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Consegna prevista Agosto 2025
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Hai mai sognato di poter riscrivere il tuo destino? Di cambiare la realtà con il semplice tratto di una penna?
Per Ethan, giovane scrittore dal talento straordinario, questo sogno è diventato una pericolosa realtà: scopre che le sue parole hanno il potere di plasmare non solo storie, ma interi mondi. La sua penna è la chiave per sbloccare i segreti della misteriosa Pietra del Destino, un artefatto in grado di riscrivere il tessuto stesso dell’universo.
Ma Ethan non è solo in questa avventura che sfida l’immaginazione: al suo fianco ci sono l’intrepida Isobel, l’enigmatico James e il saggio Robert, ognuno con i propri segreti e le proprie motivazioni. Insieme dovranno attraversare continenti e dimensioni alla ricerca di frammenti dispersi, in una corsa contro il tempo.
Perché quando si gioca con le parole del destino, ogni frase può essere l’inizio di una nuova realtà… o la fine di tutto ciò che conosciamo.

Perché ho scritto questo libro?

Questo libro è nato dall’urgenza di dimostrare che meritiamo un posto nel mondo non per i titoli che abbiamo, ma per le storie che portiamo dentro. È una storia di magia e di possibilità, di riscatto e di coraggio, scritta da qualcuno a cui è stato detto troppo spesso “Tu non puoi!”. È il mio modo di aprire le porte del mio hangar e spiccare il volo. È un invito a tutti quelli che si sentono chiusi nei loro hangar a dare motore ai propri sogni, credere in un pizzico di magia e prendere il volo.

ANTEPRIMA NON EDITATA

 

Capitolo 1

“Nascosto nel cuore profondo della vasta foresta, dove alberi millenari si intrecciavano per formare una volta magica, e creature selvagge danzavano con grazia tra le sfumature di luce e ombra, risiedeva Yaki, un possente leone dalla criniera scintillante come oro. La sua maestà era innegabile: il corpo muscoloso e possente si muoveva con una grazia felina che contrastava con la sua forza bruta. Il suo manto, di un dorato intenso, catturava e rifletteva la luce del sole, creando l’illusione di un’aura regale intorno a lui.

La criniera di Yaki era la sua corona, folta e lussureggiante, con sfumature che andavano dall’oro scuro al quasi bianco. Ogni ciocca sembrava avere vita propria, ondeggiando al più lieve soffio di vento, creando un effetto ipnotico. Le sue zampe, possenti e dotate di artigli affilati, lasciavano impronte profonde nel terreno morbido della foresta, un segno tangibile del suo passaggio e del suo dominio.

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La sua possanza e maestosità lo avevano reso sovrano indiscusso di quei territori, il regnante incontrastato dell’habitat lussureggiante. Eppure, nonostante la sua forza fisica imponente, era la sua presenza a comandare davvero il rispetto. C’era qualcosa nel modo in cui Yaki si muoveva, nel modo in cui i suoi occhi scrutavano l’ambiente circostante, che parlava di una saggezza antica, di un’intelligenza acuta che andava ben oltre l’istinto animale.

Le sue grida ruggenti echeggiavano attraverso la foresta, annunciando la sua potenza ai suoi sudditi e intimidendo qualsiasi intruso osasse violare il suo dominio. Il suo ruggito era una sinfonia di potere, un suono che faceva tremare la terra stessa e che incuteva rispetto e timore in ogni creatura che lo udiva. Era un richiamo alla natura stessa, un ricordo che in questo regno selvaggio, Yaki era la legge incarnata.

Nella sua fortezza naturale, sotto la folta vegetazione e protetto dalle rocce imponenti, Yaki governava con fierezza e saggezza, regnando sul mondo selvaggio che lo circondava. La sua tana era nascosta in una grotta profonda, le cui pareti erano levigate dal passaggio di generazioni di leoni reali. L’entrata era parzialmente nascosta da viti rampicanti e felci giganti, offrendo protezione e privacy.

All’interno, il pavimento era coperto da un soffice tappeto di muschio, un lusso naturale degno di un re. Qui, Yaki si ritirava per riposare e riflettere, lontano dagli occhi dei suoi sudditi. Era in questi momenti di solitudine che il possente leone si permetteva di abbassare la guardia, di esplorare i dubbi e le preoccupazioni che non poteva mostrare al suo regno.

Gli occhi di Yaki brillavano come due soli in un cielo notturno, con riflessi dorati che danzavano tra le iridi come stelle scintillanti. Erano occhi che avevano visto molte stagioni passare, occhi che contenevano la saggezza di innumerevoli esperienze. Ogni sguardo del re della foresta era come un dipinto vivente, trasmettendo emozioni profonde e misteriose che catturavano l’anima di chiunque incrociasse il suo sguardo.

Le pupille dilatate di Yaki sembravano contenere segreti millenari, antichi come la terra stessa su cui camminava. C’era una profondità in quegli occhi che parlava di gioie e dolori, di vittorie e sconfitte, di momenti di trionfo e di profonda solitudine. Erano gli occhi di un leader che portava il peso del suo ruolo con dignità, ma che non era immune ai dubbi e alle preoccupazioni che accompagnavano tale responsabilità.

Quando i suoi occhi si posavano sul regno che dominava, un senso di riverenza misto a terrore si diffondeva tra gli abitanti della foresta. Le creature più piccole si nascondevano tra i cespugli, i loro cuori che battevano all’impazzata al solo sentire l’odore del grande re. I conigli si rannicchiavano nelle loro tane, le orecchie appiattite contro il corpo in segno di sottomissione. Gli uccelli si zittivano, creando un silenzio carico di aspettativa ogni volta che Yaki passava.

I predatori più imponenti, come le pantere e i leopardi, abbassavano il capo in segno di rispetto, riconoscendo in Yaki non solo un rivale più forte, ma un vero sovrano. Persino i giganteschi elefanti, con tutta la loro massa e forza, mostravano deferenza al passaggio del leone, le loro proboscidi che si abbassavano in un saluto silenzioso.

La presenza di Yaki incarnava la legge non scritta di quel mondo primordiale, dove l’equilibrio tra la vita e la morte era mantenuto con fermezza. Era un equilibrio delicato, che richiedeva saggezza e forza in egual misura. Yaki comprendeva profondamente questa responsabilità, sapendo che ogni sua decisione poteva influenzare l’intero ecosistema della foresta.

Ogni battito delle sue lunghe ciglia sembrava sussurrare antiche profezie, mentre lo sguardo intenso scrutava ogni angolo del regno con una precisione da predatore supremo. Yaki aveva imparato a leggere i segni della foresta: il modo in cui il vento faceva frusciare le foglie, il canto degli uccelli all’alba, persino il movimento delle nuvole nel cielo. Tutto questo gli parlava, raccontandogli storie di ciò che accadeva nel suo regno.

Gli occhi dorati di Yaki erano il riflesso dell’anima selvaggia e indomita che bruciava dentro di lui, una fiamma eterna che illuminava il cammino perduto dei figli della foresta. Era questa fiamma interiore che lo spingeva ogni giorno a proteggere e guidare il suo regno, anche quando il peso della corona sembrava troppo da sopportare.

Il mattino si schiudeva come un bocciolo di rosa, con la timida luce del sole che filtrava tra le fronde degli alberi. I raggi dorati dipingevano macchie su un tappeto di foglie colorate, creando una sinfonia di colori accesi. L’aria frizzante era densa di suoni: il canto melodioso degli uccelli, il fruscio delle foglie mosse dal vento e il dolce profumo della natura in fiore.

La foresta si risvegliava lentamente, ogni creatura che emergeva dal suo rifugio notturno per salutare il nuovo giorno. Le scimmie chiacchieravano tra i rami più alti, i loro richiami che rimbalzavano da un albero all’altro. I cervi si avventuravano cautamente nelle radure, le loro orecchie sempre all’erta per ogni possibile pericolo.

In questo angolo di paradiso terrestre, Yaki si nascondeva dietro un cespuglio, i suoi occhi scrutavano intensamente ogni dettaglio della scena davanti a lui, come un pittore che studia la sua tela prima di iniziare a dipingere. Il suo corpo era teso, ogni muscolo pronto all’azione. La sua coda si muoveva lentamente, l’unico segno visibile della sua eccitazione per la caccia imminente.

La sua attenzione era catturata da una gazzella graziosa, le cui zampette sottili si immergevano con grazia in uno specchio d’acqua scintillante. L’animale si abbeverava con la delicatezza che solo la natura poteva insegnare, ignara di quel guardiano silenzioso che la osservava con un misto di rispetto e desiderio.

La gazzella era una creatura di rara bellezza. Il suo mantello, di un marrone chiaro con sfumature dorate, brillava sotto i primi raggi del sole. Le sue zampe lunghe e snelle parlavano di velocità e agilità, mentre i suoi occhi grandi e scuri sembravano riflettere l’innocenza stessa della foresta. Le sue orecchie si muovevano costantemente, attente a ogni suono, pronte a captare il minimo segnale di pericolo.

Nel cuore di Yaki, pulsava un istinto antico e primordiale, l’istinto del cacciatore che aveva guidato generazioni di leoni. Sentiva l’adrenalina scorrergli nelle vene, i suoi sensi si acuivano, focalizzandosi completamente sulla sua preda. Poteva sentire l’odore della gazzella, percepire il battito del suo cuore, quasi assaporare la sua carne.

Eppure, c’era qualcosa di diverso in questa caccia. Yaki si sorprese a notare dettagli che di solito ignorava: la grazia con cui la gazzella si muoveva, la delicatezza con cui le sue labbra sfioravano l’acqua, la pacifica bellezza della sua presenza nella foresta. Per un momento, il re della foresta esitò, combattuto tra il suo ruolo di predatore e una nuova, inaspettata ammirazione per la sua preda.

Le gambe muscolose della gazzella si muovevano con agilità, e il cuore di Yaki batteva sempre più forte, un ritmo martellante che si fondeva con l’energia che scorreva nelle sue vene. Era il momento del balzo, il momento di catturare la sua preda. Con un respiro profondo, il leone raccolse tutte le sue forze, pronte a scatenarsi con la potenza di un fulmine.

Il balzo fu un’esplosione di forza e grazia combinati. Il terreno sotto le sue zampe tremò mentre Yaki si lanciava fuori dal cespuglio, la sua voce si unì al frastuono della foresta in un ruggito possente che faceva eco tra gli alberi. Il suo aspetto era regale e spietato, come una divinità della caccia, pronto a rivendicare il suo diritto di dominio.

Nel momento più cruciale, accadde qualcosa di straordinario. La gazzella si girò e i suoi occhi incrociarono quelli di Yaki. Fu uno sguardo improvviso, che durò solo un attimo, ma che rivelò una meraviglia e una sorpresa inaspettate. In quel breve istante, il leone vide il riflesso di sé stesso negli occhi della gazzella. Era come se guardasse uno specchio, ma con emozioni e pensieri diversi dai suoi. Lo stupì profondamente, lasciandolo senza fiato.

Il ruggito del leone, potente e selvaggio, si spezzò all’istante mentre saliva dalle sue fauci. La gazzella, agile e svelta, era già in movimento per sfuggire alla morte che la minacciava dall’altra parte della distanza. Ma l’attacco così temuto e pianificato si trasformò in un balletto maldestro e grottesco.

Il corpo del leone si contorceva in una serie di acrobazie insensate, ruotando nell’aria come un pezzo di stoffa mosso dal vento. La gazzella si fermò di colpo, incredula e spaventata ma allo stesso tempo divertita dalla buffonata involontariamente messa in scena da Yaki. Dopo diversi tentativi falliti di riottenere il controllo dei propri arti, il leone atterrò con un tonfo goffo a pochi passi dalla sua potenziale preda, entrambi sorpresi e incapaci di resistere all’ilarità del momento.

La gazzella si ritrasse di qualche passo, ma il suo sguardo rimase incollato a quello di Yaki. C’era un’aura di curiosità in quegli occhi scintillanti, una luce che rivelava una profondità insospettata. Era un momento carico di tensione e allo stesso tempo di sorpresa, in cui due mondi incongruenti si erano sfiorati, incrociati in una collisione di destini.

Il silenzio della foresta sembrava amplificare ogni respiro, ogni battito di cuore. Le foglie sussurravano segreti al vento, mentre i raggi del sole danzavano tra i rami, creando un gioco di luci e ombre che sembrava riflettere la complessità del momento.

Mentre Yaki cercava di liberarsi dalla bizzarra situazione che si era presentata, un sentimento sconosciuto cominciò a nascere nel suo cuore. Non era più solo il feroce cacciatore, ma anche una creatura in cerca di affetto e comprensione. La confusione nei suoi occhi era evidente, mescolata a una curiosità che non aveva mai provato prima.

La gazzella, ora, non rappresentava più solo una preda da sopraffare, ma un essere vivente con le sue paure, desideri e una profonda curiosità. Yaki la osservava con occhi nuovi, notando la grazia dei suoi movimenti, la delicatezza delle sue forme, la vivacità del suo sguardo. Era come se la vedesse veramente per la prima volta.

Era un momento di sospensione, in cui il tempo sembrava fermarsi, consentendo loro di guardarsi negli occhi e, per un attimo, intuire l’anima dell’altro. Yaki si sentì come se fosse stato svegliato da un lungo letargo, come se la gazzella avesse svelato un mondo di possibilità e significati al di là della caccia e della supremazia. Una sensazione di confusione e meraviglia si mescolava dentro di lui, rendendolo più vulnerabile di quanto avrebbe mai immaginato.

Il possente leone, abituato a comandare e a incutere timore, si trovò improvvisamente incerto su come comportarsi. I suoi istinti gli dicevano di attaccare, di completare la caccia, ma qualcosa di più profondo lo tratteneva. Era una sensazione nuova, sconosciuta, che lo lasciava disorientato ma stranamente eccitato.

Dopo un breve istante di incertezza, la piccola gazzella decise di prendere l’iniziativa. Con un coraggio che sorprese entrambi, si avvicinò con passo lento ma sicuro. Il suo corpo era ancora teso, pronto a scattare al minimo segno di pericolo, ma nei suoi occhi brillava una determinazione sorprendente.

Il suo sguardo tenace incontrava quello del possente leone, sfidando secoli di istinto predatorio. «Salve, Yaki» disse con voce melodiosa, un sorriso lieve sulle labbra. La sua voce era dolce come il miele, ma ferma come la roccia. «Sono Aurora, una gazzella del tuo regno. Spero che la mia presenza non ti dia fastidio.»

Yaki rimase sbalordito. Mai prima d’ora una preda aveva osato rivolgergli la parola, e certamente non con tale grazia e coraggio. Per un momento, il grande re della foresta si trovò senza parole, catturato dalla bellezza e dall’audacia di Aurora.

Recuperando la sua compostezza regale, Yaki si inchinò leggermente, un gesto di rispetto che avrebbe potuto sorprendere chiunque l’avesse visto. Il possente predatore che si inchinava davanti a una piccola gazzella era uno spettacolo che sfidava ogni logica della giungla.

«L’onore è mio, Aurora» rispose con calma, gli occhi fissi su di lei. La sua voce, solitamente un ruggito potente che faceva tremare la foresta, era ora morbida e gentile. «Sono io che sono grato di averti incontrata. Sei benvenuta nel mio regno.»

L’atmosfera si distese gradualmente, come un velo sottile che si alzava tra di loro. Le parole di Yaki suonavano sincere, prive di tracce di minaccia o dominio. Era evidente che qualcosa di straordinario era accaduto tra loro, un’intesa che andava oltre la natura stessa.

Le loro voci si intrecciarono come una melodia, creando un momento di armonia tra un predatore e la sua possibile preda. Il contrasto tra la voce profonda e possente di Yaki e il tono dolce e melodioso di Aurora creava una sinfonia unica, un duetto improbabile ma stranamente affascinante.

Aurora si permise un leggero sorriso di gratitudine, riconoscendo in Yaki una profondità di spirito che andava oltre l’apparenza maestosa. I suoi occhi brillavano di una luce nuova, mista di curiosità e ammirazione. «Ho sentito parlare di te, Yaki» disse, lasciando che la sua voce trasmettesse una nota di rispetto. «Le storie della tua regalità e saggezza si sono diffuse attraverso la foresta.»

Yaki abbassò la testa modestamente, in una sensazione di orgoglio mista ad umiltà. Il gesto, così insolito per un predatore della sua statura, rivelava un lato di lui che pochi avevano mai visto. «Le storie sono spesso frutto di esagerazioni» disse con un sorriso appena accennato, «ma sono grato che tu abbia sentito parlare di me. La foresta è il mio regno, e cerco di mantenerla in equilibrio.»

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Vincenzo “Hangar Settantanove” Rigucci
Mi presento con lo pseudonimo di Hangar Settantanove, un nome che porta con sé il peso dei miei sogni e delle mie paure. Ho solo la terza media, e crescendo mi sono spesso sentito fuori posto in un mondo che misura il valore delle persone attraverso i titoli di studio. Quell'"hangar" è diventato il mio rifugio, il luogo dove mi sono chiuso per proteggermi dai giudizi, ma anche lo spazio dove ho coltivato la mia passione per la scrittura.
Ho imparato a volare con le parole, nutrendomi di musica e poesia. La mia "università" è fatta di testi di canzoni, di storie rubate tra le pagine dei libri, di emozioni tradotte in frasi. Ho imparato che la creatività non chiede il tuo curriculum, che si può essere 'dottori in sogni' anche senza una laurea.
Dal mio hangar potrà non uscire un jet supersonico, ma a anche un semplice aeroplanino di carta può donare allegria a chi lo incontra.
Vincenzo “Hangar Settantanove” Rigucci on Instagram
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