che probabilmente appena morirai, tempo una settimana e starà già insieme a un’altra ragazza». La sua voce gelida, il modo in cui pronunciò quelle parole prive di sentimenti, mi alimentarono la paura a dismisura.
«Non voglio morire, sono ancora troppo giovane per essere morta…», mormorai.
Il suo sguardo si fece più diabolico appena sentì le mie parole
Era come se mi stesse trascinando con sé all’inferno, come se dalla retta via mi stesse trascinando a compiere peccati. La domanda era: cosa potevo fare io, per impedirglielo?
«Allora di quello che vuoi».. Annuii. Era terrificante, tuttavia, bello come un adone.
«Baciami». Il cuore batteva freneticamente facendomi respirare appena.
Lui si avvicinò e sfiorò le mie labbra con un dito sporco di un velame di sangue.
Tolse il dito, che aveva macchiato le mie labbra di sangue, e a fior di labbra sussurrò: «Chiedilo più educatamente».
Volevo insultarlo. Se lo meritava.
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