«Signora, la TAC alla testa ha rilevato un trauma cranico. Dobbiamo tenere suo figlio in osservazione per qualche giorno» aveva riferito il medico alla madre. Lei si era giustificata raccontando che il bambino era caduto dalla bicicletta in una strada di campagna e il medico le aveva creduto; d’altronde, i bambini vivaci rischiano sempre di farsi male mentre giocano sulla bici o mentre tirano due calci al pallone. Persino le escoriazioni che aveva sul viso e sulle braccia erano normali. Compresi i lividi sui dorsi delle mani. No! Nessuno doveva sapere come era andata veramente o sarebbe finita male. Tirò un sospiro di sollievo.
Anche questa volta è andata, pensò.
Il bambino la osservava. Cercava comprensione. Cercava affetto. Ma vedeva davanti a sé solo una madre che aveva paura. Paura di amare il suo bambino e di essere punita per quell’amore.
«Se sarai buono come lo è tuo fratello, non ti accadrà più nulla» gli disse poggiandogli una mano sulla spalla.
In cuor suo, il bambino sapeva che non sarebbe servito a niente. Agli occhi del padre, lui non sarebbe mai stato al pari del fratello: non c’era bisogno di un motivo perché si arrabbiasse con lui o con la madre. Era sempre tutto sbagliato. “I bambini cattivi, devono essere puniti” diceva. Però a lui non era ben chiara questa cosa. Non si sentiva affatto un bambino cattivo. “Le donne che non sanno educare i loro figli, meritano di essere punite” diceva, mentre percuoteva la madre.
I giorni dopo le dimissioni dall’ospedale furono terribili per il bambino. Il padre, come tutti i pomeriggi, se ne stava seduto sulla sua poltrona di fronte al fuoco, tenendo in mano il suo bicchiere di vino che ogni tanto rabboccava dal fiasco che aveva appoggiato a terra accanto ai suoi piedi. Il bambino era seduto su uno sgabello lontano dal fuoco e osservava con attenzione ogni movimento del genitore: sembrava fosse seduto su una poltrona di spine, perché non riusciva a stare fermo. Pure lui ogni tanto si girava a guardare il bambino. E farfugliava parole incomprensibili: ma il bambino sapeva che erano rivolte a lui. Da quando era al mondo non lo aveva mai accettato. Per lui era un bambino insolente e persino brutto. “Che ci stanno a fare i bambini brutti al mondo?” gli diceva.
Qualche istante dopo, si rivolse a lui.
«Coso!» esordì rivolgendosi al figlio che considerava più un oggetto che una persona. «Vai nella legnaia a tagliare un po’ di tronchi, che a stasera non arriviamo con questa legna. E cerca di sbrigarti!»
«Forse è meglio se me ne occupo io!» disse la madre.
«Deve andare lui! Stanne fuori, stupida ficcanaso!» disse l’uomo percuotendole il volto con la sua mano pesante. Come ogni giorno, aveva fatto il pieno di alcool e le cose potevano solo precipitare se qualcuno di loro avesse sbagliato risposta.
Il bambino si alzò e si avvicinò all’appendiabiti accanto all’ingresso. Il padre quando lo vide gli ordinò di fermarsi. «Non vorrai mettere il giubbotto? Sei in punizione, ricordi? Uscirai senza!»
In punizione perché? continuava a chiedersi il bambino: in fin dei conti non aveva fatto niente.
Abbassando la testa, uscì senza dire una parola. Gli occhi della madre erano colmi di paura, come sempre. Dopo tanto tempo, però, aveva provato a difenderlo. Il freddo era diventato più gelido e la neve aveva attecchito al suolo e fare le faccende all’aperto era complicato. Il vento di tramontana soffiava pungente e gli sferzava il viso. Il bambino sentiva l’aria gelida entrargli nelle ossa e gli toglieva il fiato. Non aveva più sensibilità né ai piedi né alle mani.
Non riuscirò mai a tagliare quei grossi tronchi di leccio, pensò.
Era solo un bambino.
Decise di tornare dentro e chiedere aiuto. Non appena l’uscio si aprì, il padre gli si rivolse contro.
«Sei un buono a nulla, bambino schifoso. Tu e quella stupida di tua madre che non è stata in grado di darti un’educazione. Come osi rifiutarti di lavorare per questa casa? Ti insegnerò io le buone maniere!» disse alzandosi dalla poltrona e afferrando uno dei ferri da camino. Inveì contro il bambino con forza brutale, colpendolo più volte sulla schiena, sulle gambe e sul capo. Il bambino batté la testa sul marmo del focolare esterno del camino e perse i sensi. Colpì la moglie sul viso e sulle braccia, per poi spingerla contro il muro. Il bambino rimase a terra privo di sensi sotto lo sguardo terrorizzato del fratellino che rimase immobile, impietrito dal terrore.
Quando riaprì gli occhi, il bambino vide che era buio. Era nella sua cameretta, steso sul suo lettino. Sentiva un forte dolore alla testa. Allungò la mano per toccarsi la fronte e si accorse che aveva una fasciatura per buona parte della testa. In casa c’era un silenzio quasi tombale. Il bambino riusciva solo a percepire quel silenzio. La testa era pesante. Gli occhi erano pesanti. Senza accorgersene, si riaddormentò.
Con la madre aveva sempre condiviso il dolore, l’abuso fisico e psicologico. Aveva condiviso la paura. Ma dopo quell’ennesimo episodio, qualcosa dentro di lui era cambiato. In lei non trovava più quel rifugio sicuro e accogliente che ogni mamma è per il proprio bambino; era ormai un’immagine sfocata che si allontanava sempre più da lui. Gli rimaneva solo il fratello, che era tanto fragile, ma comunque esente da quei maltrattamenti che lui invece subiva costantemente. Era pur sempre una consolazione.
Era successo ancora. E sarebbe successo tante altre volte. Era solo un bambino.
Marco Steri (proprietario verificato)
Una storia che ti coinvolge già dalle prime pagine. Molto scorrevole e soprattutto con descrizione dei luoghi e delle scene molto molto molto dettagliati… sembra veramente che lo scrittore sia riuscito a indurre la mente in una realtà virtuale mentre lo si legge. Una bella storia ambientata in Sardegna. UN LIBRO CHE SICURAMENTE CONSIGLIO.
Aspetto con piacere una nuova uscita!!!