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La Madre di Mia Madre

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Consegna prevista Agosto 2025
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La madre di Laya è stata poco madre: non la ama, non la accudisce, e la accusa dei propri mali. Per questo Laya viene cresciuta da altre due donne: la catalana Amparo e la marocchina Aya. Cresce, così, tra tre culture, tre madri e tre lingue, senza smettere di chiedersi quale sia il suo posto.
La domanda si fa ancora più soffocante quando, a quasi trent’anni, pronta a intraprendere una carriera accademica, si scopre incinta. La maternità, per Laya argomento spinoso, la costringe a fare i conti con le grandi domande che da sempre la attanagliano: chi è lei? Qual è il suo posto? Cosa può tramandare a una bambina?
Mentre Laya cerca risposte tra Barcellona, Siviglia e Casablanca, la sua vita viene ripercorsa a partire dagli inizi: il quartiere da cui vuole scappare; gli studi umanistici a cui si immola; le sue diverse identità; l’amore per Mohamed; la lotta per crescere propria bambina che, come lei per prima, nasce senza un padre e da una madre che non sa come essere tale.

Perché ho scritto questo libro?

Attraverso la storia di Laya, ho cercato di rispondere a tanti miei interrogativi: come si fa ad amare un luogo in cui non si è nati? Come ci si ritrova tra madri e figlie? Come si muovono nel mondo le donne? E ancora, nel mondo odierno, chi ama le lettere, è condannato davvero, o l’arte ha ancora spazio tra noi? La storia di Laya è la mia risposta a queste domande; la mia necessità di trovare una chiave per capire, almeno un po’, il mondo.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Laya odia l’estate. Il suo compleanno è ad agosto, quindi dovrebbe renderla allegra, ma sua madre nemmeno si alza dal letto il 7 agosto. Appena la temperatura si alza e le giornate si allungano, una morsa le prende il petto, perché significa che l’estate sta arrivando, e significa che finisce la scuola.

È una notizia terribile per due motivi: il primo è che stare tra i banchi le regala gioia, i propri successi accademici le regalano l’orgoglio di cui sua madre sistematicamente la priva, e soprattutto impara: non è mai uscita dal quartiere, così il mondo lo assorbe in aula, tornando a casa con Amparo le rivolge tutti i perché che le sono rimasti sulla lingua. Il secondo motivo, che la intristisce tanto quanto se non di più, è che Laila e la sua famiglia abbassano le tapparelle, sprangano la porta e salgono in auto: in otto ore sono a Casablanca, dove passano l’intera estate. Per tre mesi, non c’è La’ con cui giocare, a cui fare le trecce, con cui leggere i romanzi o il giornale come i grandi -quello a Laila annoia, ma poi gioca a fare i grandi come il suo papà e allora diventa divertente anche leggere cose che non capiscono: mettono insieme le lettere, ma le frasi sono troppo difficili, parlano di cose troppo lontane e complesse. Per tre mesi non ci sono rumori nella casa di fronte, per tre mesi è una bambina sola seduta sul marciapiede nel caldo torrido di Siviglia.

Continua a leggere

Continua a leggere

Amparo la chiama dal balcone rossinyol, c’è il gelato, e lei corre su. Nel salotto della sua madrina, seduta sul divano con il ventilatore che fa rumore, trema e pare debba cadere, si prende la gioia in forma di panna e fragola sullo stecco.

È in quelle estati vuote, dove l’unica cosa che ha sono Amparo e i giochi da tavolo, le recite, le passeggiate, i giri in bici e le sue storie di Barcellona quando c’erano i fascisti -non li lasciare mai entrare, rossinyol, perché quelli dichiarati sono spariti, ma non sono morti davvero – che inizia a leggere più di Laila. Fino a quel momento, Amparo le aveva accompagnate in biblioteca a prendere un libro ciascuna di modo che, una volta finito il proprio, lo scambiassero con quello dell’altra. Una volta raggiunto l’ultimo rigo, si presentavano da Amparo che le portava per mano a restituirli e prenderne altri.

L’estate della quarta elementare chiede ad Amparo di andare in biblioteca. Finisce un libro al giorno. Le loro scampagnate in bicicletta prendono ad avere una tappa fissa, si fermano ogni giorno a restituire, firmare e prendere, ma presto l’impiegata dietro il bancone dice: non abbiamo più libri per la sua età. Prendono la bici e vanno in una più grande e tornano in quella vicino casa solo a settembre, quando le scuole ricominciano e Laila torna.

Quando prende un prestito un libro, si stranisce perché la sua amica non ne prende nessuno, dice che li ha già letti tutti.

“Quando li hai letti?”

“Quest’estate.”

Laila la guarda con gli occhi grandi. La sua è sorpresa genuina, così come lo è la sua risposta che alle orecchie tradite di Laya suona come un’accusa: “Non mi hai aspettata.”

Laya è abituata a difendersi, è nata e ha dovuto lottare per non morire di fame, si porta le mani sulla testa perché sua madre non la colpisca lì, così diventa cattiva del veleno che le ha instillato la solitudine.

“Tu nemmeno! Te ne vai senza di me!” Lo grida e scappa, lascia la sua amica davanti allo scaffale 9-11 della biblioteca.

Quel pomeriggio, quando tornano a casa e Laya sale al terzo piano invece che suonare il campanello Albarrán, Amparo se la siede sulle ginocchia e le chiede spiegazioni, le ricorda che non è bello urlare a quel modo contro gli amici e le fa capire che abbia esagerato perché non è colpa di Laila se non c’è durante le estati: la sua famiglia torna in Marocco, vanno a trovare tutti i parenti, la nonna, i cugini, tutti quelli che non possono vedere durante la scuola.

Alla menzione di quella famiglia, Laya scoppia a piangere.

È cresciuta mano nella mano con Laila, ha imparato a parlare anche da sua madre, così condividono lingua, hanno in bocca gli stessi sapori, sono ciondolate insieme nell’imparare a camminare, hanno gli stessi lividi, la gente le crede sorelle. Però è solo una storia, perché quando partono, quando salgono in macchina tutti insieme, Laila ha solo un fratello.

Non è diverso dalla prima volta in cui l’hanno invitata da loro per Eid al-Fitr. Aveva cinque anni. Se non l’avevano fatto prima, non era per mancanza di ospitalità, ma perché cadeva d’estate, e, in estate, loro tornano in Marocco. Era il 29 maggio 1987 quando finalmente le sono state aperte le porte a quell’evento per lei così nuovo: una famiglia che si riunisce per le feste. Amparo l’aveva vestita bene per l’occasione, le aveva lavato i capelli con uno shampoo profumato, aveva scelto per lei una gonna marrone e una camicetta a fiori rammendata vicino al colletto. Le aveva pettinato i capelli all’indietro in due trecce e l’aveva lasciata davanti alla porta di Aya, sicura che non avrebbe nemmeno dovuto bussare perché Laila corresse ad aprirle. Avevano mangiato tutti insieme seduti a gambe incrociate sui cuscini rossi sul tappeto del salotto, il cibo era buonissimo e tutti era felici. Anche Laya lo era.

Tornata a casa di Amparo, però, sdraiata a letto mentre tentava di addormentarsi, aveva pensato che quella festa si celebrasse ogni anno, e che la celebrassero anche senza di lei. Per stare insieme, non hanno bisogno ci sia anche lei.

Quando diventano una famiglia, Laya non c’è.

Ne piange tutto il pomeriggio.

Dopo quella litigata, Amparo convince Laya a scusarsi e spiegarsi con Laila e la sua amica, che è una bambina buona che nessuno ha indurito, si commuove e la abbraccia dichiarando che la prossima estate chiederà alla sua mamma se Laya può andare con loro. Lo fa davvero, ma presto scoprono che non è possibile: per andare in Marocco ci vuole il passaporto e Consuelo ha già detto che non pagherà per quello di una bambina, tantomeno per il suo. Tanto non ti serve, ti pare che abbiamo i soldi per andare in vacanza? La stessa scena si ripete per due anni, poi Laya smette di chiedere.

Tuttavia, memore della tristezza sul volto di sua sorella, Laila comincia a scrivere lettere dal Marocco. Sa che impiegheranno parecchio tempo ad arrivare -gliel’ha spiegato sua madre- ma non si scoraggia: una volta a settimana si siede a gambe incrociate sul terrazzo e scrive.

Aya le consiglia di mettere come indirizzo quello di Amparo, giacché non è certa che, se Consuelo trovasse le lettere, le consegnerebbe alla bambina -ma questo non lo dice. Non vuole che i suoi figli temano Consuelo più di quanto già facciano. Laila non capisce il motivo dietro quel consiglio, ma venera sua madre, così esegue e, una volta terminate, le consegna pagine e pagine da imbustare e spedire.

Scrivere lettere in spagnolo -tenta di aggiungervi l’arabo, ma non è brava a scriverlo, non padroneggia bene l’alfabeto- e, alle volte, le imbastisce del poco francese che sa e che lì sente più spesso perché si parla alla televisione e perché il suo zio più giovane, da poco laureato, ne fa un uso smodato che Aya disapprova. Scrive in una grafia di bambina un po’ pasticciata, piena di cancellature, che spesso salta le S alla fine o in mezzo alle parole, perché in Andalusia non si pronunciano. Pur zoppicanti nella lingua, quelle lettere sono cariche di entusiasmo nel riportare del cielo infinitamente blu del Marocco, dei suoi sapori così vivi e delle sue differenze.

Nelle lettere descrive il viaggio in un’auto carica di valige da Siviglia a un paese sulla costa vicino Casablanca, per poi passare a raccontarle con toni esuberanti ed eccessivi dettagli della casa bianca dei suoi nonni pazientemente costruita piano nel tempo, a partire dalla generazione dei suoi bisnonni, originari dell’entroterra. Ogni stanza, le spiega, è stata costruita intorno a quella dei padroni di casa, al momento i suoi nonni. La loro camera da letto affaccia sull’ingresso di modo che possano tenere d’occhio l’intera casa. Quella stanza è da sempre il cuore della casa intera, ne ospita ricchezze come i gioielli d’oro di sua nonna, i libri su cui Aya ha imparato a leggere, la vecchia copia del Corano del nonno, le doti delle zie, e il calore della famiglia.

Ai tempi dei suoi bisnonni, ognuno dei tre figli costruì per sé una stanza attorno alla loro, così che, ad oggi, la pianta di quella casa non pare seguire uno schema preciso. Una volta sposati, ognuno dei figli si trasferì lì con la famiglia -Ismail e Ghali con le mogli, Malika con il marito. Ormai, vivono lì solo i nonni di Laila e una coppia di zii, mentre le altre due famiglie vengono a trovarli solo durante l’estate, non appena le scuole si chiudono.

La porta d’ingresso affaccia su una strada frequentata principalmente da chi si dirige verso il mare, infatti, a loro che hanno la fortuna di vivere lì, basta attraversarla per arrivare nella baia dove passano ogni mattina. La doppia porta d’ingresso di ferro dà accesso a due corridoi: uno più breve coperto da un tappeto blu e avorio che conduce ad un piccolo salottino per gli ospiti con un tavolo basso in legno scuro e un divano con i cuscini arancioni. Svoltando a sinistra, si accede al salotto più grande dei tre nella casa, quello con la porta finestra che affaccia sul grande giardino con la piscina, il divano duro con i cuscini bianchi e avorio. Svoltando alla destra dello stesso corridoio, invece, si trova la cucina bianca con le pentole in rame di sua nonna e i tajine colorati. Dalla cucina arriva sempre un profumo di spezie -le piace lo zenzero, ti entra nel naso e ti sveglia- e il lento sfrigolare dell’olio, base di qualsiasi cosa sua nonna stia cucinando. Mentre scrive di quella lettera, sta preparando msemmen. La cucina è la stanza preferita di Momo, perché lì trova sempre sua nonna con cui chiacchiera a lungo, ma lei, Laila, la trova soffocante perché noiosa. Lì, a parer suo, le persone non fanno altro che cucinare, mentre lei vuole giocare.

A sua madre, invece, piace il salottino blu cobalto come gli infissi della finestra che affaccia sul giardino. È lungo e stretto e per raggiungerlo bisogna, una volta entrati, prendere il corridoio orizzontale, quello coperto da un tappeto rosso e avorio, che connette le altre stanze della casa sia all’altro salotto, che alle stanze da letto degli adulti -quelle dei bimbi sono al piano di sopra; vi si accede svoltando a destra all’ingresso e raggiungere le scale, posizionate subito dopo la porta del bagno. A sinistra, si incontra prima il salotto rosso, grande e arioso, con delle belle finestre che affacciano sul giardino, dove cenano e chiacchierano dopo cena, poi un bagno, poi il salottino blu. È l’angolo più tranquillo della casa, ed è lì che Aya si ritira a leggere. C’è sempre molto rumore in quella casa: lo sfrigolare della cucina, le grida dei bambini, il gorgogliare della fontana in giardino, i canti amazigh di sua nonna mentre cuce, e la radio a pile di suo nonno, da sempre poggiata sul comodino. Quando trasmette il canto dell’adhan, quello invade l’intera casa. Stendono i tappeti e pregano tutti. È la terza preghiera del giorno a placare i rumori continui di quella casa. Nel caldo del pomeriggio, si ritrova la quiete nel bisbigliare della preghiera. È solo una volta conclusa e ripiegati i tappeti che è concesso ai bambini di tornare a giocare.

Il gioco preferito di Laila è nascondino, perché coinvolge tutti. Fanno sempre contare Momo, in parte per dispetto, perché lui, di tutti i cugini che dormono al piano di sopra, è l’unico ad avere una stanza tutta per sé. Laila la condivide con sua cugina Dua, mentre Momo, al momento, dorme da solo. Si lamenta dell’ingiustizia: a Siviglia deve dividere la stanza con lui, in Marocco con sua cugina. Momo, invece, può fare quello che vuole.

A Laya, l’idea di vivere con tante persone pare un sogno: casa sua è sempre vuota.

Il vivo della lettera di Laila, però, arriva quando le racconta della sua avventura: lei e sua cugina sono volute andare a giocare nella casa in costruzione, un fortino perfetto per i loro giochi. Avevano progettato tutto da sole, sicure che sarebbero tornate per l’ora della preghiera, ma Momo le ha sentite parlare, così ha deciso che sarebbe andato con loro per supervisionarle. Gliel’hanno lasciato fare, sicure, però, che non sarebbe successo loro niente.

La casa non è distante da quella in cui abitano, ci vogliono pochi minuti a piedi. È destinata a diventare come le case nuove sulla spiaggia, costruite con un criterio, ma con meno cuore. Sono belle davvero, di questo non ha dubbi, ma così, mezza in piedi e mezza no, è lo scenario perfetto per divenire fortino di pirati o castello di principesse rapite da draghi. Giocano per ore, su e giù dalle scale non complete con Momo che grida Attente, vi fate male! fanno le equilibriste sulle travi di legno con Momo che dice Attente, cadete! ma loro non ascoltano, e anzi, allarmarlo diviene un gioco ancora più stimolante degli altri. Si rotolano nella polvere, tra i feri vecchi mentre Momo sposta sassi e vetri che potrebbero ferirle. Presto, però, anche quel gioco le annoia, perché non succede mai niente di esaltante: davvero Momo riesce a proteggerle. Così, Laila decide che è il momento di lanciarsi in una nuova avventura, e riproduce un gioco vecchio: la principessa salvata dal principe. Se suo fratello la deve seguire ovunque, che almeno si renda utile. Dua diviene così la principessa che deve aspettare in cima alle scale che Momo arrivi a salvarla, ma il loro ritorno verso il piano terra è ostacolato da mille trovate. Mentre le scrive, però, Laila si rende conto di una cosa: nascono tutte dalla fantasia di Laya. Senza sua sorella, non sa giocare a niente. Quello, però, non lo scrive.

Quando termina, porta i fogli a sua madre e la osserva mentre le legge da cima a fondo. Quando lo fa sospira. Laila non è cieca: vede negli occhi di sua madre un certo disappunto dovuto agli sforzi fatti, che pochi risultati danno. Scrive lo spagnolo senza S e D, scambia B e V, C e S, Z e S, mentre l’arabo è ancora più povero. Parole intere non si riconoscono, le lettere non sono chiare, si blocca perché scrivere senza vocali le pare innaturale. Usa sempre gli stessi vocaboli, li incastra in combinazioni nuove, ma le frasi sono monotone. Ha voglia di raccontare a sua sorella del Marocco, ma dalle sue parole non traspare.

Laila è certa che, se le lettere fossero di Laya, sua madre le incornicerebbe. Lo sa perché, quando non riesce a leggere le parole in arabo che Laya inserisce nei suoi testi, Aya non sospira. Le lettere di Laya mischiano spagnolo e arabo, ma sono scritte correttamente, sono ricche, i vocaboli sono azzeccati e restituiscono la realtà nella sua purezza. C’è poco da raccontare dell’estate nel quartiere, eppure le parole di Laya rendono quel vuoto degno argomento. Laila sa di non essere in grado di fare lo stesso. Sa che sua madre se ne addolora.

Due settimane dopo, un’altra lettera attende nella cassetta della posta grigia e arrugginita che recita Battle Bara sul cartellino bianco scolorito e poco leggibile a causa della plastica rovinata. Tornando a casa dopo aver fatto la spesa, Laya che segue Amparo a passi svelti nelle sue scarpe scure con gli strap, trova la busta che, in una grafia ben più chiara di quella di una bambina, riporta su un lato il proprio indirizzo, sull’altro, in arabo e in caratteri latini, un indirizzo di Casablanca. Amparo non ha bisogno di aprirla per capire di non essere lei la reale destinataria, così si volta verso la sua figlioccia e le annuncia che abbia ricevuto un’altra lettera dal Marocco. Laya non ci può credere: nei suoi occhietti neri si accende un entusiasmo incontenibile, afferra la busta e la stringe nelle manine un po’ sporche, corre di sopra e aspetta impaziente che Amparo, con il suo passo più stanco, la raggiunga, apra la porta e, una volta in cucina, la aiuti ad aprire la busta con un coltello. Sorride quando riconosce la grafia di La’ sul foglio a righe.

Euforica all’idea che l’abbiano pensata tanto spesso da scriverle di nuovo, sfreccia in salotto e si siede a gambe incrociate sul pavimento a divorare quella lettera, ignorando gli errori ortografici e indovinando sull’onda dell’entusiasmo il significato delle poche parole in francese -che, scopre, a volte le ricordano il catalano. Quando arriva alla fine della lettera, però, il suo sorriso svanisce.

Sua sorella gioca ai loro giochi senza di lei, può essere sostituita dalla cugina Dua e il gioco funziona lo stesso. La sua presenza non è necessaria nemmeno alla propria fantasia.

2024-11-13

Aggiornamento

Grazie a tutti per il sostegno datomi fin'ora! La campagna è arrivata al 30%, il che significa che se la campagna non dovesse arrivare a 200, tutti gli ordini saranno comunque spediti, in numero limitato. Per continuare a sostenermi, raccontate del libro ai vostri conoscenti, agli appassionati di lettura, coinvolgendoli in questo processo!

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Annachiara Spilotros
Nata a Verona, ho scoperto sin da piccola l’esistenza dell’Altro: ho un
cognome di origine catalana e la mia zia più fidata è colombiana. Dettagli piccoli, ma che mi ricordano che, là fuori, ci sono tante storie e tanti luoghi. Con uno spiccato amore per la letteratura e altrettanto interesse per l’antropologia, esploro me stessa e il mondo attraverso le storie che leggo e scrivo. La Madre di Mia Madre è il mio romanzo d’esordio.
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