Angelico Martelli era un tipo tranquillo, uno di quelli che incontri per strada, al supermercato, la domenica in chiesa o magari al bar e senza sapere minimamente il perché, ti viene voglia di salutarlo. Sarà che questa sua caratteristica l’ha sempre avuta da quando era un bambino, sarà che la madre lo educò come solo una mamma amorevole sa educare, non facendogli mancare mai nulla. Ogni vizio si faceva passare eppure sempre senza mai esagerare e se qualche volta si azzardava a chiedere di più interveniva suo padre, un omaccione grosso, come nascevano solo tempo fa che subito con toni tutt’altro che pacati, gli ricordava che nella vita non tutti hanno le fortune che aveva lui e che quindi non solo doveva comprenderle ma anche rispettarle. Sì, perché secondo l’omaccione, che poi si chiamava Furio, nella vita può succedere sempre qualcosa e la fortuna può abbandonarti da un momento all’altro.
Così crescendo con la consapevolezza che nella vita nessuno ti regala nulla e che non devi giudicare mai nessuno, perché ognuno sulla terra combatte una propria battaglia con l’esistere, divenne estremamente empatico e questo suo modo di essere lo rese uno dei bambini più simpatici e generosi del quartiere. Col passare del tempo il bambino divenne ragazzo e poi uomo, cambiò aspetto, voce e statura. Eppure il cuore, la sua testa, rimasero sempre come quando era bambino, non infantili ma innocenti. Lui il male nelle persone non lo riusciva proprio a vedere, guai anzi se qualcuno provava in qualche modo a infastidire un suo amico, un familiare o anche uno sconosciuto che non poteva difendersi, i prepotenti, proprio non li sopportava. Fece dell’uguaglianza e del rispetto reciproco dei veri e propri valori e i suoi tre figli, Ernesto, Michele e Errico crebbero con questa educazione, che sapientemente si sposava a quella della madre, Anna, un po’ libertina e spregiudicata ma anch’essa legata a sani princìpi etici e morali.
Era una persona rispettabile, in casa, nel tempo libero e soprattutto sul lavoro. Ah, il lavoro proprio non glielo dovevano toccare, viveva per il suo lavoro, era stato educato così in fondo e ogni volta che ci andava il cuore gli sorrideva. Tutte le mattine percorreva a piedi il lungo viale e poi prendeva un pullman che lo portava al cantiere. Tutti lo rispettavano anche lì. «Come comanda la gru Angelico non lo fa nessuno» dicevano «in pausa pranzo ci racconta sempre storie simpatiche» e poi «se succede qualcosa con i padroni Angelico si fa rispettare sempre ed sempre pronto a battersi». Questi valori li aveva presi da Furio: da bambino lo vedeva andare in fabbrica, si spaccava la schiena e tornava sempre arrabbiato nero. Si sedeva a tavolino e divorava tutto quello che gli capitasse davanti «mangia piano» le diceva Candida, sua moglie ma lui niente, poi mentre beveva il vino nero guardava negli occhi Angelico e gli diceva: «ricordati di non farti mai schiacciare da nessuno, ricordati che i padroni sono dei buoni a nulla e soprattutto che una fabbrica senza operai chiude, senza padroni continua a lavorare».
Cresciuto a pane ed equità sociale, Angelico non solo dunque ereditò quell’empatia dalla madre ma anche un senso di giustizia sociale ed equità dal grosso Furio. E grosso lo era pure Angelico ma a differenza del padre aveva un carattere completamente diverso, sembrava uno di quei cagnoni grandi e feroci ma che poi non abbaiano mai, sono sempre calmi e docili. Gli operai al cantiere lo sapevano, così come sapevano che per ogni problema avrebbero potuto contare su Angelico che quando si trattava di difendere un altro diventava una belva, quando toccava difendere il suo onore invece, quasi si vergognava e spesso molti sfruttavano la sua generosità.
Ogni santo giorno, finito il turno, se ne tornava a casa; saliva la ripida salita di ghiaia e sozzeria, passava al bar, beveva una birra, faceva due chiacchiere con il barista e poi prendeva lo stesso pullman che a distanza di poche ore l’avrebbe riportato nello stesso identico luogo.
Viveva in una palazzina scalcinata, non distrutta o chissà cosa ma non era di sicuro una palazzina signorile; e per giunta era pure piccola e poi quelli che ci abitavano, dio ce ne liberi! Tutti strani, così diceva Angelico, quando Anna a fine giornata gli raccontava la sua. Erano cinque famiglie, sostanzialmente andavano d’accordo, almeno in apparenza, poi però le urla, le discussioni e le voci che come dei tintinnii filtravano dalle pareti di cartone facevano intendere tutt’altro. E pure Angelico c’aveva i suoi scheletri. La sua famiglia non era mica come lui, anzi sembra che il fato si fosse divertito a far entrare in quella casa tre figli completamente opposti alla figura paterna. Forse proprio perché Angelico prima che uomo si sentiva padre e i figli prima che figli si sentivano umani e certe cose proprio non le digerivano.
Una sera, tornato da lavorare rientrò in casa e vedeva Michele, che leggeva ad alta voce. Anna non lo sentiva proprio, e già, era troppo impegnata nel preparare la cena, perché quella sì che contava. La filosofia, la politica, la società, tutte cose belle ma non si mangiano.
Era talmente presa da non accorgersi delle smorfie e della camminatura sbilenca di Angelico. Lo scarognato era caduto per l’ennesima volta per le scale: la vecchia pedata di marmo non era incollata bene ed ogni volta che la grossa mole di Angelico vi metteva il piede sopra, quella si alzava e con lei pure il metro e novantadue del poveraccio che cadeva e bestemmiava la famiglia di Libero Cetroma, responsabile della sua rampa di scale o almeno quelli sembravano gli accordi.
«Gliel’avrò detto un milione di volta ma nulla, maledetto spilorcio» diceva Angelico ad Anna mentre indaffarata continuava con la preparazione «che hai fatto?» gli disse poi lei vedendolo zoppicare e con la faccia ingrugnita «lo scalino, un’altra volta» rispose seccato, quasi afflitto. «Ah, ma domani mi sente, eccome se mi sente» disse poi mentre faceva cenno con la testa a Michele di smettere di leggere e di andare a sedersi per la cena. Poco dopo arrivarono pure Ernesto ed Errico che la famiglia Cetroma proprio non la sopportavano ed erano pronti ad agire ma l’ultima parola spettava ad Angelico, era lui a prendere le decisioni e belle o brutte andavano rispettate.
Eppure le decisioni di Angelico spesso facevano storcere il naso ai figli e pure ad Anna, che non era più nel fiore degli anni e la sua bellezza stava lentamente sciupando ma manteneva negli occhi ancora quella scintilla che aveva in giovinezza.
«Domani ci parli come se servisse a qualcosa» faceva lei ad Angelico che curvo sul piatto mangiava e non rispondeva. I tre figli pure stavano zitti, quante cose avrebbero voluto dire ma non ci riuscivano, sembravano proprio la fotocopia del padre, diversi forse nel pensare ma quando si trattava di far valere i diritti, i loro diritti poi, mica solo quelli degli altri per dio, non ci riuscivano e rimanevano inermi a guardare la scena, quasi convertiti dalla linea morbida di Angelico.
«Mamma ha ragione» faceva Michele, «quelli sono dei noncuranti, disprezzano tutto e tutti, basti pensare a quello che hanno fatto al povero Errico».
«Basta!» fece Angelico sbattendo il pugno sul tavolo come a ricordare a tutti che lì dentro, dentro quelle quattro mura, le decisioni spettavano a lui e non c’era modo di cambiare: Angelico era il capo famiglia, era quello che portava il pane a casa e con tutto il rispetto per gli altri era pure il più saggio. Figurarsi se un uomo della sua età, con le sue esperienze, doveva subirsi la morale di un ragazzetto.
Perché quando il limite si passa poi non c’è modo di tornare indietro e così nella testa pacata e saggia di Angelico tornarono come cornacchie in volo quei maledetti ricordi che tanto aveva cercato di scacciare. Pareva di vederlo ancora quella carogna di Libero Cetroma che con una faccia da prendere a ceffoni licenziava il povero Errico che da quel momento non avrebbe più lavorato come garzone al suo spaccio. «E che ci posso fare, Angelico» diceva Libero Cetroma «non è colpa mia, tuo figlio è un bravo ragazzo, per carità ma quella gamba lo rallenta; e poi la figura che faccio con i clienti, da me viene gente signorile». La figura che ci faceva con i clienti. Come se quella gamba storpia fosse colpa di Angelico o peggio ancora del povero figlio suo. E che ci poteva fare lui, cadde per quella maledetta scala quando era bambino e la gamba non tornò mai più come prima. Malformazione, dicevano i medici dopo l’operazione, la gamba era sì tornata a posto ma la camminata spedita e innocente da bambino non l’avrebbe più riavuta. Così fin dalla più tenera età Errico aveva il destino già segnato: era uno storpio. E forse le scintille fra i Martelli e la famiglia di Libero Cetroma hanno origine proprio da quel licenziamento ma non tanto per aver perso un posto di lavoro per il figlio, quanto che il poveraccio fu etichettato, come se di guai non ne aveva già abbastanza. Errico non digerì mai la cosa e iniziò a covare odio e rabbia verso la famiglia del piano di sotto e allo stesso tempo allacciò rapporti con quei quattro ragazzi che abitavano vicino ai Martelli. Studenti, lavoratori, perdigiorno e chi lo sa! Fatto sta che i soldi a quelli non mancavano, avevano sempre qualcosa da mangiare e se non potevano comprarselo c’era sempre qualcuno che da fuori portava loro provviste e vestiti. Si chiamavano Pier Giuseppe, Fabrizio, Pietro e Gaetano, avevano un modo di vivere piuttosto particolare e da come raccontava Errico ad Angelico, ai fratelli e alla madre, non avevano regole ben precise in casa. Eppure tra di loro c’era una convivenza pacifica, addirittura avevano una cassa comune, dove ognuno metteva quel che poteva e dove ognuno poteva a sua volta prendere qualcosa e le decisioni non erano prese per alzata di mano come facevano i vicini dei Cetroma, i Cinelle o come a casa di Errico, dove Angelico, anche se aveva un gran cuore era temuto e rispettato. Lì le decisioni erano prese insieme sempre a favore del bene comune.
La mattina dopo Angelico si svegliò come al solito di buonora, quando fuori era ancora buio e andò a lavoro. Stavolta ci andò con uno spirito diverso e sì, perché per tutta la giornata non faceva altro che ripassare quello che al ritorno avrebbe detto a quel prepotente, spilorcio e grassone di Libero Cetroma. Oh gliene avrebbe dette quattro, gliel’avrebbe cantate, eccome se l’avrebbe fatto, si era veramente scocciato, prima ci cade il figlio e rimane storpio a vita e poi a frotte toccava pure a lui e le botte col tempo si facevano sentire. In cuor suo sapeva che forse niente sarebbe cambiato ma voleva affrontarlo per una questione di principio, di etica morale. Non voleva più apparire davanti ai suoi cari come il fesso che difendeva a spada tratta tutti e poi non riusciva ad onorare il nome suo, il nome di Michele, di Ernesto, del povero Errico e della premurosa Anna. Sì, l’avrebbe affrontato e nessuno avrebbe battuto ciglio. Così una volta sceso dal pullman s’incamminò con foga verso lo spaccio di Libero Cetroma che stava a pochi metri dalla palazzina dove vivevano, andò con aria sicura, più camminava e più si ripeteva cosa dire, non doveva sbagliare. Lo spaccio era chiuso, non c’era nessuno, né la moglie, quella megera di Maria Antonietta e nemmeno quel panzone del figlio tanto grasso quanto stupido di cui Angelico non ricordava mai il nome. Il locale non era illuminato e nemmeno i due garzoni che lavoravano lì c’erano; rammaricato ma ancora col sangue che bolliva decise così di andare nella palazzina, sicuramente era a casa e dove poteva altro stare uno spilorcio come lui. Il viale lo percorse in pochissimo tempo, appena girò l’angolo vide una folla davanti all’ingresso della palazzina.
Riconobbe subito Anna e tutt’e tre i figli, riconobbe quei quattro ragazzi che abitavano di fianco a lui, riconobbe pure i Cetroma e poi chi altro, guarda un po’, c’era Giuseppe Cinelle con la moglie e pure Adolfo Luminossi e con lui Cristiano Dome; tutti gli inquilini, o perlomeno i capi famiglia erano lì e a guardare bene ce n’era anche un altro. In mezzo alla folla si intravedeva il dott. Fiprotto che con il cappello sotto al braccio discuteva con uno dei ragazzi amici di Errico, mentre gli altri parlavano tra di loro.
D’improvviso il sangue che gli bolliva nelle vene si raffreddò e divenne gelido, a dir la verità impallidì e come un leone ferito si avvicinò al gruppo cercando di capirci qualcosa pure lui, in fondo era un suo diritto. Anna lo vide, lo chiamò a sé e poi in sacrosanto silenzio stettero a sentire quel che il dott. Fiprotto stava ribadendo stavolta a Cristiano Dome e Adolfo Luminossi. «Ve l’ho detto signori miei, non dipende da me, il comune vuole realizzare degli appartamenti più lussuosi per rivalutare la zona, io tra l’altro ci vado pure a perdere, nemmeno mi conviene vendere!» Cristiano Dome cercava con tutta la sua diplomazia di trovare un comune accordo, Adolfo Luminossi era nero come un cielo nuvolo a mezzanotte e pure i suoi occhi porcini erano neri e lacrimavano rabbia. Ormai senza più il senno acchiappò per la giacca lo sciagurato Fiprotto e stava per far valere le sue ragioni, quando d’un tratto Gaetano di fianco diede una spinta forte ad entrambi; Adolfo si spostò appena e con rabbia guardò pure Gaetano, mentre Fiprotto cadde a terra, tutto impolverato che pareva un pezzo di carne panata. Subito Libero Cetroma e Cristiano Dome si precipitarono per rialzarlo, il primo si accertò delle condizioni dello sciagurato, il secondo una volta accertatosi che stesse bene si rivolse a tutti gli altri. «Ma insomma, signori, cosa siamo bestie?» disse «no!» Fece secco Gaetano che continuò «la bestia è lui, questa è casa nostra e da qui non ci caccia» guardò poi gli altri in cerca di un cenno d’intesa, che tuttavia ci fu. Pier Giuseppe, Pietro e Fabrizio non esitarono a stare dalla sua parte e così pure Errico che tanto andava d’accordo con loro. Anna guardava Michele e Ernesto che erano più neri di Luminossi e poi Angelico, l’unico ancora assente, quasi distaccato. Ma guarda tu il fato, era venuto per cantarne quattro a Libero Cetroma e ancora una volta le sue ragioni non vennero esposte. Persino Giuseppe Cinelle era più lucido di lui. «Ma che problema c’è» disse «su forza, prendiamo una decisione per comune accordo, a maggioranza, quello che la maggioranza vuole si fa» disse poi con la faccia furba, spocchiosa. «Ma quale maggioranza» ribatté subito Adolfo Luminossi «qui non esiste maggioranza, questo signore è un nemico e il nemico va combattuto. Signori, o con noi o contro di noi» Cristiano Dome si passò la mano fra i capelli e a tutti i costi cercava di sbrigliare la situazione ma non ne veniva a capo. «Su, su» fece poi Libero Cetroma «Il dott. Fiprotto sta solo ribadendo le sue ragioni, sono sicuro che si troverà una soluzione comoda a tutti» disse con tono leggero «Nessun accordo» ribadì Fiprotto «Non c’è niente da negoziare, è già stato tutto negoziato e lei, sig. Libero Cetroma lo sa perfettamente». Fiprotto si allontanò quasi offeso per la spinta ricevuta e pronto a sfrattare tutti. Libero Cetroma intanto colava sudore lungo il collo grasso che aveva insudiciato il colletto della camicia. Gli altri lo guardavano incuriositi e vogliosi di spiegazioni; che Libero Cetroma fosse una volpe grassa e senza scrupoli era noto quasi a tutti ma che arrivasse a negoziare la posizione di tutti a loro insaputa nemmeno il più scettico fra quelli lo avrebbe potuto immaginare.
E la volpe grassa si dimostrò tale, dopo quel teatrino prese sotto braccio la moglie e con il figlio al capezzale s’incamminarono tutte tre verso casa, lasciando quei poveracci là fuori con l’amaro in bocca.
«E ora?» Fece Ernesto «Ora ci rimbocchiamo le maniche e troviamo una soluzione» soggiunse Michele «Sì, non c’è alternativa» disse Adolfo Luminossi. «Signori, prima di agire bisognerebbe trovare un accordo, un comune accordo su come evitare questa situazione» disse Cristiano Dome che continuò «ho un amico al comune, forse è il tizio che fa al caso nostro, potrebbe darci qualche dritta, suo cugino fa l’avvocato, mi devono dei favori» Gaetano scuoteva la testa «no, mi spiace signor Dome, qui bisogna solo ed esclusivamente agire. Agire, agire, agire» mentre parlava gli occhi di Errico brillavano e si avvicinò a lui come a dargli sostegno. Pure Michele ed Ernesto si avvicinarono, così i quattro ragazzi avevano dalla loro i figli di Angelico che stavolta sembrava più conscio di quanto accaduto e guardando gli occhi di Anna sapeva che aveva il suo appoggio e questo per lui era fondamentale. «Anch’io sono per l’agire» fece poi «ma non voglio scontri, non voglio caos, non voglio problemi» bisogna farlo nel rispetto reciproco di ogni individuo. Nel sentire le poche ma sagge parole di Angelico, Fabrizio fece un sorriso, si rispecchiava nel pensiero di quell’uomo grande e grosso e non gli pareva vero che quell’uomo fosse lo stesso che Errico descrisse come un capo da temere e rispettare, non in errore, sia chiaro ma da rispettare. Sembrava molto aperto alla linea morbida e “rispetto reciproco” a Fabrizio piaceva. «Ma quale rispetto» fece Pier Giuseppe «il rispetto si guadagna, signori miei, quel dott. Fiprotto ci tratta come se fossimo merce di scambio, polli, vacche o peggio ancora porci. L’unico porco è lui e quel maledetto Libero Cetroma che sapeva tutto e niente c’ha detto». Pier Giuseppe con le parole ci sapeva proprio fare e in un solo istante non solo si riavvicinò Fabrizio ma unì ancora di più Gaetano, Pietro, Ernesto, Michele ed Errico: quelli la pensavano così, erano giovani e sprezzanti del pericolo e pure Anna in cuor suo sapeva che quella era la scelta giusta.
Come cani bastonati, con la coda fra le gambe, gli inquilini rincasarono, si sarebbero incontrati dopo cena nell’appartamento di Cristiano Dome. Aveva l’appartamento più grande e più bello di tutti, sarebbe stato perfetto per la riunione. Avrebbero usato il metodo di Giuseppe Cinelle, avrebbero votato e che c’era di meglio! Ognuno avrebbe espresso la sua, avrebbero preso le proposte migliori, tutto alla luce del sole tutto chiaro a tutti perché lì l’unica cosa che contava era non essere buttati fuori di casa. Tornando a casa Cristiano Dome fu poi incaricato all’unisono di chiamare anche quella bestia – così lo definì Pietro – di Libero Cetroma. E chi doveva farlo se non lui. Ogni domenica andavano insieme in chiesa, spesso parlavano e poi per giunta andavano pure d’accordo, avevano i loro alti e bassi ci mancherebbe eppure tra tutti gli abitanti gli unici che parlavano con i Cetroma erano i Dome.
Tornata a casa Anna si mise a cucinare, Angelico si abbandonò sul divano e sprofondò in un sonno profondo e dormì, dormì e dormì ancora come non faceva da tempo. Si svegliò dopo qualche ora a causa di un piatto che cadde e spaccandosi interruppe il suo magnifico sogno. Viveva in una casa bellissima e nel quartiere, nella città tutta, non c’erano che altre case proprio come quella. Tutti avevano un lavoro dignitoso e nessuno aveva voglia di fregare l’altro. No si pregava in quella città, l’unica cosa che contava era il bene e rispetto reciproco; la gente sorrideva sempre e si sentiva appagata.
«Anna, dove stanno Errico ed Ernesto?» disse alla moglie ancora mezzo insonnolito «stanno qui a fianco, mangiano da quei ragazzi» disse lei «Tu perché non sei andato?» disse Angelico rivolgendosi a Michele «non mi andava» fece lui seccato «ho detto loro cosa fare, sono in gamba, capiranno». «Tu non prendi mai parte non è vero?» Disse Angelico con un sorrisetto «no» ribatté Michele «io prendo parte solo quando serve, c’è bisogno di prender coscienza ora, arriverà il mio turno, arriverà». Angelico lo guardò quasi colpito, perché quel ragazzo, nonostante la giovane età sapeva veramente il fatto suo. E non solo perché collaborava con quei giornaletti che lo pagavano solo quando scriveva ma perché aveva un modo di vedere il mondo diverso dai suoi coetanei. Non riusciva a spiegarsi Angelico, malgrado la sua saggezza, se il suo modo di veder fosse giusto o sbagliato, fatto sta che lo accettava.
Poco dopo erano tutti schierati a casa di Cristiano Dome, la moglie aveva preparato qualcosina da metter sotto i denti e la figlia per l’occasione, dopo aver pregato nostrosignore e ringraziarlo per tutte le cose belle che ha donato solo ai più fortunati, era già andata a dormire. All’appello mancava solo Adolfo Luminossi che poco dopo arrivò. Entrò zoppicando, il poveraccio proprio come alcuni dei presenti in sala era caduto sul gradino rotto della rampa dei Cetroma, lui lì non ci passava mai, abitava un piano più giù e di quel gradino ne aveva solo sentito parlare. Con lui c’erano anche i suoi figli, Italo e Romano. La signora Aida e la figlia più piccola, Edda, non vennero, le donne non si dovevano immischiare degli affari importanti, o almeno così la pensava Adolfo. Nel grande tavolo da pranzo del bel soggiorno le famiglie si accomodarono e si preparavano a prendere una decisione. Cristiano Dome si sedette a capo tavola con sua moglie vicino, quasi però in ombra. Ai lati del tavolo v’erano da una parte, al fianco di Cristiano, Adolfo con i figli, di fronte a loro Angelico con Anna e Michele, seguiti da, Pier Giuseppe e Pietro. Dietro di loro in piedi, Gaetano, Errico ed Ernesto. Dall’altra parte del tavolo, di fronte a Cristiano c’era Fabrizio, poi i coniugi Cinelle ed infine una sedia vuota, quella di Libero Cetroma che come previsto da molti non si era presentato.
«Bene, signori» disse il padrone di casa «facciamo il punto della situazione e troviamo una soluzione». Fu ribadito ancora una volta il motivo dell’incontro e una volta chiaro a tutti – anche se chiaro lo era già – diedero il via alle proposte. E quante proposte che vi furono, di cotte e di crude, di belle e di brutte, proposte folli, assurde, sensate, realizzabili, compromettenti, scabrose, dannose e addirittura immorali. Insomma, quelli più parlavano e più non andavano d’accordo: ogni famiglia aveva un modo di vedere le cose e compromessi proprio non arrivavano. Durante la bagarre linguistica persino quegli ottusi ignoranti di Italo e Romano provarono a dire la loro e più volte. Ma Adolfo ogni volta che aprivano bocca li seccava con lo sguardo e a volte pure con le mani. Se c’era qualcuno che poteva e doveva parlare a nome della famiglia Luminossi quello era Adolfo e su questo non si discuteva. Cristiano Dome riproponeva ogni volta la linea morbida, non voleva creare scandali e non voleva troppi chiacchiericci, voleva risolvere la questione con Fiprotto in maniera rapida e ragionevole, non per forza alla luce del sole e lui di accordi e compromessi era gran maestro. Quelli più uniti sembravano proprio i Martelli, che sotto la sapiente mediazione di Michele riuscirono a trovare un accordo con Pier Giuseppe e Pietro, che sembravano proprio la mente del gruppo. Ernesto, Errico e Gaetano erano sempre pronti ad agire ma quando si trattava di ragionare non erano scaltri come gli altri. Tuttavia, nonostante la loro pacifica convivenza ogni volta che Michele, Pier Giuseppe e Pietro smettevano di parlare quelli tendevano a dividersi, persino Angelico non riusciva a tenerli uniti. Il più anziano pareva un’istituzione da rispettare ma che poi alla luce dei fatti non aveva grande potere, fortunatamente l’attività di mediazione dei tre non veniva interrotta spesso e così i Martelli e i quattro che abitavano all’appartamento di fianco bene o male andavano d’accordo. Pure Giuseppe Cinelle si lasciava convincere spesso da quelli, però lui era troppo vulnerabile e sì, non aveva una sua idea. Una volta stava i Martelli, una volta con i ragazzi, poi con i Dome e addirittura a volte prendeva la posizione di Luminossi o addirittura giustificava Fiprotto e Libero Cetroma, era una mina vagante, non offriva garanzie. L’unico che restò pacato per tutto il tempo era Fabrizio. Quello di prender posizione proprio non ne voleva sapere, anzi piuttosto cercava di far capire a tutti che malgrado le scelte diverse e la lotta verso un nemico comune l’accanimento era sbagliato: Fiprotto e Cetroma erano sì dei poco di buono, dei ricchi che volevano continuare ad arricchirsi ma in fondo erano pur sempre uomini. Avevano i loro problemi e le loro difficoltà, forse non economiche ma comunque anche loro erano dei poveri Cristi che portavano una croce. Fabrizio voleva semplicemente invitare tutti ad avere toni più calmi, più pacati ma più che uno di loro sembrava un santo: era assente dalla discussione. Gli altri cercarono di capirlo ma lì c’era bisogno di azione e non di compassione, così il suo messaggio non passò: arrivò forse nel cuore di molti ma poi nessuno aveva capito bene come metterlo in pratica.
Alla fine della fiera, dopo qualche ora di colloquio, le soluzioni che prevalsero furono tre: la prima, la propose Adolfo Luminossi e consisteva nel mettere paura a quello smidollato di Fiprotto. Come soluzione non è che fosse un granché ma d’altra parte cosa poteva partorire quella mente ottusa del Luminossi. Voleva spaventarlo, intimidirlo in modo da indurlo a rinunciare al progetto, secondo lui, Fiprotto era un agnellino indifeso, quello invece più che agnello sembrava un leone ed era pure affamato. L’altra arrivò direttamente dalla mente di Michele, che dopo aver discusso con Pier Giuseppe e Pietro, che facevano le veci anche di Fabrizio e Gaetano espose l’accordo anche al resto dei Martelli, che un po’ scettici aderirono. Il programma era semplice: occupare la palazzina. Si sarebbero barricati in casa finché non avrebbero trovato un accordo. «Pure se ci vorrà un anno noi lo faremo» diceva Michele con il sostegno degli altri «Ci sto» disse a sorpresa Angelico «ma ad una condizione, tutti e dico tutti uniti». Voleva garanzie Angelico, troppe le delusioni prese in vita sua e un altro schiaffo proprio non l’avrebbe tollerato e per giunta avrebbe avuto l’occasione giusta per farla pagare a quell’animale di Libero Cetroma. La seconda soluzione univa i Martelli, i ragazzi libertini e nei loro limiti pure i coniugi Cinelle. Storcevano il naso Adolfo Luminossi e Cristiano Dome. Il primo proprio non sopportava che il suo piano fosse stato scartato, il secondo invece non voleva azione rivoluzionaria, altre cose aveva in mente e le espose da bravo stratega e comunicatore qual era.
«Signori» disse Cristiano Dome con tono pacato ed autorevole guadagnandosi l’attenzione generale. «Sono veramente entusiasta, insomma, ci incontriamo qui, tutti affiatati per difendere una cosa comune, quest’amore reciproco verso qualcosa nemmeno a Natale l’avevo visto mai in questa palazzina, sono contento». Complimenti vari, approvazione di tutte le idee, Cristiano Dome aveva lanciato l’amo e i pesci, anche quelli più feroci stavano per abboccare. «Tuttavia credo che le vostre proposte, per quanto ingegnose ed argute siano, sono errate» disse poi, destabilizzando l’ambente. «Noi non vogliamo essere lo zimbello del quartiere che occupa una palazzina e per quanto tempo poi? È un suicidio, un suicidio» i Cinelle annuirono subito e poco dopo anche Luminossi, i primi pesci avevano abboccato, restava da far uscir dall’acqua i Martelli e quei quattro ragazzi, qui il lavoro era complicato ed era proprio questo che emozionava Cristiano lo stratega. «L’unica soluzione che io vedo possibile» continuò poi «è aggirare il problema, costringere in maniera legale Fiprotto a non vendere». «Come si fa?» Disse Michele che scettico non abboccò all’artificio linguistico di Cristiano Dome «come già detto nel pomeriggio» rispose Cristiano «ho un amico in comune che ha un cugino avvocato, entrambi mi devono dei favori, grossi favori. La mia famiglia vedete è molto… lasciamo stare». Cristiano Dome fece una pausa, una pausa voluta e si guardò intorno per gustarsi la scena. Con quell’ultima frase aveva fatto volutamente intendere a tutto il tavolo che lui aveva una cosa che gli altri non avevano e forse mai avrebbero avuto: il potere. I ragazzi Martelli e gli altri capirono subito le intenzioni subdole di Cristiano Dome e pure Anna e soprattutto Angelico che era sì buono ma mica scemo! E proprio Angelico sapeva che Cristiano giocava sporco, sapeva però anche che lui era l’unico che poteva risolvere la questione in maniera rapida ed indolore. «Continua, Cristiano» disse autorevole Angelico «L’amico che ho al comune e colui che interviene direttamente su certi aspetti burocratici, insomma se non c’è il suo permesso non si può costruire. Gli suggerirò di modificare il progetto dei nuovi appartamenti signorili, escludendo il terreno del dott. Fiprotto dal progetto». L’idea convinse subito Luminossi e Cinelle che orami da quell’amo non si sarebbero più staccati, anche Angelico Martelli stava per abboccare ma lui era difficile da pescare, anche se avesse abboccato lui gli altri lo avrebbero seguito a ruota oppure si sarebbero messi da parti isolati e innocui. «Ma questo è un terreno privato» disse Pier Giuseppe che di queste cose se ne intendeva «se Fiprotto decidesse di vendere lo stesso?» aggiunse poi. «Oh non lo farà» ribatté Cristiano Dome «non lo farà perché io ho sempre un piano di riserva. Una volta modificato il progetto renderemo il terreno inedificabile ma ciò non lo saprà nessuno, sarà la nostra garanzia contro di lui» concluse poi.
I figli di Luminossi scimmiottavano e ridevano come degli imbecilli, quelli avevano abboccato appena Cristiano aprì bocca. La famiglia Martelli e i ragazzi erano ancora troppo titubanti: avrebbero sì mantenuto la loro casa ma sarebbero stati pedine nelle mani di Cristiano Dome a vita e per giunta avrebbero tradito quei valori etici e morali che tanto difendevano.
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