Mefisto era un grosso gatto nero, con una coda da volpe e occhi gialli come fanali. Il signor Freddi l’aveva chiamato così perché quegli occhi gli facevano pensare a un diavolaccio dell’inferno; ma la figlia Isabella sapeva che il micio era buono come un angelo.
«Mefisto, tutti i gatti sanno parlare?» gli domandò un giorno Isabella. Il gatto, appollaiato su una pila di libri, si volse e inarcò un sopracciglio come solo i gatti sanno fare.
«Certo, scricciolo. A dire il vero tutti gli animali sanno parlare, ma noi gatti siamo particolarmente intelligenti».
Detto ciò, prese a leccarsi una zampa con fare altezzoso.
«Ma tu parli solo con me» osservò Isabella, «e mi hai pure detto di non dire alla mamma che sai parlare. Mi hai detto che è il nostro segreto».
«Tua madre non ti crederebbe» osservò Mefisto.
«I gatti parlano con tutti gli umani. Ma non tutti gli umani sanno ascoltare» esclamò il gatto.
Isabella si arrotolò una ciocca di capelli color paglia attorno al dito, pensierosa.
«E io sono speciale perché parlo con i gatti? O tutti i bambini ci riescono?»
Mefisto fece saettare la coda: i gatti sanno stizzirsi molto facilmente.
«Non tutti i bambini ci riescono: solo quelli che hanno voglia di ascoltare».
Tutto questo era molto sensato. A scuola c’era una ragazzina, Alice, che una volta aveva afferrato un micio per la coda e l’aveva fatto roteare come una trottola. Il povero animaletto era finito zampe all’aria sulla ghiaia dura del cortile, per poi schizzare a nascondersi oltre la cancellata. Isabella dubitava che una come Alice potesse stare a sentire i gatti quando le parlavano.
«Allora» riprese Mefisto, «ti piace la nuova casa?»
Isabella si voltò verso l’ingresso. Era una villa spaziosa, con quindici stanze e quindici porte, e c’era pure il seminterrato. Oltre la cucina, una scala scendeva ripida nell’oscurità, dove il pavimento scricchiolava e il soffitto gocciolava umidità.
«Mi piace il giardino».
«Sì» convenne Mefisto, «e pure il vicinato. Questo quartiere sembra fatto apposta per un esploratore come me. Sapevi che il bosco è grande almeno quanto due campi da calcio?»
«A me il bosco mette paura».
«Solo perché sei un’umana. Sai cosa mette paura a me?»
«Cosa?»
«Il quadro appeso in cantina».
«Quale quadro?»
«Non dirmi che non l’hai visto».
«No che non l’ho visto» sospirò Isabella, «mamma non vuole che scendo in cantina da sola. Dice che la scala è troppo traballante».
La bambina e il gatto si scambiarono uno sguardo obliquo.
«Ci sto!»
«Andiamo a vedere quel quadro».
La signora Freddi lavorava in centro e non sarebbe rincasata prima del tramonto. Con papà, invece, c’era poco da scherzare: il signor Freddi lavorava da casa, chiuso nel suo ufficio al piano superiore, e aveva un udito particolarmente fine.
Isabella e Mefisto si diressero verso la cantina in punta di piedi e di cuscinetti.
«Ssst! Voi umani avete la delicatezza di un pachiderma».
«Parla per te! L’altro giorno sei salito sul davanzale e hai rovesciato tutti i giornali».
«Vero» sogghignò Mefisto, «ma l’ho fatto di proposito».
La scala era traballante e sembrava non finire mai. L’unico interruttore stava in fondo alla cantina, così Isabella dovette calarsi nel buio più totale. Davanti a sé vedeva solamente gli occhi brillanti di Mefisto.
La temperatura scendeva ad ogni scalino.
Finalmente trovò l’interruttore e fece luce nel vecchio scantinato. Era una stanza lugubre come una sala mortuaria. In un angolo c’era una catasta di legna da ardere, e Isabella si guardò bene dall’avvicinarsi, perché i tronchetti brulicavano di piccoli ragni scuri. Sulla parete di destra papà aveva addossato gli oggetti più disparati: un vecchio tosaerba, una motosega e una macchina da scrivere con i tasti ricoperti da una spessa coltre di polvere. Dall’altro lato della stanza c’erano un divano liso e un motorino celato da un telo. Appena visibile, accanto al motorino, c’era il quadro.
Isabella trattenne il respiro. Mefisto aveva ragione: c’era qualcosa, in quel quadro, di assolutamente sbagliato. Il dipinto raffigurava un sentiero sbilenco che si inoltrava nel profondo di una foresta. La foresta era fittissima e gli alberi stritolavano la strada in una morsa di ferro, fino a che il sentiero non scompariva e rimaneva soltanto la vegetazione. Le piante risucchiavano la luce: sembrava che il sentiero si infilasse nelle viscere della terra.
La foresta nel quadro era disseminata di fiori, cosa che rendeva il dipinto ancora più strambo, perché non si trattava di fiori normali. Erano ovunque, sul sentiero e sulle creste degli alberi, facevano capolino tra le foglie e penzolavano dai rami. Erano simili a rose, ma neri, più neri del profondo della foresta.
Il cielo azzurro imbruniva fino a diventare blu in lontananza, costellato di macchie nere che potevano essere corvi. Non c’erano nuvole, ma di certo stava per arrivare una tempesta. Forse era proprio questo l’aspetto più sinistro del quadro: pareva il momento di quiete prima della venuta di qualcosa di terribile.
«È il quadro più brutto, più triste e più pauroso che abbia mai visto» sussurrò Isabella.
«In realtà è fatto bene» disse Mefisto, «artisticamente parlando. Comunque, non capisco perché certi umani fotografano un paesaggio e poi lo disegnano. Come pensi di poter disegnare meglio di ciò che vedono i tuoi occhi?»
«Spero con tutto il cuore che questo paesaggio non sia preso da una fotografia. Il solo pensiero che possa esistere davvero mi dà i brividi».
«Già».
«Togliamolo».
Isabella aveva parlato senza rendersene conto, ma capì subito che era la cosa migliore da fare. A furia di guardarlo, quel quadro le pareva sempre più un presagio di sventura. Aveva la sensazione che, se avesse distolto lo sguardo anche solo per un attimo, i mostri che attendevano nella foresta sarebbero usciti dalla tela per diffondersi nella cantina.
«E come?»
«Lo mettiamo dietro la macchina da scrivere e lo copriamo col telo del motorino, così non ci toccherà più vederlo».
Isabella si chinò e afferrò il dipinto. Era molto pesante. Stava appeso al muro con una gruccia in cima ed un gancio al centro. La ragazzina sfilò il passante dalla gruccia e sollevò il dipinto, per liberarlo dal gancio, ma la cornice le scivolò dalle mani. Mefisto si scansò appena in tempo. Isabella si tuffò sul quadro che cadeva verso il pavimento, sentì le sue unghie incastrarsi nella tela, poi il rumore secco di uno strappo.
Crack.
«No!»
Appoggiò il quadro alla parete. C’erano dei brutti segni nell’angolo di sinistra, dove si erano conficcate le unghie di Isabella. La cornice era intatta, ma non la tela: un lungo taglio l’aveva squarciata in due da cima a fondo. Isabella si mise le mani nei capelli.
«L’ho rovinato. Ho rovinato il dipinto. E se era di papà?»
Il signor Freddi si divertiva con gli acquerelli, di tanto in tanto; ma era improbabile che quell’abominio fosse opera sua.
«Be’, meglio così» ridacchiò Mefisto, «dopotutto, volevamo nasconderlo. Meglio che l’hai distrutto: adesso fa un po’ meno paura!»
Isabella non era d’accordo. Il taglio rendeva il dipinto, se possibile, ancora più inquietante. Attraverso lo squarcio si intravedeva il didietro della tela, che era stranamente nero come la pece. La lacerazione era una linea a zigzag che seguiva il sentiero nel dipinto, rovinava gli alberi della foresta e divideva in due il cielo irrequieto. Sembrava che un fulmine nero fosse caduto su quel paesaggio sinistro.
Come se la tempesta fosse infine arrivata.
Poi accadde una cosa che le fece gelare il sangue. Dal taglio nel quadro si sprigionò un’ondata di vento: un’aria gelida trapassò la ragazzina e il micio, lasciandoli intirizziti. Era una brezza tagliente come una lama, e portava con sé l’odore degli alberi, come se nascosta dietro al quadro ci fosse veramente una finestra per la foresta.
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