Io scrivevo per riviste di ogni ordine e grado: edilizia, arredamento, management, packaging, advertising, marketing ed altre parolacce anglosassoni. Scrivevo di cose delle quali spesso assai poco mi caleva e, quel che è peggio, di cui sovente non sapevo un beneamato nulla (sicché dovevo ogni volta precipitosamente alfabetizzarmi prima ancora di documentarmi). Ma avevo un alibi, allora: mi pagavano (sia pure assai poco, per la verità) e ciò tacitava la mia coscienza, per il tempo che sottraevo a più nobili interessi e soprattutto alla mia famiglia e ai miei congiunti. Però avevo in quel modo la possibilità di scrivere, che è sempre stata una delle mie passioni.
Con la rivista di Carlo, invece, avrei dovuto collaborare gratis (come del resto tutti quelli che ci scrivono). Ma il problema non era questo: il fatto è che io mi ero ripromesso, a suo tempo, di non scrivere mai più nulla su commissione, su argomenti di cui non m’importasse niente e di cui niente sapessi. Alla fine feci un patto con Carlo: avrei collaborato con la sua rivista solo a condizione di farlo se avessi avuto qualcosa da dire che m’interessava veramente. Lui accettò il patto e mi diede carta bianca. Così ho cominciato a scrivere sul suo blog a proposito di argomenti che erano i miei, e sui quali mi pareva di potermi esprimere liberamente e con qualche interesse, per il lettore, non solo di forma, bensì anche di contenuto.
In realtà gli articoli che compaiono in questo volume sono piuttosto dei brevi saggi (solo in senso tecnico, sia chiaro, e senza nessuna presunzione) di tipo divulgativo. Sono, come dice Carlo, degli “evergreen”, degli articoli buoni per tutte le stagioni, almeno per le stagioni dei mala tempora che attualmente currunt. E in effetti si tratta – come recita il sottotitolo – nella maggioranza dei casi (e, in senso lato, in tutti i casi) di articoli di costume o, piuttosto, di malcostume. Sono spesso percorsi da un’intenzione di distacco dall’attualità più stringente, dalle mode intellettuali e dalle posizioni preconcette (mi auguro).
Il lettore può leggerli, credo con qualche piacere e divertimento, senza alcun rispetto per l’organizzazione della materia (quale si evince dall’indice del libro), saltabeccando da un capitolo all’altro a suo piacimento, a seconda dei suoi interessi e delle sue curiosità intellettuali. Buona lettura.
I Dello scrivere e del comunicare
Asticelle, calligrafia e tablet
Mezzo secolo fa, quando a scuola c’era ancora la pedana (di legno) sotto la cattedra e si scriveva con pennino e calamaio (io me lo ricordo), i maestri e le maestre vessavano i “primini” con le famigerate “asticelle”. Si trattava di tracciare sul foglio segmenti obliqui e poi cerchi e cerchietti per un interminabile numero di pagine e di giorni. Vera tortura didattica, per i fanciulli. Oltretutto i segni andavano eseguiti con pennini grondanti o schizzanti un nerissimo quanto indelebile inchiostro. Opportunamente tamponato, via via, con apposita carta assorbente.
Questa severa disciplina era ovviamente propedeutica a ciò che con noto pleonasmo veniva chiamato “bella calligrafia”.
Oggi leggo sovente manoscritti di adolescenti (e non dico bambini) che sono raccapriccianti dal punto di vista grafico: nessuna contezza dei margini e degli spazi; caratteri – all’interno di un medesimo scritto – grandi e piccoli, inclinati verso destra e verso sinistra, col ricorso contemporaneo allo stampatello maiuscolo, a quello minuscolo e, qua e là, al corsivo stesso. Più qualche pittogramma in uso sui telefonini. Testi, peraltro, a tratti indecifrabili. Un vero obbrobrio, insomma, specchio di anime alla deriva.
Qualcuno obietterà che sono all’incirca un ottuso conservatore, che tra poco gli alunni andranno a scuola senza libri, quaderni e penne, perché basterà loro, per far ogni cosa, una tavoletta elettronica o qualche ulteriore diavoleria tecnologica.
Ho qualche dubbio in proposito. Dubito cioè che un’invenzione tanto geniale del genere umano come la scrittura a mano sarà mai del tutto soppiantata (come non è stata soppiantata, a suo tempo, dalla macchina per scrivere): infatti con la rudimentale tecnologia di un lapis e di un po’ di carta puoi parlare dell’universo mondo, se ci riesci.
Inoltre mi chiedo, pur senza vagheggiare anacronistici ritorni alle “asticelle”, se la cura della bella scrittura non fosse anche un esercizio di coordinamento spaziale, una disciplina di autocontrollo, di abitudine alla decenza e all’armonia, al rispetto per gli altri e per sé. Una palestra di moderazione, coerenza e precisione. Ma oggi sembra che tutto quello che è nuovo sia bello e tutto quello che è vecchio sia invece, per ciò stesso, superato. Sarà proprio vero?
Caduti nella rete
“C’è scritto sul giornale!”, si diceva una volta. Poi venne il turno della televisione: “L’ha detto la televisione”. Ora è la volta di internet: “l’ho trovato su internet”. Come se con ciò ogni discorso fosse chiuso. Ma, almeno, dietro a giornali e tv c’erano (e ci sono) giornalisti ed editori: cioè qualcuno che può (e deve) risponderne, assumersi la responsabilità di ciò che comunica.
Internet, invece, è il mare magnum dell’universo mondo. E in fondo qualunque cretino – diciamocelo – può aprire un suo sito e alimentarlo delle più inverosimili fanfaluche.
Tuttavia, finché gli utenti della rete sono adulti e, come si dice, vaccinati, passi pure. Sennonché, com’è noto, ad internet sono usi collegarsi a miriadi i ragazzini (e i bambini, persino). Di ciò molti genitori si lamentano blandamente: “sta tutto il giorno attaccato al computer!”, dicono dei figli. Ma in fondo non se ne dolgono troppo: tutto sommato, pensano, il mio bambino in questo modo sta tutto il giorno in casa, anziché andare in giro a mettersi nei guai…
Sbagliato. Sbagliatissimo. Un ragazzino attaccato ad internet tutto il giorno può andare letteralmente dove gli pare. Sia pure virtualmente. E non parlo solo dei siti pornografici, di quelli esoterico-satanici o di quelli bellico-balistici. Parlo di tutto. Perché la rete è virtualmente “tutto”. Un adolescente, un bambino, si trova esposto, con la sua personalità ancora fragile e suggestionabile, a un’infinita serie di sollecitazioni informative e formative, dalle quali non si sa cosa possa sortire…
Lasciare che un ragazzetto si colleghi alla rete a suo piacimento, equivale più o meno a dirgli: tieni, queste sono le chiavi dell’auto, va’ pure nei quartieri più malfamati della metropoli, tra mariuoli e postriboli, e fa’ le tue esperienze, che le esperienze sono formative; io sto tranquillo…
On line per forza?
Che il nostro futuro sia tutto digitale non ci vuole molto a vaticinarlo. Che i PC, gli smartphone, i tablet e chissà quali altre future diavolerie della tecnica la faranno presto da padroni in questo nostro mondo, è cosa quasi ovvia. Che siano destinati a scomparire addirittura i giornali ed i libri cartacei, sostituiti tutti da immagini e testi reperiti e scaricati tramite collegamento on-line è a dir poco probabile. Ma per il momento le cose non stanno ancora così e, anche se qualcuno sembra convinto del contrario, tra le persone che hanno diritto di conoscere e comunicare, moltissime sono quelle che delle anzidette tecnologie digitali non sanno un beneamato nulla.
Mi è capitato recentemente di dover provvedere all’iscrizione di mio figlio all’università. E con mia sgradita sorpresa ho appreso che l’intera “procedura” poteva essere espletata solo ed esclusivamente tramite collegamento telematico. Essendo io nato alla metà del secolo scorso e avendo maturato per le nuove tecnologie una dimestichezza ancora dubbia ed incerta, ho avuto qualche difficoltà, non lo nascondo, a conseguire i risultati voluti: accreditamento al portale dell’ateneo, iscrizione dell’aspirante universitario ai test d’ingresso, immatricolazione dello stesso al corso di laurea prescelto.
Ma nelle more delle varie difficoltà, che mi parevano a tratti insormontabili, mentre cliccavo sospettosamente su icone e scritte varie, ho cominciato a chiedermi: ma perché diavolo mi viene negato il diritto di andare fisicamente presso la segreteria della facoltà, raggiungere un molto materiale e poco virtuale sportello e dire all’addetto di turno: io volere, prego, modulo per inoltrare domanda, avere con me penna e dati, dare a me per piacere supporto cartaceo e lasciare me compilare con mano e con inchiostro?
Chi mi ha visto delirare tra simili fantasie, mi ha guardato con la sufficienza pietosa e divertita con cui si guarda un sopravvissuto, un dinosauro, una cariatide. E tuttavia, io mi chiedo, benedetto iddio: esiste forse già una norma di legge che faccia obbligo ai cittadini di questo paese di possedere un calcolatore, di saperlo usare, di avere un collegamento internet e di saper navigare?
Perché se non esiste, mi spiace, ma il collegamento telematico può essere, sì, un’opportunità offerta all’utente, può essere un servizio in più, ma non può essere, vivaddio, un obbligo: non può essere l’unica strada percorribile.
Nelle scuole è partito quest’anno il cosiddetto registro elettronico. Non sto a decantarne i molteplici pregi. Basti solo considerare che, grazie a tale dispositivo virtuale, anche genitori e studenti possono in ogni momento del giorno (e anche delle loro eventuali notti insonni) consultare il registro di classe ed avere in tempo reale contezza della situazione scolastica: voti, assenze, note di condotta, argomenti delle lezioni. Benissimo. Bellissimo.
Ma nessuno si sogna, solo per questo, di abolire nelle scuole i colloqui con le famiglie. Anzi, alcune scuole ben attrezzate hanno anche provveduto a mettere a disposizione degli utenti delle postazioni informatiche (e a rendere disponibile la relativa consulenza umana) per chi non ha un portatile o ce l’ha ma non lo sa usare, oppure non lo vuole avere ed usare, e non gliene importa un emerito fico secco d’imparare ad usarlo: avrà torto, ma la legge gliene dà facoltà. O perlomeno non gli impedisce di farlo.
Musei deposito e divulgazione della cultura
Dunque, lo scorso maggio, in una bellissima giornata di festa, conduco alcuni miei ospiti forestieri a visitare il Castello Sforzesco di Milano. Nella magnifica cornice architettonica dell’edificio e nel sontuoso parco retrostante, si accalca una vera folla di gitanti e di cittadini a passeggio. Ma già che ci siamo, dico ai miei ospiti, che ne dite di dare anche un’occhiata ai musei del Castello?
Dico “musei”, al plurale, perché al Castello ce n’è più d’uno: c’è quello d’Arte antica, il museo della Preistoria e protostoria, la Pinacoteca, il museo Egizio, quello degli Strumenti musicali ed altri ancora. Ebbene, le sale dei musei (ci credereste?…) erano semideserte (tanto quanto erano linde, ordinate e belle), se si escludono i pochissimi visitatori e gli addetti di turno, con tanto di divisa d’ordinanza, molto professionali, anche: ma a loro tutt’al più puoi chiedere lumi su un itinerario, o sulla via più breve per riguadagnare l’uscita. Stop. Altro non sanno (e non è certo che se ne debba fare una colpa a loro).
Insomma, quasi nessuno, nei musei. Complice la bella giornata, si dirà. Vero. Ma questo non basta a spiegare “l’assenteismo” degli utenti potenziali (leggasi “cittadini”). Altra scena, in un altrettanto bella giornata di aprile: Baia (Campi Flegrei, Napoli), dove sorge, su uno spettacolare promontorio sul mare, un imponente e meraviglioso castello aragonese. All’interno del quale castello si sviluppa un pregevolissimo museo archeologico. Con sale altrettanto linde e belle, ordinatissime (e con affacci meravigliosi sul golfo, s’intende).
Anche in questo caso pochissimi visitatori. La verità è che i musei, se li conosci, li eviti. Perché? Perché, ad onta delle pregevolissime e virtualmente interessantissime cose in essi esposte (reperti, dipinti, sculture e quant’altro), che cosa capita a te, visitatore medio (di cui mi considero un tipico esemplare, nonostante una certa formazione umanistica, che non mi manca)?
Ti capita di aggirarti sperduto tra sale e sale e sale, piene di teche, vetrine e simili. In cui le preziose testimonianze del passato sono disposte, sì, in bell’ordine, e recano pure cartellini didascalici con le minime informazioni identificative del caso. Ma dopo che lei hai lette, che te ne fai? Ah, ecco il nome dell’autore del pregevole tale dipinto, la sua data di nascita e quella di morte, la “scuola” di appartenenza, la provenienza dell’opera e, che so, il numero d’inventario.
Il numero d’inventario, per carità, sarà prescritto per legge, ma a me visitatore qualunque, quanto me ne cale, del numero d’inventario? Così come assai poco mi servono le quattro informazioni poste accanto all’opera. Una volta che le ho lette (ammesso che abbia voglia di strizzare gli occhi ad ogni tappa) che cosa ne so più di prima? Cosa ho imparato? Cosa ho veramente capito? Cosa mi può indurre a tornare in un museo dopo che ho pagato una tantum il mio obolo morale alla Cultura con la c maiuscola? Un accidente di niente, se si esclude che magari ho visto un po’ di bellezza (che certo non nuoce alla salute) o mi sono abbandonato a qualche “oh” e a qualche “ah” di perplessa meraviglia.
In non pochi paesi d’Europa (mi dicono quelli che hanno viaggiato) appena metti piede in un museo vieni bloccato da un addetto di turno che ti chiede la tua lingua e poi subito ti dirotta all’idonea guida. E così, visitando visitando, ascolti e capisci: capisci il senso reale di ciò che stai vedendo, e cresci in cultura e cittadinanza. Si chiama educazione permanente del cittadino: la quale formazione, non dovrebbe mica concludersi, in un paese civile, con la fine del corso di studi medi. E oggi, poi, con la tecnologia di cui disponiamo, non mancano certo i modi per evitare che il visitatore incolto (ma volenteroso) di un museo, si aggiri per gli spazi espositivi come un’anima alla deriva.
E adesso, per passare dai musei a tutto il resto, dirò che, musei a parte, in Italia manca ed è sempre mancata una cultura della divulgazione, quella che sta a fondamento della vera cittadinanza. Noi siamo un paese di parolai, lo siamo sempre stati. I medici parlano in medichese, gli avvocati in avvocatesco, gli ingegneri in ingegnerese e via di questo passo. E perché lo fanno? Per vari motivi.
Anzitutto perché sono spesso ignoranti: cioè, conoscono magari la loro materia (quando va bene, si capisce), ma sovente non sanno parlare né scrivere. In secondo luogo perché sono ignoranti: essi credono che parlare difficile sia un pregio, invece è un difetto: è molto più difficile, in realtà, parlare e scrivere chiaro, farsi capire da chi non sa. In terzo luogo perché sono ignoranti: credono che se parlano difficile appaiono più importanti. In quarto luogo perché parlare ostico (infarcendo il proprio dire di tecnicismi o, peggio, di anglicismi, che oggi vanno per la maggiore) serva a dire: io ho il sapere, il “potere del sapere” e tu invece non sai niente: devi stare a quello che ti dico io, ti devi fidare ciecamente. Parlare astruso è un modo per avere in mano il potere, dai tempi del manzoniano dottor Azzeccagarbugli.
Come si viene fuori da cotanta incultura della divulgazione? Qual è il bandolo della matassa? Come si viene fuori da questa carenza gravissima, per cui la gente che non sa, anziché essere presa per mano e condotta a comprendere le cose difficili (siano esse tecniche o artistiche poco importa), viene viceversa disgustata al punto che alla cultura non si accosta mai più? Francamente non lo so. L’Italia è un paese malato da tempo immemore di quella che definirei “l’incultura del parlare difficile”. Però, che so, almeno parliamone tra di noi. Hai visto mai che, dai e ridai…
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