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La bussola del dubbio (Costume e Malcostume)

La bussola del dubbio (Costume e Malcostume)
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Consegna prevista Dicembre 2023
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È una raccolta di quasi 60 brevi saggi ironici e divulgativi di costume e malcostume, su svariate materie dei mala tempora che attualmente currunt. Ecco qualche titolo stuzzicante: Caduti nella rete, On line per forza?, Evviva il regresso, E’ tutta retorica (sic), La maledizione degli acronimi, Dislessico ma non troppo, La vita virtuale che verrà, Medicine alternative e miracoli, La moda dei tatuaggi, La sindrome dell’altrove, Della superstizione, Il caso e la necessità, Le magnifiche sorti e progressive, Le nozze assiro-babilonesi, La bussola del dubbio, ecc.

Perché ho scritto questo libro?

Per ragioni moralmente irricevibili ed egoistiche: perché scrivere è per me un vero spasso e perché, dopo anni di scrittura su commissione, ho deciso che basta, avrei scritto solo su ciò che mi piaceva e mi pareva interessante anche per altri, nonché di dire apertamente le mie opinioni su tanti luoghi comuni del ben-pensare. Mi auguro che i lettori possano, leggendomi e sorridendo tra sé e sé, esclamare: ah, finalmente, sì, è proprio così.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Prefazione

Gli articoli raccolti in questo volumetto sono stati pubblicati, nel corso degli ultimi anni, sulla rivista on-line “Luminosi Giorni” (http:/www.luminosigiorni.it/), ideata a suo tempo e diretta da Carlo Rubini, amico fraterno di antica data, fin dai tempi dell’università, quando (nel paleolitico) si frequentava entrambi lo stesso corso di laurea in lettere.

Carlo è stato insegnante come me, ma diversamente da me è un individuo vulcanico, perennemente affaccendato in una o più iniziative, e mai con le mani in mano. Così, quando un paio d’anni fa si presentò alla mia porta per propormi di collaborare alla sua rivista, io gli dissi di no: semplicemente mi pareva di non avere nulla da dire (e allora, in questi casi, meglio il silenzio, io credo). Per arginare la sua insistenza, gli “diedi in pasto” mia moglie, Annalisa Martino, che oltretutto scrive meglio di me e che tuttora, come me, collabora a “Luminosi Giorni”.

Ma Carlo non si arrese e continuò a corteggiarmi, finché alla fine capitolai. Il fatto è che ero, in realtà, molto combattuto. Certo, una considerevole pratica della scrittura non mi mancava affatto. In anni precedenti avevo, tra le altre cose, scritto abbastanza a lungo per varie testate specialistiche o “di settore”. Erano gli anni della Milano da bere, la seconda metà degli Ottanta, e poi quelli di Tangentopoli, i primi del Novanta. Correva ancora “l’argent” e le editrici “esternalizzavano” molto lavoro, lasciando che le redazioni fossero composte magari solo da una o due persone. Tutto il resto lo facevano i free lance, i mercenari della penna.

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Io scrivevo per riviste di ogni ordine e grado: edilizia, arredamento, management, packaging, advertising, marketing ed altre parolacce anglosassoni. Scrivevo di cose delle quali spesso assai poco mi caleva e, quel che è peggio, di cui sovente non sapevo un beneamato nulla (sicché dovevo ogni volta precipitosamente alfabetizzarmi prima ancora di documentarmi). Ma avevo un alibi, allora: mi pagavano (sia pure assai poco, per la verità) e ciò tacitava la mia coscienza, per il tempo che sottraevo a più nobili interessi e soprattutto alla mia famiglia e ai miei congiunti. Però avevo in quel modo la possibilità di scrivere, che è sempre stata una delle mie passioni.

Con la rivista di Carlo, invece, avrei dovuto collaborare gratis (come del resto tutti quelli che ci scrivono). Ma il problema non era questo: il fatto è che io mi ero ripromesso, a suo tempo, di non scrivere mai più nulla su commissione, su argomenti di cui non m’importasse niente e di cui niente sapessi. Alla fine feci un patto con Carlo: avrei collaborato con la sua rivista solo a condizione di farlo se avessi avuto qualcosa da dire che m’interessava veramente. Lui accettò il patto e mi diede carta bianca. Così ho cominciato a scrivere sul suo blog a proposito di argomenti che erano i miei, e sui quali mi pareva di potermi esprimere liberamente e con qualche interesse, per il lettore, non solo di forma, bensì anche di contenuto.

In realtà gli articoli che compaiono in questo volume sono piuttosto dei brevi saggi (solo in senso tecnico, sia chiaro, e senza nessuna presunzione) di tipo divulgativo. Sono, come dice Carlo, degli “evergreen”, degli articoli buoni per tutte le stagioni, almeno per le stagioni dei mala tempora che attualmente currunt. E in effetti si tratta – come recita il sottotitolo – nella maggioranza dei casi (e, in senso lato, in tutti i casi) di articoli di costume o, piuttosto, di malcostume. Sono spesso percorsi da un’intenzione di distacco dall’attualità più stringente, dalle mode intellettuali e dalle posizioni preconcette (mi auguro).

Il lettore può leggerli, credo con qualche piacere e divertimento, senza alcun rispetto per l’organizzazione della materia (quale si evince dall’indice del libro), saltabeccando da un capitolo all’altro a suo piacimento, a seconda dei suoi interessi e delle sue curiosità intellettuali.  Buona lettura.

I Dello scrivere e del comunicare

Asticelle, calligrafia e tablet

Mezzo secolo fa, quando a scuola c’era ancora la pedana (di legno) sotto la cattedra e si scriveva con pennino e calamaio (io me lo ricordo), i maestri e le maestre vessavano i “primini” con le famigerate “asticelle”. Si trattava di tracciare sul foglio segmenti obliqui e poi cerchi e cerchietti per un interminabile numero di pagine e di giorni. Vera tortura didattica, per i fanciulli. Oltretutto i segni andavano eseguiti con pennini grondanti o schizzanti un nerissimo quanto indelebile inchiostro. Opportunamente tamponato, via via, con apposita carta assorbente.

Questa severa disciplina era ovviamente propedeutica a ciò che con noto pleonasmo veniva chiamato “bella calligrafia”.

Oggi leggo sovente manoscritti di adolescenti (e non dico bambini) che sono raccapriccianti dal punto di vista grafico: nessuna contezza dei margini e degli spazi; caratteri – all’interno di un medesimo scritto – grandi e piccoli, inclinati verso destra e verso sinistra, col ricorso contemporaneo allo stampatello maiuscolo, a quello minuscolo e, qua e là, al corsivo stesso. Più qualche pittogramma in uso sui telefonini. Testi, peraltro, a tratti indecifrabili. Un vero obbrobrio, insomma, specchio di anime alla deriva.

Qualcuno obietterà che sono all’incirca un ottuso conservatore, che tra poco gli alunni andranno a scuola senza libri, quaderni e penne, perché basterà loro, per far ogni cosa, una tavoletta elettronica o qualche ulteriore diavoleria tecnologica.

Ho qualche dubbio in proposito. Dubito cioè che un’invenzione tanto geniale del genere umano come la scrittura a mano sarà mai del tutto soppiantata (come non è stata soppiantata, a suo tempo, dalla macchina per scrivere): infatti con la rudimentale tecnologia di un lapis e di un po’ di carta puoi parlare dell’universo mondo, se ci riesci.

Inoltre mi chiedo, pur senza vagheggiare anacronistici ritorni alle “asticelle”, se la cura della bella scrittura non fosse anche un esercizio di coordinamento spaziale, una disciplina di autocontrollo, di abitudine alla decenza e all’armonia, al rispetto per gli altri e per sé. Una palestra di moderazione, coerenza e precisione. Ma oggi sembra che tutto quello che è nuovo sia bello e tutto quello che è vecchio sia invece, per ciò stesso, superato. Sarà proprio vero?

Caduti nella rete

“C’è scritto sul giornale!”, si diceva una volta. Poi venne il turno della televisione: “L’ha detto la televisione”. Ora è la volta di internet: “l’ho trovato su internet”. Come se con ciò ogni discorso fosse chiuso. Ma, almeno, dietro a giornali e tv c’erano (e ci sono) giornalisti ed editori: cioè qualcuno che può (e deve) risponderne, assumersi la responsabilità di ciò che comunica.

Internet, invece, è il mare magnum dell’universo mondo. E in fondo qualunque cretino – diciamocelo – può aprire un suo sito e alimentarlo delle più inverosimili fanfaluche.

Tuttavia, finché gli utenti della rete sono adulti e, come si dice, vaccinati, passi pure.  Sennonché, com’è noto, ad internet sono usi collegarsi a miriadi i ragazzini (e i bambini, persino). Di ciò molti genitori si lamentano blandamente: “sta tutto il giorno attaccato al computer!”, dicono dei figli. Ma in fondo non se ne dolgono troppo: tutto sommato, pensano, il mio bambino in questo modo sta tutto il giorno in casa, anziché andare in giro a mettersi nei guai…

Sbagliato. Sbagliatissimo. Un ragazzino attaccato ad internet tutto il giorno può andare letteralmente dove gli pare. Sia pure virtualmente. E non parlo solo dei siti pornografici, di quelli esoterico-satanici o di quelli bellico-balistici. Parlo di tutto. Perché la rete è virtualmente “tutto”. Un adolescente, un bambino, si trova esposto, con la sua personalità ancora fragile e suggestionabile, a un’infinita serie di sollecitazioni informative e formative, dalle quali non si sa cosa possa sortire…

Lasciare che un ragazzetto si colleghi alla rete a suo piacimento, equivale più o meno a dirgli: tieni, queste sono le chiavi dell’auto, va’ pure nei quartieri più malfamati della metropoli, tra mariuoli e postriboli, e fa’ le tue esperienze, che le esperienze sono formative; io sto tranquillo…

On line per forza?

Che il nostro futuro sia tutto digitale non ci vuole molto a vaticinarlo. Che i PC, gli smartphone, i tablet e chissà quali altre future diavolerie della tecnica la faranno presto da padroni in questo nostro mondo, è cosa quasi ovvia. Che siano destinati a scomparire addirittura i giornali ed i libri cartacei, sostituiti tutti da immagini e testi reperiti e scaricati tramite collegamento on-line è a dir poco probabile. Ma per il momento le cose non stanno ancora così e, anche se qualcuno sembra convinto del contrario, tra le persone che hanno diritto di conoscere e comunicare, moltissime sono quelle che delle anzidette tecnologie digitali non sanno un beneamato nulla.

Mi è capitato recentemente di dover provvedere all’iscrizione di mio figlio all’università. E con mia sgradita sorpresa ho appreso che l’intera “procedura” poteva essere espletata solo ed esclusivamente tramite collegamento telematico. Essendo io nato alla metà del secolo scorso e avendo maturato per le nuove tecnologie una dimestichezza ancora dubbia ed incerta, ho avuto qualche difficoltà, non lo nascondo, a conseguire i risultati voluti: accreditamento al portale dell’ateneo, iscrizione dell’aspirante universitario ai test d’ingresso, immatricolazione dello stesso al corso di laurea prescelto.

Ma nelle more delle varie difficoltà, che mi parevano a tratti insormontabili, mentre cliccavo sospettosamente su icone e scritte varie, ho cominciato a chiedermi: ma perché diavolo mi viene negato il diritto di andare fisicamente presso la  segreteria della facoltà, raggiungere un molto materiale e poco virtuale sportello e dire all’addetto di turno: io volere, prego, modulo per inoltrare domanda, avere con me penna e dati, dare a me per piacere supporto cartaceo e lasciare me compilare con mano e con inchiostro?

Chi mi ha visto delirare tra simili fantasie, mi ha guardato con la sufficienza pietosa e divertita con cui si guarda un sopravvissuto, un dinosauro, una cariatide. E tuttavia, io mi chiedo, benedetto iddio: esiste forse già una norma di legge che faccia obbligo ai cittadini di questo paese di possedere un calcolatore, di saperlo usare, di avere un collegamento internet e di saper navigare?

Perché se non esiste, mi spiace, ma il collegamento telematico può essere, sì, un’opportunità offerta all’utente, può essere un servizio in più, ma non può essere, vivaddio, un obbligo: non può essere l’unica strada percorribile.

Nelle scuole è partito quest’anno il cosiddetto registro elettronico. Non sto a decantarne i molteplici pregi. Basti solo considerare che, grazie a tale dispositivo virtuale, anche genitori e studenti possono in ogni momento del giorno (e anche delle loro eventuali notti insonni) consultare il registro di classe ed avere in tempo reale contezza della situazione scolastica: voti, assenze, note di condotta, argomenti delle lezioni. Benissimo. Bellissimo.

Ma nessuno si sogna, solo per questo, di abolire nelle scuole i colloqui con le famiglie. Anzi, alcune scuole ben attrezzate hanno anche provveduto a mettere a disposizione degli utenti delle postazioni informatiche (e a rendere disponibile la relativa consulenza umana) per chi non ha un portatile o ce l’ha ma non lo sa usare, oppure non lo vuole avere ed usare, e non gliene importa un emerito fico secco d’imparare ad usarlo: avrà torto, ma la legge gliene dà facoltà. O perlomeno non gli impedisce di farlo.

Musei deposito e divulgazione della cultura

Dunque, lo scorso maggio, in una bellissima giornata di festa, conduco alcuni miei ospiti forestieri a visitare il Castello Sforzesco di Milano. Nella magnifica cornice architettonica dell’edificio e nel sontuoso parco retrostante, si accalca una vera folla di gitanti e di cittadini a passeggio. Ma già che ci siamo, dico ai miei ospiti, che ne dite di dare anche un’occhiata ai musei del Castello?

Dico “musei”, al plurale, perché al Castello ce n’è più d’uno: c’è quello d’Arte antica, il museo della Preistoria e protostoria, la Pinacoteca, il museo Egizio, quello degli Strumenti musicali ed altri ancora. Ebbene, le sale dei musei (ci credereste?…) erano semideserte (tanto quanto erano linde, ordinate e belle), se si escludono i pochissimi visitatori e gli addetti di turno, con tanto di divisa d’ordinanza, molto professionali, anche: ma a loro tutt’al più puoi chiedere lumi su un itinerario, o sulla via più breve per riguadagnare l’uscita. Stop. Altro non sanno (e non è certo che se ne debba fare una colpa a loro).

Insomma, quasi nessuno, nei musei. Complice la bella giornata, si dirà. Vero. Ma questo non basta a spiegare “l’assenteismo” degli utenti potenziali (leggasi “cittadini”). Altra scena, in un altrettanto bella giornata di aprile: Baia (Campi Flegrei, Napoli), dove sorge, su uno spettacolare promontorio sul mare, un imponente e meraviglioso castello aragonese. All’interno del quale castello si sviluppa un pregevolissimo museo archeologico. Con sale altrettanto linde e belle, ordinatissime (e con affacci meravigliosi sul golfo, s’intende).

Anche in questo caso pochissimi visitatori. La verità è che i musei, se li conosci, li eviti. Perché? Perché, ad onta delle pregevolissime e virtualmente interessantissime cose in essi esposte (reperti, dipinti, sculture e quant’altro), che cosa capita a te, visitatore medio (di cui mi considero un tipico esemplare, nonostante una certa formazione umanistica, che non mi manca)?

Ti capita di aggirarti sperduto tra sale e sale e sale, piene di teche, vetrine e simili. In cui le preziose testimonianze del passato sono disposte, sì, in bell’ordine, e recano pure cartellini didascalici con le minime informazioni identificative del caso. Ma dopo che lei hai lette, che te ne fai? Ah, ecco il nome dell’autore del pregevole tale dipinto, la sua data di nascita e quella di morte, la “scuola” di appartenenza, la provenienza dell’opera e, che so, il numero d’inventario.

Il numero d’inventario, per carità, sarà prescritto per legge, ma a me visitatore qualunque, quanto me ne cale, del numero d’inventario? Così come assai poco mi servono le quattro informazioni poste accanto all’opera. Una volta che le ho lette (ammesso che abbia voglia di strizzare gli occhi ad ogni tappa) che cosa ne so più di prima? Cosa ho imparato? Cosa ho veramente capito? Cosa mi può indurre a tornare in un museo dopo che ho pagato una tantum il mio obolo morale alla Cultura con la c maiuscola? Un accidente di niente, se si esclude che magari ho visto un po’ di bellezza (che certo non nuoce alla salute) o mi sono abbandonato a qualche “oh” e a qualche “ah” di perplessa meraviglia.

In non pochi paesi d’Europa (mi dicono quelli che hanno viaggiato) appena metti piede in un museo vieni bloccato da un addetto di turno che ti chiede la tua lingua e poi subito ti dirotta all’idonea guida. E così, visitando visitando, ascolti e capisci: capisci il senso reale di ciò che stai vedendo, e cresci in cultura e cittadinanza. Si chiama educazione permanente del cittadino: la quale formazione, non dovrebbe mica concludersi, in un paese civile, con la fine del corso di studi medi. E oggi, poi, con la tecnologia di cui disponiamo, non mancano certo i modi per evitare che il visitatore incolto (ma volenteroso) di un museo, si aggiri per gli spazi espositivi come un’anima alla deriva.

E adesso, per passare dai musei a tutto il resto, dirò che, musei a parte, in Italia manca ed è sempre mancata una cultura della divulgazione, quella che sta a fondamento della vera cittadinanza. Noi siamo un paese di parolai, lo siamo sempre stati. I medici parlano in medichese, gli avvocati in avvocatesco, gli ingegneri in ingegnerese e via di questo passo. E perché lo fanno? Per vari motivi.

Anzitutto perché sono spesso ignoranti: cioè, conoscono magari la loro materia (quando va bene, si capisce), ma sovente non sanno parlare né scrivere. In secondo luogo perché sono ignoranti: essi credono che parlare difficile sia un pregio, invece è un difetto: è molto più difficile, in realtà, parlare e scrivere chiaro, farsi capire da chi non sa. In terzo luogo perché sono ignoranti: credono che se parlano difficile appaiono più importanti. In quarto luogo perché parlare ostico (infarcendo il proprio dire di tecnicismi o, peggio, di anglicismi, che oggi vanno per la maggiore) serva a dire: io ho il sapere, il “potere del sapere” e tu invece non sai niente: devi stare a quello che ti dico io, ti devi fidare ciecamente. Parlare astruso è un modo per avere in mano il potere, dai tempi del manzoniano dottor Azzeccagarbugli.

Come si viene fuori da cotanta incultura della divulgazione? Qual è il bandolo della matassa? Come si viene fuori da questa carenza gravissima, per cui la gente che non sa, anziché essere presa per mano e condotta a comprendere le cose difficili (siano esse tecniche o artistiche poco importa), viene viceversa disgustata al punto che alla cultura non si accosta mai più? Francamente non lo so. L’Italia è un paese malato da tempo immemore di quella che definirei “l’incultura del parlare difficile”. Però, che so, almeno parliamone tra di noi. Hai visto mai che, dai e ridai…

2023-05-13

Aggiornamento

“La bussola del dubbio” - € 14 in cartaceo, € 6,99 in formato e-book.
2023-04-25

Aggiornamento

39 Il caso e la necessità L'altra sera, non so come, a casa di amici, si è venuti a parlare del ruolo che gioca il caso nella nostra vita. Quanto, di ciò che ci accade, dipende dalla nostra volontà, dai nostri programmi, dalle nostre decisioni, dalle nostre azioni? E quanto invece dipende da quello che normalmente si è soliti chiamare "caso" (buona o cattiva sorte che sia), da quegli eventi cioè che accadono senza che li si possa in qualche modo prevedere e prevenire, e che tuttavia si rivelano poi a volte addirittura determinanti nella nostra vita? Domanda da un milione di dollari, ovviamente. Il "quanto" è pressoché impossibile da stabilire, ma che nella vita di ciascuno giochino entrambi i fattori (ciò che dipende da noi e ciò che è imprevedibile) è tanto ovvio quanto noto a chiunque. Il discorso però si è fatto più intrigante quando qualcuno ha introdotto un altro tema collaterale. Siamo poi sicuri che esista davvero il cosiddetto "caso" o che non si tratti piuttosto di un vocabolo passe-partout con il quale usiamo classificare qualunque accidente ci capiti inopinatamente tra capo e collo? A questo punto, infatti, qualcuno dei commensali è andato a ripescare il vecchio, suggestivo e popolare concetto di "destino": tutto ciò che accade è già scritto, altro che caso. È emersa però a tale proposito un'interpretazione, come dire, laica del concetto di destino, spogliata da quanto di mistico e misterico la parola porta generalmente con sé. Ed ecco il ragionamento che è stato fatto. E autunno, una foglia si stacca da un ramo. La si vede volteggiare, compiere piroette e giravolte e poi cadere al suolo e fermarsi in un determinato punto. Perché proprio quella foglia e non un'altra, perché proprio in quel momento, perché planando in quel modo e cadendo in quel punto preciso del suolo e non in un altro? Sicuramente ci sono delle ragioni: la "maturità" della foglia caduca, il punto dell'albero in cui è cresciuta, l'esposizione al vento, le correnti dell'aria, la conformazione delle fronde eccetera. Ci sono sicuramente delle cause. Una molteplicità di cause e concause che in linea di principio si potrebbero anche conoscere tutte e addirittura calcolare nel loro peso reciproco, nella loro interazione. E lecito supporre in effetti che tutto ciò che accade dipende da un insieme più o meno complesso di cause e concause, ciascuna delle quali, a sua volta, altro non è che l'effetto di una serie variamente ricca e articolata d'altre cause. E cosi via a ritroso (e all'infinito). Tutto ciò, in teoria (ma solo in teoria), sarebbe calcolabile, e ogni evento è dunque in qualche modo "già scritto". Ogni cosa che accade non poteva non essere così come è stata. Forse addirittura ciò che pensiamo, che ci passa per la testa, perfino ciò che sentiamo e proviamo, non può non essere così com'è. (E ci sono argomenti a bizzeffe anche per sostenere questa tesi). Dove va a finire, dunque, in tale visione radicalmente deterministica, il libero arbitrio, se le nostre stesse decisioni, le scelte e le azioni altro non sono che un effetto ultimo di cause remote che ci trascendono? Non siamo dunque liberi affatto, come invece ci illudiamo di essere? Tutto è già scritto? Tutto è predestinato? Può darsi che le cose stiano così - è stata la conclusione provvisoria dei commensali - ma poiché il "destino" che sta dietro all'anzidetta caduta della foglia è, in pratica, inconoscibile come il futuro, non resta altro, a noi poveri umani, che una possibilità: vivere "come se" questo tirannico destino non esistesse affatto, come se tutto ciò che ci accade dipendesse da noi, dalle nostre scelte e decisioni e azioni. (E allo stesso tempo rassegnarci all'idea che le cose non stiano esattamente cosi).
2023-04-23

Aggiornamento

La maledizione degli acrònimi “Caro amico, da quando il POF si è trasformato in PTOF, per noi insegnanti la vita si è fatta dura. Non bastava il PEI, ora dobbiamo redigere anche il PAI e il PIA. Ci eravamo poi appena abituati alla LIM nelle aule, quand’ecco, zac, t’arriva il COVID, e allora via con la DAD, che oltretutto ultimamente ha anche partorito la DDI, la quale poi, con gli alunni DVA a volte è ben difficile da fare, perché il loro PEI (non quello di prima, l’altro PEI) talora è molto particolareggiato, e magari trovi un DS che su questo ti fa le pulci: il CDV te la può anche far pagare, se sei nell’anno di prova”. Tutto chiaro? E’ bello? Vi piace questo discorso? O no? Be’, io nemmeno ve lo “traduco” (sic), perché non ne vale la pena. E’ uno scherzo, d’accordo, ma oramai è così che si parla e si scrive nella scuola (che è la realtà che conosco meglio). Tuttavia in qualunque altro settore, pubblico e privato, industriale o commerciale e, in realtà, dovunque, l’andazzo è proprio questo. I geroglifici sarebbero più chiari. Ora, a domanda risponde: ma costa poi tanta fatica e dispendio di tempo anziché dire DAD parlare di “didattica a distanza” (che già di per sé può essere una formula un po’ ambigua). È tanto più rapido ed economico parlare di MAD anziché dire “messa a disposizione” (altra formulazione peregrina che sarebbe poi più o meno la vecchia “domanda ai presidi”; domanda di supplenza, s’intende)? Quali sono le vere ed oscure ragioni che inducono frotte di dirigenti e funzionari d’ogni ordine e grado ad inventarsi compulsivamente sigle su sigle? La praticità? La precisione? La brevità? Macché. Le ragioni sono al fondo sempre le stesse, quelle antiche, quelle del “latinorum” del manzoniano Azzeccagarbugli. Ciò che si dice per gli anglicismi inutili (e pochi sono quelli veramente utili, per i quali, cioè, manca il corrispondente vocabolo italiano) come “computer” (detto peraltro compiuter, con la i, all’inglese), quando esisteva già il “calcolatore” (diverso, com’è noto dalla “calcolatrice”, per fare solo i conti) oppure l’“elaboratore” (di dati); e ciò che si dice per la ridda dei termini gergali e criptici (ogni professione ha i suoi) vale pari pari per la pandemia dei maledetti e dilaganti acronimi, per le sigle. A mio sommesso avviso è l’ignoranza crassa ciò che induce a credere che se parlo astruso e strambo faccio bella figura, che se parlo in un modo che i più non capiscano ne guadagno in prestigio ed importanza. Ah, che persona brava e competente, che persona preparata, quante ne sa di cose che sono precluse a noi comuni mortali! Ma la matrice vera e profonda di questo vezzo tutto italico è un’altra ed è antica: è il privilegio. Se io parlo o scrivo a suon di termini e sigle incomprensibili ai più, io posso intortare gli altri a mio piacimento. L’avvocato o il medico che ti spiegano in “sanscrito” quello che hai, che non hai, che devi fare, implicitamente ti stanno dicendo: amico caro, non sono cose queste che puoi fare da te, hai bisogno di me, dell’esperto Azzeccagarbugli, se no, vedi, sei perso. Fidati (e paga). Non sanno, i furbetti ignoranti, che invece ciò che è difficile è parlare facile, cioè parlare e scrivere chiaro e semplice per farsi capire da chi ti ascolta o ti legge: assai più difficile che parlare astruso. È più difficile farsi capire che non farsi capire. In un’insalata di parole piena zeppa dell’aceto delle inutili parole difficili, senti solo l’aceto, e tutto l’altro gusto della comprensione e della verità va a farsi benedire. Ahinoi, è un male antico, questo, della nostra “cultura”: parlare e scrivere senza... anzi: “per non” farsi capire. Altrove non è così. Non per esempio nella cultura anglosassone, dove la chiarezza è un imperativo categorico. Ma neanche in altre lingue europee: nel francese, dal periodare snello, breve, dall’eloquio “geometrico”; o nella lingua spagnola, che aborre, giustamente, i forestierismi (e fa niente che li combatté il Franchismo). Brutto costume, il nostro!
2023-04-20

Aggiornamento

10 Evviva il regresso! Quasi seimila anni fa nacque, in qualche parte del Mediterraneo, forse in Libano, pardon, in Fenicia, una piccola, grande invenzione destinata ad avere un'importanza straordinaria e rivoluzionaria nella storia dell'homo sapiens: la scrittura. Cioè la scrittura come la intendiamo noi oggi: un numero limitatissimo di segni, i grafemi (le lettere) che corrispondono al numero egualmente limitato di suoni (i fonemi) di una lingua. Cosi, con qualche decina di segni fu da allora possibile scrivere di qualunque cosa della quale a questo mondo sia possibile parlare. Si trattò anche di un'invenzione che oggi definiremmo "democratica": per chiunque divenne infatti virtualmente possibile imparare a scrivere e a leggere. In fondo si trattava (e si tratta) d'imparare solo qualche decina di simboli. Prima di allora, invece, come si sa, la scrittura già c'era, si, ma era per lo più ideografica: ciascun segno corrispondeva ad un'idea, e dunque ad una parola (e ancor oggi ce ne sono di siffatte). E' facile immaginare quante centinaia di segni diversi bisognasse apprendere per saper leggere e scrivere. Si trattava di un privilegio riservato a pochissimi individui. Dicono gli studiosi che la scrittura ideografica nascesse da quella pittografica: i pittogrammi, come è noto, sono dei disegnini stilizzati che rappresentano le cose: tante piccole spighe di grano per dire quanto di chicchi di frumento contiene quel certo vaso di cotto, tanti pesciolini per far capire quanto pescato sotto sale c'è in quel certo barile. E via di questo passo. Un sistema, come si vede, piuttosto rudimentale: provare un po', se ci si riesce, con disegni del genere, ad esprimere la profondità filosofica di certi concetti oppure a dare espressione ai propri sentimenti d'amore... E oggi? Che succede oggi? Naturalmente i pittogrammi sono ancora in uso quando sono utili (cioè assai spesso): una sigaretta barrata per indicare il divieto di fumo, un omino e una donnina stilizzati per segnalare la presenza di una toilette. D'accordo. Quello che preoccupa leggermente, però, è l'abuso che di questi pittogrammi fanno le giovani generazioni (e non solo loro) nei propri "telescritti" (messaggini, mail e quant'altro). Abbondano oramai i testi pittografici in sostituzione di quelli verbali: interi discorsi a base di faccine con varie espressioni, manine di varia foggia, profluvi di cuoricini e via di questo passo. Di questo passo dove finiremo? All'afasia grafica? Alla trascrizione figurativa dei versi gutturali dei nostri cavernicoli progenitori?... Chi vivrà, vedrà.
2023-04-19

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41 Ironia della storia, magistra vitae... Mutatis mutandis, la storia a volte si ripete. Non erano affatto bruni, né con la pelle olivastra o l'aspetto medio-orientale, come il nostro Matteo Salvini (con buona pace del suo accento "padano"). Al contrario, erano degli immigrati piuttosto alti e parecchio biondi. I Romani (quelli dell'antica Roma, dico) li consideravano degli straccioni rozzi e arretrati, e li chiamavano, alla greca, "barbari". Con un po' di disprezzo, anche, ma non troppo disprezzo, visto che in realtà ne avevano un gran bisogno. E per lunga pezza, dopo i primi secoli dell'era cristiana, ne favorirono in ogni modo l'ingresso nei territori dell'impero, insomma, ne favorirono l'immigrazione. Erano, costoro, i vari Germani stanziati in tribù al di là del limes nord-orientale dell'impero, oltre il Danubio e il Reno. E Roma ne favoriva la venuta nei suoi territori, l'accesso alla "*felicità romana". Il fatto è che le serviva tanta manodopera: vuoi nelle campagne e nell'agricoltura (dacché gli schiavi erano diventati merce rara e costosa, coll'esaurirsi delle guerre di conquista), vuoi nell'esercito. Sicché, in definitiva, anche e soprattutto questo furono le cosiddette "invasioni barbariche" Nelle campagne dell'impero, questi immigrati s' integrarono poi niente male con gli indigeni, con la popolazione gallo-romana. Quanto all'esercito, non pochi di essi fecero addirittura carriera, diventando perfino comandanti di legioni. Un generale Oreste, originario della Pannonia, sposerà la madre dell'ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo. Il quale, a sua volta, sarà poi deposto da un altro comandante romano... nonché capo di Goti ed Eruli in Italia, e cioè il germano Odoacre. Frattanto, quando il flusso immigratorio stava divenendo eccessivo, cominciò nell'impero a serpeggiare un certo razzismo nei confronti di questi biondi immigrati, pardon, dei barbari. Ma ormai era tardi: l'impero d'Occidente stava già andando a pallino. Qualcosa di simile accadrà moltissimo tempo dopo ai Romani - pardon - agli Italiani, che al principio del Novecento abbandonavano le loro case e le loro famiglie, e, dal Sud d'Italia e dal Veneto (Polesine), partivano in piroscafo alla volta delle Americhe (le valigie di cartone legate con lo spago) in cerca di fortuna o, più semplicemente, di sopravvivenza. E negli Stati Uniti venivano accolti a braccia aperte, questi poveracci e straccioni (previo vaglio di un qualche controllo sanitario), perché anche li c'era abbondanza di terra e di risorse, ma carenza di manodopera. Moltissimi di loro daranno alla super-multietnica società americana un contributo economico, sociale e culturale non irrilevante. Ma si capisce, quando le cose si mettono male e l'economia barcolla, buonanotte ad ogni buona intenzione d'integrazione. Alcuni degli immigrati, più deboli o più disperati degli altri, cosa facevano per sopravvivere? Cominciavano a delinquere, ovvio. Venivano risucchiati da una delle tante malavite organizzate (quella d'origine italiana, nel caso loro). E non conta poi nulla che, alla fin fine, questi malviventi fossero un'esigua minoranza degli Italiani e che fossero peraltro in numero assai più ridotto dei delinquenti "autoctoni", quelli americani. Semplicemente divennero un bersaglio più facile: dagli all'untore! E tutti gli Italiani in America, in barba ad ogni evidenza contraria, diventarono "pizza, spaghetti e mafia"... E la storia ogni volta si ripete. Pochi anni fa, da noi, erano delinquenti tutti gli Albanesi. Et voilà. Ad ogni, inevitabile, processo migratorio, ricomincia la solita solfa del razzismo. Ah, storia, magistra vitae...
2023-11-04

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Asticelle, calligrafia e tablet Mezzo secolo fa, quando a scuola c'era ancora la pedana (di legno) sotto la cattedra e si scriveva con pennino e calamaio (io me lo ricordo), i maestri e le maestre vessavano i "primini" con le famigerate "asticelle". Si trattava di tracciare sul foglio segmenti obliqui e poi cerchi e cerchietti per un interminabile numero di pagine e di giorni. Vera tortura didattica, per i fanciulli. Oltretutto i segni andavano eseguiti con pennini grondanti o schizzanti un nerissimo quanto indelebile inchiostro. Opportunamente tamponato, via via, con apposita carta assorbente. Questa severa disciplina era ovviamente propedeutica a ciò che con noto pleonasmo veniva chiamato "bella calligrafia". Oggi leggo sovente manoscritti di adolescenti (e non dico bambini) che sono raccapriccianti dal punto di vista grafico: nessuna contezza dei margini e degli spazi; caratteri – all'interno di un medesimo scritto – grandi e piccoli, inclinati verso destra e verso sinistra, col ricorso contemporaneo allo stampatello maiuscolo, a quello minuscolo e, qua e là, al corsivo stesso. Più qualche pittogramma in uso sui telefonini. Testi, peraltro, a tratti indecifrabili. Un vero obbrobrio, insomma, specchio di anime alla deriva. Qualcuno obietterà che sono all'incirca un ottuso conservatore, che tra poco gli alunni andranno a scuola senza libri, quaderni e penne, perché basterà loro, per far ogni cosa, una tavoletta elettronica o qualche ulteriore diavoleria tecnologica. Ho qualche dubbio in proposito. Dubito cioè che un'invenzione tanto geniale del genere umano come la scrittura a mano sarà mai del tutto soppiantata (come non è stata soppiantata, a suo tempo, dalla macchina per scrivere): infatti con la rudimentale tecnologia di un lapis e di un po' di carta puoi parlare dell'universo mondo, se ci riesci. Inoltre mi chiedo, pur senza vagheggiare anacronistici ritorni alle "asticelle", se la cura della bella scrittura non fosse anche un esercizio di coordinamento spaziale, una disciplina di autocontrollo, di abitudine alla decenza e all'armonia, al rispetto per gli altri e per sé. Una palestra di moderazione, coerenza e precisione. Ma oggi sembra che tutto quello che è nuovo sia bello e tutto quello che è vecchio sia invece, per ciò stesso, superato. Sarà proprio vero?
2023-06-04

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La bussola del Dubbio Nell’àmbito di quella bizzarra materia scolastica denominata “italiano” (che ho avuto la ventura d'insegnare) si affronta a un certo punto lo studio delle cosiddette "tipologie testuali": il testo espositivo, il testo regolativo, quello narrativo, quello poetico e via dicendo. Alla fine si arriva a parlare della tipologia più ostica: il testo argomentativo. E qui cominciano i guai. I ragazzi, infatti, sono generalmente poco inclini ad apprezzare quel particolare genere di discorsi (le argomentazioni), abituati come sono a pensare in fretta, a riflettere poco, a saltabeccare da uno scritto breve all’altro, “cliccando” spasmodicamente su questa o quella icona. Il fatto è che per argomentare non basta avere più o meno un’opinione: bisogna che l’opinione sia una tesi sostenuta da opportuni argomenti o prove, bisogna sapere confutare l’antitesi... Insomma, sono grattacapi. Comunque, per rendere più digeribile l'argomento agli studenti, faccio un passo indietro e retrocedo dal discorso argomentativo al ragionamento argomentativo, cercando di convincerli che in realtà la nostra intera esistenza quotidiana è costellata di questo genere di ragionamenti. Sì, perché l'altro tipo di ragionamenti, i ragionamenti-ragionamenti, quelli con la erre maiuscola, cioè i ragionamenti dimostrativi, sono rari: s'incontrano solamente nelle scienze esatte, nella geometria, nella matematica, nella fisica e simili. In questi àmbiti si parte da premesse certe, chiare, solide e indiscutibili, e poi si procede secondo un preciso sviluppo logico (o anche sviluppi logici alternativi) per arrivare alla fine nel bel mezzo di conclusioni parimenti certe, inoppugnabili, definitive. Nella vita di tutti i giorni, invece, e cioè nella maggior parte dei nostri casi piccoli e grandi, le cose non vanno in questo modo: le premesse da cui partiamo, nei nostri ragionamenti, sono per lo più incerte: magari sono probabili e verosimili, ma non proprio sicure. Un esempio? Eccolo. Esco di casa e mi accingo ad attraversare la strada. Allora faccio (sia pure in maniera automatica e quasi istantanea) un ragionamento argomentativo: guardo a destra e a sinistra, valuto la distanza e la velocità di eventuali veicoli che sopraggiungono, considero l’ampiezza della carreggiata, verifico se ci sono pozzanghere da "guadare", rifletto sulle mie attuali capacità di deambulazione e alla fine decido: sì, ce la posso fare: attraverso la strada. Ecco, ho condotto un micro-ragionamento argomentativo. E questo vale per qualunque decisione, piccola o grande, della mia vita o per qualunque interpretazione che io voglia dare di avvenimenti passati, di comportamenti dei miei simili e così via. Sennonché, in questo mio operare logico c'è un limite, e riguarda l’incertezza delle premesse. Chi mi dice che l’autista del veicolo suddetto, contrariamente alle mie aspettative, non si lanci poi come un missile alla mia volta, perché ha deciso di colpo che ha fretta? Chi mi garantisce che lo stesso automobilista non si metta magari a leggere sul cellulare un "messaggino" che lo ha appena raggiunto e, senza avvedersene, si sposti nella corsia opposta alla sua, proprio mentre io sono ad un passo dal guadagnare l’altra “riva” della strada? Oppure, chi mi assicura che io non prenderò un'inopinata (appunto) storta, nel bel mezzo della mia traversata? Come faccio ad essere certo che le cose andranno proprio come avevo previsto, che l'auto non m'investa? Non posso esserne certo perché è proprio dei ragionamenti argomentativi partire da premesse incerte: stime, valutazioni, opinioni, pareri autorevoli o, peggio, dicerie infondate, esperienze di altri, falsità che scambio per verità e via di questo passo. Ciò nonostante, se ho scelto per bene le mie valutazioni iniziali e il mio ragionamento è conseguente, non è probabile che mi accada qualcosa di brutto, che io venga investito dall'auto anzidetta. Però è possibile. Bisogna saperlo. Per fortuna, nella faretra del nostro cervello abbiamo anche un’altra prodigiosa freccia, che risponde al nome di "intuizione". L'intuizione è una straordinaria facoltà della mente che, a nostra insaputa, lavora e giunge "da sola" a determinate conclusioni: una mattina ci svegliamo (è capitato a tutti, qualche volta) e ci accorgiamo d'emblée d'aver compreso ciò che ci era a lungo sfuggito: di colpo sappiamo (e senza sapere il perché ed il percome) che le cose stanno in un certo modo. Ecco perché quel tale si è comportato in quella maniera! Finalmente l’ho capito, anche se non so come. Ecco qual è la decisione giusta che devo prendere! D'improvviso lo sento, ne sono certo, ma non so come mai. Abbiamo fatto un "ragionamento inconsapevole". Il fatto è che del nostro cervello utilizziamo coscientemente una parte tanto piccola (così pare) che è, secondo la famosa metafora psicanalitica, solo la punta di un iceberg. Purtroppo, però, c’è un inconveniente anche in questo “ragionamento inconsapevole”: la benedetta intuizione (di cui si vocifera siano dotate le donne in grado sommo) a volte fa cilecca, c’induce in conclusioni erronee: sentimenti, paure, invidie, desideri, fantasie, fobie e quant’altro s’intromettono nel nostro "pensiero automatico", lo "inquinano", ci fanno prendere fischi per fiaschi. Così ci capita di convincerci che quel tale individuo è una perfetta carogna o un cretino preciso, ne siamo convinti senza prove. Poi invece si dimostra che è una persona specchiata o un individuo molto intelligente. L'intuizione era "farlocca". Morale della favola? Nell’interpretare i fatti (e le persone) della vita, e nel compiere le nostre scelte, non possiamo avere certezze assolute. Possiamo solo aggirarci cautamente nell’universo delle probabilità e delle evenienze verosimili. Nella vita pratica, tuttavia, i nostri ragionamenti (consci o inconsci) non sono certo inutili, tutt'altro. Ma dobbiamo pur sempre prenderli con le molle, con prudente beneficio d’inventario. E bandire la sciocca arroganza che c’induce a dire: le cose sono andate sicuramente in questo modo, oppure: certamente accadrà quella tale cosa.
2023-01-03

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37 La bussola del Dubbio Nell'âmbito di quella bizzarra materia scolastica denominata "italiano" (che ho avuto la ventura d'insegnare) si affronta a un certo punto lo studio delle cosiddette "tipologie testuali": il testo espositivo, il testo regolativo, quello narrativo, quello poetico e via dicendo. Alla fine si arriva a parlare della tipologia più ostica: il testo argomentativo. E qui cominciano i guai. I ragazzi, infatti, sono generalmente poco inclini ad apprezzare quel particolare genere di discorsi (le argomentazioni), abituati come sono a pensare in fretta, a riflettere poco, a saltabeccare da uno scritto breve all'altro, "cliccando" spasmodicamente su questa o quella icona. Il fatto è che per argomentare non basta avere più o meno un'opinione: bisogna che l'opinione sia una tesi sostenuta da opportuni argomenti o prove, bisogna sapere confutare l'antitesi... Insomma, sono grattacapi. Comunque, per rendere più digeribile l'argomento agli studenti, facevo, quando insegnavo, un passo indietro, retrocedo dal discorso argomentativo al ragionamento argomentativo, cercando di convincerli che in realtà la nostra intera esistenza quotidiana è costellata di questo genere di ragionamenti. Si, perché l'altro tipo di ragionamenti, i ragionamenti-ragionamenti, quelli con la erre maiuscola, cioè i ragionamenti dimostrativi, sono rari: s'incontrano solamente nelle scienze esatte, nella geometria, nella matematica, nella fisica e simili. In questi àmbiti si parte da premesse certe, chiare, solide e indiscutibili, e poi si procede secondo un preciso sviluppo logico (o anche sviluppi logici alternativi) per arrivare alla fine nel bel mezzo di conclusioni parimenti certe, inoppugnabili, definitive. Nella vita di tutti i giorni, invece, e cioè nella maggior parte dei nostri casi piccoli e grandi, le cose non vanno in questo modo: le premesse da cui partiamo, nei nostri ragionamenti, sono per lo più incerte: magari sono probabili e verosimili, ma non proprio sicure. Un esempio? Eccolo. Esco di casa e mi accingo ad attraversare la strada. Allora faccio (sia pure in maniera automatica e quasi istantanea) un ragionamento argomentativo: guardo a destra e a sinistra, valuto la distanza e la velocità di eventuali veicoli che sopraggiungono, considero l'ampiezza della carreggiata, verifico se ci sono pozzanghere da "guadare", rifletto sulle mie attuali capacità di deambulazione e alla fine decido: sì, ce la posso fare: attraverso la strada. Ecco, ho condotto un micro-ragionamento argomentativo. E questo vale per qualunque decisione, piccola o grande, della mia vita o per qualunque interpretazione che io voglia dare di avvenimenti passati, di comportamenti dei miei simili e cosi via. Sennonché, in questo mio operare logico c'è un limite, e riguarda l'incertezza delle premesse. Chi mi dice che l'autista del veicolo suddetto, contrariamente alle mie aspettative, non si lanci poi come un missile alla mia volta, perché ha deciso di colpo che ha fretta? Chi mi garantisce che lo stesso automobilista non si metta magari a leggere sul cellulare un "messaggino" che lo ha appena raggiunto e, senza avvedersene, si sposti nella corsia opposta alla sua, proprio mentre io sono ad un passo dal guadagnare l'altra "riva" della strada? Oppure, chi mi assicura che io non prenderò un'inopinata (appunto) storta, nel bel mezzo della mia traversata? Come faccio ad essere certo che le cose andranno proprio come avevo previsto, che l'auto non m'investa? Non posso esserne certo perché è proprio dei ragionamenti argomentativi partire da premesse incerte: stime, valutazioni, opinioni, pareri autorevoli o, peggio, dicerie infondate, esperienze di altri, falsità che scambio per verità e via di questo passo. Ciò nonostante, se ho scelto per bene le mie valutazioni iniziali e il mio ragionamento è conseguente, non è probabile che mi accada qualcosa di brutto, che io venga investito dall'auto anzidetta. Però è possibile. Bisogna saperlo. Per fortuna, nella faretra del nostro cervello abbiamo anche un'altra prodigiosa freccia, che risponde al nome di "intuizione". L'intuizione è una straordinaria facoltà della mente che, a nostra insaputa, lavora e giunge "da sola" a determinate conclusioni: una mattina ci svegliamo (è capitato a tutti, qualche volta) e ci accorgiamo d'emblée d'aver compreso ciò che ci era a lungo sfuggito: di colpo sappiamo (e senza sapere il perché ed il percome) che le cose stanno in un certo modo. Ecco perché quel tale si è comportato in quella maniera! Finalmente l'ho capito, anche se non so come. Ecco qual è la decisione giusta che devo prendere! D'improvviso lo sento, ne sono certo, ma non so come mai. Abbiamo fatto un "ragionamento inconsapevole". Il fatto è che del nostro cervello utilizziamo coscientemente una parte tanto piccola (così pare) che è, secondo la famosa metafora psicanalitica, solo la punta di un iceberg. Purtroppo, però, c'è un inconveniente anche in questo "ragionamento inconsapevole": la benedetta intuizione (di cui si vocifera siano dotate le donne in grado sommo) a volte fa cilecca, c'induce in conclusioni erronee: sentimenti, paure, invidie, desideri, fantasie, fobie e quant'altro 'intromettono nel nostro "pensiero automatico", lo "inquinano", ci fanno prendere fischi per fiaschi. Così ci capita di convincerci che quel tale 38 individuo è una perfetta carogna o un cretino preciso, ne siamo convinti senza prove. Poi invece si dimostra che è una persona specchiata o un individuo molto intelligente. L'intuizione era "farlocca". Morale della favola? Nell' interpretare i fatti (e le persone) della vita, e nel compiere le nostre scelte, non possiamo avere certezze assolute. Possiamo solo aggirarci cautamente nell'universo delle probabilità e delle evenienze verosimili. Nella vita pratica, tuttavia, i nostri ragionamenti (consci o inconsci) non sono certo inutili, tutt'altro. Ma dobbiamo pur sempre prenderli con le molle, con prudente beneficio d'inventario. E bandire la sciocca arroganza che c'induce a dire: le cose sono andate sicuramente in questo modo, oppure: certamente accadrà quella tale cosa.
2023-03-24

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"LA BUSSOLA DEL DUBBIO" Che il dubbio sia uno dei motori della conoscenza umana è... fuor di dubbio. È una bussola nella foresta dell'esistenza. Lo hanno detto molti filosofi, primo fra tutti, forse, il mio prediletto Socrate. Ma la lettura di questo libro ti regalerà per lo più qualche risata e parecchi sorrisi agrodolci.

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Ivo Zunica
Da 0 a 5 anni a Napoli. Dai 6 ai 12 anni a Bologna. Dai 13 ai 18 di nuovo a Napoli (e qui, liceo scientifico). Dai 19 in avanti a Milano: laurea in lettere magna cum laude, insegnamento di lettere alle superiori, più collaborazioni con agenzie di pubblicità e soprattutto con svariate riviste specialistiche di settore. Due matrimoni, due figli: Laura (1985) ed Edoardo (1995). Papà dirigente di azienda e artista, mamma casalinga (e sia pace all’anima loro).
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