Invece qui l’avevo sentita la scintilla, un lampo improvviso, denso, che mi aveva fatto sussultare gli organi interni e rimescolare il sangue come diceva la nonna, ma l’occasione mi era scappata, lei era già scesa ed io non avevo fatto niente per fermarla.
Abbassai gli occhi per la delusione e vidi il suo cellulare. Le era caduto il cellulare e non se n’era accorta. Lo presi e pensai a una botta di culo. Per me. Se l’indomani avessi avuto ancora occasione di incontrarla avrei saputo cosa dirle e magari lei mi avrebbe ringraziato e saremmo usciti insieme. Era praticamente scarico.
A casa feci le prove per essere preparato all’incontro. Stavolta avevo tempo per evitare deludenti conclusioni. In camera mi misi a parlare con me stesso a voce alta.
“L’altra volta ti è caduto il cellulare, eccolo. Dove scendi ?” No, troppo sfacciato.
“Ho trovato il tuo cellulare. Ciao, chi sei ?” Neanche.
“Io sono Ugo e tu? Se mi dici come ti chiami ti darò il tuo cellulare.” Un ricatto bell’e buono.
Forse dovevo provare ad immaginare un dialogo.
“Tieni, ti è caduto ieri.”
“Oh, grazie, ero disperata!”
“Prego” e sarebbe finito tutto lì. Troppo breve, troppo conciso. Dovevo lasciare spazio ad un discorso che mi permettesse di approfondire.
“Tieni, l’ho trovato ieri. E’ tuo?”
“Grande! Si. Ero disperata. Ma come fai a sapere che è mio?”
“Era caduto proprio dove eri seduta tu.”
“Ma tu eri in autobus ieri ?” Eh no, proprio questo non dovevi dirmelo. Non mi avevi neanche notato, non ti eri proprio accorta che c’ero! Anche questo non andava.
“Tieni, credo che sia tuo.”
“Si cazzo, è mio, dove l’hai trovato ?” Mi era sembrata un tipo dinamico e moderno con annesso l’uso di quell’intercalare.”
“Ieri, in autobus, proprio dove eri seduta tu.”
“Che fortuna, ero disperata, grazie.” E qui si concludeva un’altra volta. Capitolo chiuso. Come quest’estate. Come le barriere del babbo “e finiamola qui”.
Non c’era altro da sperare che fosse lei ad offrirmi uno spunto per poter continuare.
“Tieni, credo che sia tuo” poi si sarebbe visto il resto.
E così il giorno dopo ritornai al mare e ripresi lo stesso autobus alla stessa ora ma lei non salì. Ripetei l’operazione per una settimana anche se dovevo studiare o qualche amico mi chiedeva di andare da lui. “Non posso, ho un impegno” “Cosa devi fare?” “Coi nonni.”
Come al solito non svelai a nessuno il mio progetto. Un po’ per il timore di essere apostrofato con gli epiteti “imbranato, pirla, testa di minchia” che io stesso mi ero attribuito, un po’ per la mia abituale riservatezza e incapacità di espormi. Il Boss poi avrebbe trovato senz’altro una presa adatta e si sarebbe intrufolato nei suoi segreti cellulari ed io né volevo gli insulti, né volevo invadere il mondo privato di qualcun altro. Mi era bastata una volta e ne avevo amaramente pagato le conseguenze.
Ma lei non saliva.
Per sicurezza tenevo sempre il suo cell. nello zaino. Ogni tanto lo tiravo fuori, lo guardavo, lo annusavo, mi sentivo un depravato e lo rimettevo via.
I viaggi inutili e infruttuosi mi deludevano e, dopo la prima settimana di assiduità, divennero più radi e non ci sperai più.
“Vieni alla festa di Hallowen così ti faccio conoscere Marina” mi disse un giorno il Boss in classe.
“E chi è Marina ?”
“Sto con lei da circa un mese, guarda” e mi fece vedere la sua foto sul cellulare.
Marina era lei, i ricci neri sull’autobus. Porca puttana come diceva “Mangia merda”. Fregato. Da un mese. Non valeva. L’avevo vista prima io ma se l’era beccata lui. Al diavolo i miei tentennamenti. Se le avessi detto qualcosa quel primo giorno! Dannate parole mancate! Un’occasione che non mi sarebbe capitata mai più. Non c’era scampo. Non avevo scampo. Come con Winnie. Ancora una volta.
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