Comunque, seguire le orme altrui non sarebbe stato poi nemmeno tanto complicato: bastava far domanda in una qualsiasi di quelle diavolo di mega aziende dai nomi interminabili, pieni di anglicismi e di &, e accettare di indossare una maledettissima giacca.
Un ufficio in centro a Milano, da raggiungere in metro; una cosmesi di efficacia, di controllo della situazione. L’impressione di essere arrivato da qualche parte.
Tutto sommato, ho modi sciolti e una discreta parlantina: avrei potuto ben figurare, confondermi tra loro. Quantomeno, mi sarei risparmiato un bel po’ di mal di schiena; e poi chissà, magari un giorno sarebbe arrivato perfino a piacermi.
Eppure no, non c’è stato verso. Io, il consulente strategico, l’Head of Business Delivery Partner Consultant Manager, qualsiasi diavolo di cosa significhi, non lo potevo proprio fare.
E mica è solo una questione di giacche: per esempio, c’è quella faccenda della mia metà socialista, ereditata da una madre insegnante statale di latino, innamorata di Seneca e Che Guevara.
E qui entriamo già nel campo della sfiga.
Proprio a me doveva capitare una metà socialista? Quante probabilità c’erano?
Statistiche alla mano, nell’Anno Domini duemiladiciassette, il socialismo non rappresentava esattamente un trend in ascesa: eppure lei, la mia metà socialista, delle statistiche sembrava felicemente catafottersene, e si ostinava a urlarmi nell’orecchio con quella sua vocina stridula, impartendo ordini manco godesse di una maggioranza bulgara. Urlava concetti antiquati, oltretutto, del tipo che se uno fino al venerdì sta in un’aula studio e non ha mai lavorato, il lunedì mica può consigliare qualcun altro su come farlo meglio di quanto non facesse prima.
A dar manforte alla discussione, a quel punto, subentrava Seneca; ché consulente deriva da consulere, e ai suoi tempi lo si usava per chiedere pareri agli oracoli e agli dei.
E, voglio dire, mica è la stessa cosa.
Poi le conclusioni le tirava Ernesto; lui, perfino quando era ministro, la domenica la occupava offrendo trabajo voluntario negli zuccherifici, non si faceva pagare per montare dei PowerPoint.
Insomma, con tutto questo trambusto in testa credo ancora che le mie colpe siano state limitate: era inevitabile che alla fine il sottoscritto, tutti quei vuoti inglesismi ad cazzum, quelle avvolgenti supercazzole in risposta a ogni domanda, tutte quelle moine dell’arrotolarsi con fare disinvolto le maniche della camicia, quei PowerPoint, tutti quei consulenti insomma, li avesse in antipatia non trattabile.
Di conseguenza, si torna al punto iniziale: io, il consulente, non lo potevo fare.
Sembra facile, adesso, ridere di me o darmi del matto, ma sfido chiunque a non uscirne pazzo: ventiquattro ore al giorno con quelle voci a martellare il cranio non sono uno scherzo.
E mentre Seneca e gli altri andavano e venivano, perché di cose da fare e persone da infastidire ne avranno avute anche altre, lo stesso non si può dire di quella stramaledetta vocina socialista: lei non se ne andava. Lei, evidentemente, era mia personale.
Ripensandoci oggi con l’ingeneroso senno del poi, forse, nonostante tutto avrei potuto cavarmela lo stesso più che discretamente: in fondo, se ammiri il Che, apprezzi Seneca e frequenti amici da non presentare a un Rotary Club, hai comunque tutto un universo che ti appartiene. Per esempio, mi sarei potuto ritrovare a fare attivismo in Venezuela.
Ma ho parlato di una metà socialista: metà, non di più.
E qui giace il problema, perché l’altro cinquanta per cento del mio fragile involucro terreno è abitato dall’entità più improbabile che si possa pensare accanto a un umanista socialista.
Un ingegnere.
Già, ho una metà ingegnere. Ereditata da… non si sa chi: non esiste nessuno, in famiglia, in grado di andare oltre le proprietà associative dell’addizione. Quindi, non mi resta che propendere per l’ipotesi che sia stata semplicemente piazzata lì apposta per farmi un dispetto.
E ora che il quadro è completo, forse, qualcuno riuscirà anche a immaginare quale faticoso, turbolento calderone di fumosi ideali, strappi ideologici e retoriche autoescludenti mi si aggirasse in corpo: il tutto, per di più, aggravato dalla vanità dell’avere non più di ventitré anni.
Da una situazione simile, niente di buono poteva generarsi: e difatti, a uscirne fu l’idea più balorda, la più assurda, quella che avrebbe definitivamente devastato i miei anni successivi.
Perché le mie due metà, con un senso del compromesso da far invidia alla Democrazia Cristiana, decisero che io, il mio contributo, lo avrei dato dove più serviva.
Io, la mia differenza, la avrei messa al servizio di chi lavorava davvero.
Io, il mio supporto, lo avrei destinato a migliorare la vita della classe operaia.
Io… io sarei andato a fare l’ingegnere di produzione.
Avrei avuto modo di pentirmene, oh yeah.
La Gopp possedeva uno stabilimento di macchine tagliaerba a trenta chilometri da casa e, vista con gli occhi da ingegnere non consulente, era una specie di entità sovrannaturale.
A dir la verità, le ragioni per cui il resto del corpo studentesco la venerava non erano perfettamente allineate alle mie. Sì, ok, le opportunità di carriera, le classifiche di soddisfazione dei dipendenti, lo stipendio medio dei neoassunti, il marchio, tutto bellissimo: tutte cose, per inciso, che so ripetere solo dopo averle origliate da appassionate discussioni tra ingegneri non umanisti.
Io, al Il Sole 24 Ore, avevo sempre preferito SportWeek; senza contare che quelle maledette graduatorie di gradimento non avrei saputo nemmeno dove andarle a pescare.
Per me, un ossimoro ambulante, non era così semplice: io dovevo accontentare entrambe le mie metà.
L’umanista nascosto in me concepiva una vita lavorativa fluida, piena di esperienze e di viaggi, in cui il lavoro non fosse altro che un mezzo per abbeverare la mia sete di sapere e conoscere il mondo, per poi ritirarsi a rifletterne guardando l’oceano. Una sorta di moderno Seneca con un suo concetto rivisitato di otium versus negotium, insomma, tanto per provare a darmi un tono. E da questo punto di vista no, non c’eravamo: la sede della Gopp, Sostinoprovinciadilodipianurapadana, l’oceano non lo contemplava.
Ma mentre il me socialista apprezzava l’impegno che Gopp lasciava intravedere nelle tematiche ambientali e sociali, il me ingegnere rifletteva che in quanto multinazionale avrebbe offerto decine, centinaia, migliaia di opportunità lavorative future chissà dove; luoghi in cui espandere il mio contributo e da cui, potenzialmente, l’oceano lo si poteva ammirare per davvero.
Senza dimenticare, last but not least, la rilevante quantità di fauna femminile che sbucava da ogni pubblicità dell’azienda. Perché, che ci volete fare, anche gli ingegneri umanisti e metà socialisti, per quanto benintenzionati, hanno i loro punti deboli.
E alla fine, insomma, poteva forse esistere un posto migliore per dare il via alla mia campagna di successi? No, certo che non esisteva.
Quindi avevo fatto domanda per lavorare nello stabilimento di Sostino, partendo dalla base della scala gerarchica: un colloquio per uno stage.
Carico a pallettoni come i Miami Sharks dopo il discorso di Al Pacino, mi ero buttato anima e corpo in quella giungla di prove. Lettera di presentazione, colloquio attitudinale, colloquio di gruppo, test matematico, test in inglese e chissà quale altro screening psicologico a elettrodi, magari svolto a mia insaputa dopo avermi tramortito col cloroformio: in più di un’occasione, mi ero perfino fermato a chiedermi a cosa davvero stessi concorrendo, se a una sedia di stagista sottopagato o a una poltrona in pelle umana di direttore NASA.
Eppure, in mezzo al mare magnum di sfighe che ho solo cominciato a elencare, l’appartenenza alla mia specie comportava anche qualche piccolo vantaggio: per esempio, le prove attitudinali rappresentavano per me un ostacolo abbastanza modesto, se raffrontato all’Everest che altri candidati ingegneri non umanisti si trovavano a scalare. Magari tecnicamente ferratissimi, ma con la capacità comunicativa ed espositiva di un’anatra.
Da parte mia, lo sforzo maggiore era stato evitare di far trasparire la mia personalissima opinione su tutte quelle prove: ovverosia, che fosse un immane groviglio di stronzate.
Quale beota risponderebbe mai, durante un colloquio, elencando i suoi reali tre peggiori difetti?
O chi non si approprierebbe di qualche pregio inesistente, casualmente collegabile ai requisiti richiesti? Durante un’intervista, chiunque finisce a trasformarsi in persona socievole aperta dinamica propensa al lavoro in team, anche se nel tempo libero fa il serial killer.
Mi ero semplicemente limitato a non dire strafalcioni, sciorinando il repertorio provato più e più volte davanti al paziente specchio del bagno: una cadenza pacata non noiosa, un sorriso aperto non sguaiato, una qual certa inflessione bonaria ma sicura della voce.
Qualunque cosa, insomma, fosse in grado di farmi apparire come un rispettabile ragazzo-uomo, di fresca cultura universitaria ma non per questo vergine degli affari di mondo.
Un potenziale da non farsi scappare, in parole povere.
E… Be’, avevo fatto centro.
Le risorse umane mi avevano amato fin dal primo sguardo. Non un’impresa titanica, a ben pensarci: in una qualsiasi azienda, per conquistare l’ufficio del personale è sufficiente sfoderare una qualche manfrina di ammirazione per il fatto che siano leader mondiali di settore. (Che poi, per definizione, il leader mondiale di settore dovrebbe essere non più di uno per settore, quella è un’altra questione.)
Poi era arrivato il turno di Motta, colui che sarebbe diventato il mio responsabile diretto: un omone burbero che parlava poco e mi guardava di sbieco. Aveva calcato molto la mano sulla disponibilità al sacrificio, chissà perché. Nelle orecchie avevo avvertito distintamente i tamburi del trabajo voluntario, e annuito con forza.
Di nuovo, avrei avuto modo di pentirmene.
E, da ultimo, il direttore d’area, l’ingegner Maffezzoni: un uomo di bell’aspetto, giovanile, vincente, uno di quelli che immagini a casa avere una bacheca piena di trofei appena sopra il camino.
Mi aveva accolto in camicia casual in un ufficio al terzo piano, pieno di luce e di mensole, esaltando la gloriosa tradizione Gopp, «una multinazionale formato famiglia dove al lavoro si va sorridendo». Aveva denti talmente bianchi che avrei potuto specchiarmici.
Come potevo non entusiasmarmi?
Mi ero sentito la persona giusta, nel posto giusto, al momento giusto.
Così, se quel giorno per caso qualcuno avesse notato una Punto grigia sfrecciare a velocità supersonica sulla provinciale 17, con alla guida un pazzo che urlava e i Sum 41 a far tremare i vetri, sappia che si trattava proprio del sottoscritto, dieci minuti dopo aver apposto una firma svolazzante e vagamente scolastica su un contratto di stage, durata sei mesi, rimborso mensile cinquecentocinquanta euro lordi, inizio cinque giugno duemiladiciassette.
«Questo è l’inizio di una grande avventura» ricordo di avere autoproclamato ad alta voce, sole in faccia e umore stellare.
Avrei avuto modo di pentirmi anche di quello, oh yeah.
Anna Cesana (proprietario verificato)
Una lettura che ho tenuto per le vacanze per poterla godere appieno.
E così è stato!
Mi sono divertita molto nella lettura, ci sono stati momenti in cui ho riso di gusto apertamente, sotto lo sguardo sbigottito di mio marito!
Ho ritrovato me stessa in Riccardo quando più di 30 anni fà ho intrapreso la mia professione lavorativa, ma ho ritrovato anche me stessa in altri personaggi sempre con l’ironia che percorre tutto il libro.
Da appassionata di cinema, ci vedo una possibile rappresentazione cinematografica!
Bravo Davide!
Ora non ci resta che attendere il seguito 🙂
Giorgio Ippolito (proprietario verificato)
Complimenti all’autore per la capacità di scrivere un bel romanzo da leggere piacevolmente, che sdrammatizza tanti momenti da corrosione del fegato con simpatia e leggerezza.
Gli stessi aggettivi che ricalcano i pensieri del protagonista Giaguaro, bravo Davide per questo stile; infatti nonostante lo stile, leggere “La dura legge del badge” è un bel colpo al fegato, perché purtroppo mette a nudo tanti, tantissimi problemi che il mondo del lavoro riversa sui lavoratori.
Quando il punto di vista è quello di un giovane tutto assume contorni più scorretti. reali. Poveri giovani, soprattutto povere aziende che barcollano in un contesto che faticano a comprendere e gestire.. aziende = persone
Pietro Innocenti
È stato un piacere aiutare ,anche se in minima parte , Davide nella realizzazione del libro. È bastato leggere poche righe e la copertina è nata da sola in un momento. Grande Davide, alla prossima!
Laura Ziglioli
Sin dalle prime pagine questo romanzo mi ha catapultata nei panni del protagonista, perché, diciamocelo, a tutti è capitato un momento nella vita in cui ci si é sentiti un po’ Riccardo.
Molto originale e divertente il concetto di savana aziendale e il Vangelo del “grillo parlante” Carniti che fanno riflettere su quanto ogni singola realtà (grande o piccola che sia) abbia così tanto in comune.
Assolutamente consigliato! Con questa chiave di lettura ironica, rientrando al lavoro, non sarai più lo stesso!! 😃
Yuri Sillano (proprietario verificato)
Non credevo che un libro potesse appassionare tanto da essere letto sullo schermo di un cellulare in una carrozza rumorosa durante un viaggio in treno. Eppure chiedete al controllore, che ha dovuto insistere perché interrompessi giusto il tempo di mostrare il biglietto.
Lo stile di Davide è accattivante e coinvolgente, ma soprattutto è facile riconoscere nella sua dis-avventura nella giungla del lavoro gli stessi personaggi che tutti noi affrontiamo tra il colpo di badge all’ingresso e quello all’uscita: ne nasce un’attrazione magnetica verso la pagina successiva, certi che tra un episodio esilarante e una battuta con gli amici si celi un’altra riflessione filosofica sul senso del lavoro.
Un libro che fa sghignazzare e che fa pensare, un libro che non va solo letto, ma anche e soprattutto usato.
…almeno per verificare quale collega applica il Protocollo Scoz…e per assicurarsi di non essere, in modo troppo evidente, quel collega 😉